Prolusione accademica della Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura

 

Il ruolo della santità nel cammino della Chiesa

Prolusione accademica della Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura

 

Leggendo il titolo suggeritomi per questa prolusione al nuovo anno accademico, la mia attenzione è stata subito attratta dalla parola cammino: un termine che, certo, ha a che fare con la santità. Non si titola, forse, itinerarium un’opera fondamentale di san Bonaventura? Qui egli parla delle sei ali del Serafino alato, che in forma di Crocifisso apparve a Francesco d’Assisi; ali che Bonaventura spiega come le tappe che conducono l’homo viator alla pace della contemplazione; ossia a quella pace che su questa terra anticipa la visione facie ad faciem della vita futura: Effigies igitur sex alarum seraphicarum insinuat sex illuminationes scalares, quae a creaturis incipiunt et perducunt usque ad Deum, ad quem nemo intrat recte nisi per Crucifixum.[1]

Il termine «cammino» mi ha fatto pure tornare alla memoria le parole con cui papa Francesco dà inizio all’esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Scrive che Dio «ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente. In realtà, fin dalle prime pagine della Bibbia è presente, in diversi modi, la chiamata alla santità. Così il Signore la proponeva ad Abramo: “Cammina davanti a me e sii integro”». La citazione rimanda a Gen 17,1, dove il camminare davanti a Dio, o alla sua presenza è caratteristica dei giusti.[2] San Beda spiegava che cammina davanti a Dio colui che in ogni istante è consapevole di essere alla sua presenza e si considera al suo servizio, come Elia (cf. 1Re 17,1) la cui vita fu sempre un servizio obbediente a Dio, la cui presenza era sempre fissa nel suo animo.[3] La santità non è, dunque un qualcosa di dato una volta per tutte, ma una crescita: tale è la santità del discepolo di Cristo, tale è pure la santità della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II ci ricorda che il Signore ha fatto alla Chiesa il dono del suo Spirito «perché ci rinnovassimo continuamente in lui». Anche in questo noi siamo un popolo peregrinante; impegnati in un continuo rinnovamento,[4] che si svolge «fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga».[5] Più avanti, nel capitolo quinto dedicato alla chiamata universale alla santità, la costituzione sulla Chiesa torna a dire che la santità del popolo di Dio, come è splendidamente dimostrato nella storia della Chiesa dalla vita di tanti santi, è una realtà sempre in crescita (cf. n. 40).

Modello per questo cammino, da ultimo è, secondo Lumen gentium, la Beata Vergine Maria, la quale «avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce» (n. 58). Alla luce di queste brevi premesse, desidero sottolineare due aspetti di questo cammino che è la santità.

 

La santità come cammino di personale configurazione a Cristo

Quando san Bonaventura parla del progressivo cammino verso l’unione con Cristo cita un brano dalla lettera di san Paolo ai Galati: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (2,19-20). La citazione del brano ritorna nel prologo di Lignum vitae dove Bonaventura scrive che proprio questo è il fine «del perfetto adoratore di Cristo, che desidera conformarsi perfettamente al Salvatore di tutti, crocifisso per lui» (Prol. 1); è presente, infine, nel De perfectione vitae dove la religiosa esemplare è invitata a «non cercare altro, non bramare altro, non domandare nessun’altra consolazione se non di partecipare alla morte del Crocifisso esclamando: Cristo vive in me» (cf. VI, 2).

Commentando questa frase paolina, il p. A. Vanhoye scrive che essa costituisce «una novità stupenda».[6] Come suo parallelo veterotestamentario si potrebbe scegliere il testo di Geremia: «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (31,33). Ciò metterebbe in luce la dimensione escatologica della vita cristiana, per cui l’affermazione di Paolo non vale solo per lui, né deve essere riservata all’esperienza mistica,[7] ma riguarda l’intera vita cristiana: di un cristiano in quanto tale.[8] Il modello cristiano presentato da Paolo è, in definitiva quello, di chi fa di Cristo il suo co-esistente, anzi – per ricorrere a R. Guardini – a Colui che «esiste-nel» (in-esiste) cristiano! In forza della fede il cristiano è, nel senso più reale, un con-formato a Cristo. Si tratta come esplicita B. Standaert, «del cammino che, in definitiva, tutti, diventando cristiani, si trovano a percorrere».[9]

Questo ci riporta alla dinamica del cammino. Non per nulla sant’Ambrogio scrive che è questo il processo interiore della vita del cristiano: Et nos habeamus processum vitae hujus, sicut habuit et Paulus qui dicit: Vivo autem jam non ego. Leggiamo: «Al serpente fu detto che avrebbe mangiato la terra, mentre ad Adamo fu detto: “Mangerai il tuo pane con il sudore del tuo volto”. Questo ci fa capire che c’è una progressione in queste cose. Quando mangiamo la terra, sembriamo esser pervasi da una sorta di malizia; quando mangiamo il fieno, sembra esserci un passo in avanti, ma quando poi mangiamo il pane la forza è completa. Vuol dire che pure noi in questa vita abbiamo una progressione, come l’aveva Paolo quando diceva: “Vivo, ma non sono più io”. Io non sono più quello che mangiava la terra e neppure quello che mangiava il fieno, poiché “tutta la carne è come l’erba”. Ma in me vive Cristo, cioè vive il pane vivente che è venuto dal cielo, vive la sapienza, vive la grazia, vive la giustizia, vive la risurrezione».[10]

San Bonaventura, dal quale siamo partiti, era un innamorato del Crocifisso. In casa, davanti alla mia scrivania ho posto una riproduzione a stampa di un dipinto di Francisco de Zurbarán (1598-1664) dove è riprodotta una visita fattagli dall’amico Tommaso d’Aquino il quale, ammirato per la sua sapienza, gli chiede: «Ma dove hai imparato tutte queste cose?». Bonaventura, indicando il Crocifisso, gli risponde: «Ecco la biblioteca da cui attingo tutto quello che so»![11] Nell’amore a Cristo, però, san Tommaso non gli era da meno. I biografi riferiscono che quando era in preghiera davanti all’immagine del Crocifisso nella cappella San Nicola a Napoli, si sentì dire da Gesù: «Tommaso, hai scritto bene sul mio conto! Che cosa desideri ricevere da me come ricompensa per il tuo lavoro?». «Nient’altro che te, Signore», fu la risposta di Tommaso[12] ed io amo aggiungere che è la risposta di un innamorato.

Lo vediamo pure dal suo commento a Gal 2,20. Il testo apre a due possibilità interpretative: la prima è che Paolo, quando dice: Ora io vivo intende affermare di non avere più la vecchia natura di peccato (vivere secondo la carne), ma quella nuova donata da Cristo. A questo primo significato, che espone in poche parole, Tommaso ne aggiunge un altro sul quale, stranamente per il suo dire estremamente sintetico, si diffonde alquanto. Cito:

Si dice che una persona vive di ciò su cui fonda principalmente i propri affetti e di ciò che le dà la massima gioia. Coloro, ad esempio, che prendono massimo piacere nello studio, o nella caccia dicono che è quella la loro vita. Ciascuno ha un affetto personale con il quale cerca ciò che gli è proprio. Ora, quando qualcuno vive cercando solo ciò che è suo, ecco che vive solo per se stesso; quando, però, cerca il bene degli altri, allora si dice che vive anche per loro. Ora, poiché per mezzo della croce di Cristo ha rinunciato al proprio affetto, l’Apostolo dice che è morto ai suoi personali affetti; dice. in altre parole: poiché «sono stato crocifisso con Cristo», ecco che attraverso la croce di Cristo il mio affetto personale è stato allontanato da me… Dice ora vivo e questo è come se dicesse: “ora non vivo io, quasi cercassi il mio bene, ma Cristo vive in me”. Cioè, ho solo Cristo nel mio affetto ed è Cristo la mia vita[13] … Vivono per davvero quelli che sono mossi da un principio interno. L’anima di Paolo si trovava tra Dio e il suo corpo: il corpo era vivificato e mosso dall’anima di Paolo, ma l’anima di Paolo era guidata da Cristo. Quanto, dunque, alla vita del corpo, Paolo viveva come tutti gli altri uomini ed è per questo che dice: «Ora vivo nella carne», ossia nella vita del corpo. In relazione, però, a Dio, era Cristo che viveva in Paolo ed è per questo che egli dice: «Vivo nella fede del Figlio di Dio», cioè attraverso questa fede Cristo abita in me e mi muove… Paolo spiega pure come è stato crocifisso alla croce e lo fa quando dice: «l’amore di Cristo che mi ha mostrato sulla croce mentre moriva per me, mi fa essere sempre unito a Lui».[14]

Le parole di commento di Tommaso somigliano a una fenomenologia dell’innamoramento, o all’antica etimologia della parola latina «cura»: cura dicta est, eo quod cor urat,[15] perché stimola e scalda il cuore, lo fa pulsare, lo consuma.

Emergono già due aspetti della santità: aprirsi a Cristo e lasciarsi attrarre da Cristo. Alla domanda: «Che accade, quando sta crescendo un santo?», R. Guardini rispondeva: «Accade qualcosa che deriva da Cristo. Una persona si è messa interamente a disposizione di Cristo, ed Egli l’ha attratta entro il suo particolare ambito creativo in cui esplica l’effetto della Sua presenza nella storia».[16] È una sorta d’irruzione di Cristo nella realtà personale di un suo discepolo, di un cristiano, di una cristiana. È qualcosa che ha una certa analogia con il mistero dell’Incarnazione. L’iniziativa è di Cristo; è quell’apparire della grazia di Dio di cui san Paolo scrive nella lettera a Tito: «È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (2,11).

Potremo aggiungere che si tratta di un avvento, che ha come sua praeparatio evangelica l’interiore disponibilità ad accogliere l’arrivo di Cristo. È quello che accade nella vita di tanti santi; di sant’Ignazio di Loyola, ad esempio, dove l’altalenarsi delle mozioni all’epoca della sua convalescenza, precede il suo incontro con Cristo: «Finché una volta non gli si aprirono gli occhi. Dio previene Ignazio con la Sua grazia: Dio è il primo; Ignazio, però, è pronto a corrispondervi subito con i suoi mezzi: si lascia meravigliare, si mette a riflettere… È l’esperienza interiore che si trova alla base della meditazione dei Due Vessilli».[17] Questo, d’altra parte, è pure un criterio di discernimento. Dice Isacco il Siro: «Quando il desiderio di Dio non è in te così forte da non farti sentire più tutte le tue afflizioni, a motivo della gioia che [provi] in lui, sappi che più di Cristo è il mondo che vive in te… sappi che non il Cristo, ma il corpo vive in te. In te vive ciò che esercita su di te un più forte desiderio…».[18]

Un modello di questa santità in gestazione, che si fa strada nel cristiano, è san Francesco d’Assisi, di cui la Leggenda dei Tre Compagni narra che, dopo la praeparatio evangelica nel dormiveglia di Spoleto, «d’improvviso, il Signore lo visitò, e n’ebbe il cuore riboccante di tanta dolcezza, che non poteva muoversi né parlare, non percependo se non quella soavità, che lo estraniava da ogni sensazione, così che (come poi ebbe a confidare lui stesso) non avrebbe potuto muoversi da quel posto, anche se lo avessero fatto a pezzi».[19] Come Francesco, tutti i santi «sono persone in cui avviene una nuova irruzione di Cristo, per tempi nuovi, o nuove cerchie di vita, o con tanta energia che anche per noi si chiariscono delle vie».[20]

C’è, però, un altro aspetto del cammino di santità ed è quello per cui chi veramente cammina è Cristo! Colgo questo aspetto dall’esperienza spirituale di santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, riguardo alla quale proprio ieri è stata resa pubblica l’esortazione apostolica di Francesco C’est la confiance sulla fiducia nell’amore misericordioso di Dio. Il Papa l’ha scritta per il 150º anniversario della nascita di Teresa, avvenuta ad Alençon il 2 gennaio 1873, e anche per il centenario della sua beatificazione (29 aprile 1923).

Nel Manoscritto A, ricordando la seconda volta in cui ricevette la Santa Eucaristia, Teresa cita Gal 2,20: «Le mie lacrime scorsero ancora con una ineffabile dolcezza, io mi ripetevo senza posa queste parole di S. Paolo: “Non sono più io che vivo, è Gesù che vive in me! ...”. Dopo questa comunione il mio desiderio di ricevere il Buon Dio divenne sempre più grande, e io ottenni il permesso di farla a tutte le feste principali. Alla vigilia di quei giorni felici Maria[21] mi prendeva sulle sue ginocchia e mi preparava come aveva fatto per la mia prima comunione; io mi ricordo che una volta mi parlò della sofferenza, dicendomi che io non avrei probabilmente camminato per quella via, ma che il Buon Dio mi avrebbe portato sempre come una bambina...».[22] Nella sua esortazione apostolica Francesco riporta anche l’immagine dell’ascensore usata da Teresa: «L’ascensore che mi deve innalzare fino al Cielo sono le tue braccia, o Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, anzi bisogna che io resti piccola, che lo diventi sempre di più».[23]

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma riporto solo le parole di Benedetto XVI nell’ultima Udienza del mercoledì, il 27 febbraio 2013. Richiamando la celebrazione in corso dell’Anno della fede disse: «Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini».

Santità, allora, è pure essere «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Sl 131,2).[24] Una realizzazione completa di questa figura di santità cristiana è Francesco d’Assisi. Una sua frase abituale per i suoi frati era: «Riponi la tua fiducia nel Signore ed egli avrà cura di te».[25] Tutti i santi esprimono Cristo, traducendo di lui un aspetto particolare in corrispondenza ai tempi, ai bisogni umani, alle istanze ecclesiali. «Ciascun santo è un messaggio che lo Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo», scrive Francesco, il quale ha pure detto che «un Santo che non ti rimanda a Gesù Cristo non è un santo, neppure cristiano».[26] Romano Guardini, però, scrive che «Francesco fa di più: egli non traduce, bensì rende nuovamente presente [vergegenwärtig]. Chi giunge a lui deve pensare a Cristo … La sua figura è costruita in modo tale, la sua parola, i suoi gesti, la sua vita intera sono tali da essere concretizzazioni immediate del Vangelo; sequela letterale; imitazione pura dell’esistenza di Gesù senza alcuna attenuazione e reinterpretazione – tanto che è il volto stesso di Cristo a trasparire dal suo, sono i gesti di Cristo a manifestarsi nei suoi. Non so di nessun altro, del quale si possa affermare lo stesso».[27]

 

La santità come vocazione comune

Nel passato – potremmo dire sino al Vaticano II – il tema della santità sembrava essere limitato a pochi eletti, eroi della cristianità, il cui nome era ricordato dai martirologi e dai calendari ed era ripreso nel Battesimo per i figli e le figlie delle famiglie cristiane. Di questi santi si potevano narrare le storie, riferire i miracoli, studiare il pensiero. Se poi si comparavano gli stati di vita non era raro leggere che, ad esempio, al sacerdote si richiede una santità maggiore rispetto al fedele laico.

Il Codice di Diritto Canonico del 1917 lo esigeva esplicitamente: Clerici debent sanctiorem prae laicis vitam interiorem et exteriorem ducere eis virtute et recte factis in exemplum excellere (can. 124). H. U. von Balthasar segnalava espressamente questa situazione in un suo testo anteriore al Vaticano II: «La spiritualità dell’elemento gerarchico rimane fino ai nostri giorni indirettamente caratterizzata ed aggravata da una grandiosa teologia tardo-antica della “gerarchia ecclesiastica” di Dionigi l’Areopagita, che, incurante di ogni realismo del peccato, ha coscientemente sottolineato soltanto la Chiesa ideale, quella che “deve essere”: l’identità pertanto di ministero e santità, di un ministero superiore con una santità superiore…».[28]

Ciò che di fatto era spesso fuori di prospettiva era la dimensione ecclesiale/comunitaria della santità. Qui si colloca, invece, il grande recupero della ecclesiologia del Vaticano II con la messa in luce della dimensione comunitaria della santità.[29] La collocazione, nella costituzione dogmatica Lumen gentium, dei primi due capitoli sul mistero della Chiesa e sul popolo di Dio anteriormente a quello sulla gerarchia esprime con sufficiente chiarezza la priorità della condizione comune in rapporto alle diversità specifiche all’interno della Chiesa.[30]

I capisaldi della riforma conciliare si potrebbero condensare in alcuni punti.[31] Anzitutto la riscoperta dell’unicità e unità della santità, che consiste nella pienezza della vita cristiana; quindi, la sottolineatura del sacerdozio comune di tutti i fedeli e del suo rapporto sia con la vocazione universale alla santità, sia con la missione generale della Chiesa; si aggiunga la scelta di non proporre un determinato stato di vita nella Chiesa come paradigma della perfezione cristiana; c’è, poi, l’affermazione che la chiamata universale alla santità è conseguente alla indefettibilità della santità della Chiesa (“ontologica” o “oggettiva”), che le proviene dalle due missioni divine (cf. LG 39); da ultimo, c’è il richiamo che questa condizione della Chiesa e dei fedeli che la compongono è una condizione escatologica ed esige perciò una permanente riforma.[32]

La dimensione comunitaria della santità deve pure ricordarci che non si è mai santi da soli. L’espressione «comunione dei santi» implica, come ricorda il CCC, «due significati, strettamente legati: “comunione alle cose sante” (sancta) e “ comunione tra le persone sante” (sancti)» (n. 948). Quest’ultimo senso può essere ampliato ed esplicitato per dire che pure il cammino della santità, la sua crescita e il suo rinvigorirsi hanno bisogno di comunione, di incontro, di incontri.

Una cosa che sempre mi sorprende, leggendo le vite dei santi canonizzati, è che molto spesso hanno incontrato altri santi con i quali si sono confrontati, reciprocamente aiutati, incoraggiati, confortati. Ricordo quando, nell’ottobre 2021, giunto a Cordoba, in Spagna, per la beatificazione di 127 martiri, ebbi occasione di visitare a Montilla la casa di san Giovanni di Avila, proclamato da Benedetto XVI dottore della Chiesa. Sul muro erano disposte le immagini dei santi e delle sante che avevano avuto un legame, o rapporto spirituale con lui.[33] In effetti, la vocazione alla santità è inseparabilmente personale e comunitaria. Quando Dio chiama una persona, è sempre per il suo popolo. Cito ancora santa Teresa di Gesù Bambino, che all’inizio della sua autobiografia scrive d’essersi chiesta per molto tempo

perché il Buon Dio aveva delle preferenze, giacché non tutte le anime ricevevano un livello uguale di favori… Gesù si è degnato di farmi Lui da istruttore, su questo mistero. Mi ha messo davanti agli occhi il libro della natura e io ho capito che tutti i fiori che Egli ha creato sono belli, che lo splendore della rosa e il candore del giglio non tolgono il profumo della violetta o la semplicità incantevole della margherita... Ho capito che se tutti i fiorellini volessero essere rose la natura perderebbe il suo abito di primavera, i campi non sarebbero più brillanti di fiorellini... Questa è la situazione anche nel mondo delle anime che è il giardino di Gesù. Lui ha voluto creare i grandi santi che possono essere paragonati al giglio e alle rose; ma ha creato anche i più piccoli, e questi debbono accontentarsi di essere margherite, o violette destinate a rallegrare gli sguardi del buon Dio quando si abbassa verso i suoi piedi. La perfezione consiste nel fare la sua volontà, nell’essere quello che Lui vuole che siamo...[34]

Il paolino «vive in me Cristo» è sempre al tempo stesso nel cristiano e nella Chiesa. Nella sua opera più conosciuta e diffusa e anche quella a lui più cara, ossia Il Signore, quando tratta del mistero della Pentecoste R. Guardini sottolinea che l’opera dello Spirito è creare l’uomo nuovo, ossia l’uomo che ha in Cristo la forma vitale della propria esistenza. Poiché, però, quel che si può dire di un singolo cristiano si può dire di ogni altro, egli allarga, lo sguardo alla Chiesa e scrive: «Ne consegue una comunanza di derivazioni. In questa vita interiore, nata da Dio, noi siamo parenti. Formiamo la famiglia dei figli di Dio, tra i quali Cristo sta “come il primogenito tra molti fratelli” (Rm 7,29). L’esperienza genuina di questa comunanza è il Padre nostro. Qui parla il Noi cristiano. I figli di Dio, guidati dal loro Fratello maggiore, parlano al Padre comune».[35]

 

Conclusione

Ecco, dunque, le due modalità della presenza di Gesù: da una parte nell’intimo della singola persona, che lo ama e custodisce la sua Parola (cf. Gv 14, 23); d’altro canto «in mezzo» alle persone che sono riunite nel suo Nome (cf. Mt 18, 20). Scrive Francesco: «La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due».[36] Il Papa prosegue con degli esempi; qui, tuttavia, mi piace ricordare i beati coniugi Józef e Wiktoria Ulma con i loro sette figli, beatificati nel loro villaggio natale di Markowa, in Polonia, il 10 settembre scorso: la beatificazione. È stato un evento inedito per i nostri tempi recenti e anche per le attuali procedure. Ci sono state, infatti, famiglie dichiarate sante, ma con singole canonizzazioni. Si tratta di martiri, certo, ma la testimonianza che lasciano alla Chiesa è quella di una fedeltà cristiana che, vissuta in una famiglia, ha fatto maturare nella fede, nella speranza e nella carità tutti i suoi membri; praticando pure l’ospitalità, «senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Ebr 13,1).

Anche per loro si è inverato ciò che scrive il Papa: «Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale. San Giovanni della Croce diceva a un discepolo: stai vivendo con altri “perché ti lavorino e ti esercitino nella virtù”».[37]

 

Seraphicum-Roma, 16 ottobre 2023

 

Marcello Card. Semeraro

 

__________

[1] Cf. Itinerarium mentis in Deum, I, 3: «Le sei ali del Serafino ci aiutano a capire le sei successive illuminazioni spirituali, che a partire dalle creature conducono sino a Dio, al quale non si può giungere per la diritta via se non per il Crocifisso»

[2] Gen 5,24 riferito a Enoc e 6,9 riferito a Noè, «uomo giusto e integro

[3] Cf. Hexaemeron, IV: PL 91, 160.

[4] Si potrebbe qui riprendere il concetto di epektasis caro a san Gregorio di Nissa, ossia del progresso continuo nel bene e nell’avanzamento verso Dio: egli lo usa in rapporto a Fil 3,13-14 («io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù»); nell’uso Gregorio si ispira a Origene: «Quando abbiamo scoperto una realtà, ecco che da lì comincia un’altra esplorazione e allora si leva la tenda e ci si dirige verso luoghi più alti e spaziosi» (cf. In Numeros Hom. XVII, 4: PG 12, 706-707). Si veda ad esempio In Cant. Cantic. Hom. VI: PG 44, 853-838.

[5] Lumen gentium, n. 8.

[6] In Lettera ai Galati, Paoline, Milano 20226, p. 76.

[7] Il rimando a Gal 2,20 è molto frequente, ad esempio, nelle lettere di san Giovanni di Avila e negli scritti di santa Elisabetta della Trinità.

[8] Cf. A. Pitta, Lettera ai Galati, EDB, Bologna 1996, p.153.

[9] Le lettere di San Paolo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2021, p. 114.

[10] Ambrogio, De paradiso XV, 76: PL 14, 314.

[11] In verità non esiste alcuna testimonianza di un simile dialogo, che evidentemente ha la sua fonte in ambiente francescano. Quanto all’immagine della «biblioteca», però, essa si trova già in san Girolamo, il quale, scrivendo ad Eliodoro per consolarlo della morte prematura del nipote san Nepoziano, dice che la lettura assidua delle Scritture e la preghiera aveva fatto del suo cuore la biblioteca di Cristo: Epistola LX. Ad Heliodorum, 10: PL . 22, 596. Nella lettera apostolica Scripturae Sacrae affectus (30 sett. 2020) scritta per il XVI centenario della morte, Francesco applicherà questo titolo allo stesso san Girolamo.

[12] Cf. Guglielmo da Tocco, Storia di san Tommaso d’Aquino a cura di Davide Riserbato, Jaca Book, Milano 2015, p. 171-172 (cap. 34).

[13] Cf. Fil 1,21: «Per me il vivere è Cristo, e il morire un guadagno».

[14] Super Galatas, caput 2, lectio 6.

[15] Isidoro di Siviglia, Differentiae, 85: PL 83, 20.

[16] R. Guardini, I santi e san Francesco, Morcelliana, Brescia 2018, p. 33.

[17] S. Ignazio di Loyola, Autobiografia. Commento di M. Costa, Ed. CVX/CIS, Roma 1994, p. 56. Il riferimento è a Autobiografia, n. 8.

[18] Discorso LVII, 4 in Discorsi ascetici. Prima collezione, Qiqajon-Comunità di Bose, Magnano 2021, 498.

[19] FF, 1402.

[20] Guardini, I santi e san Francesco cit., p. 37.

[21] È Maria Céline Martin terzogenita della famiglia Martin. Questa sorella di Teresa diventò anche le carmelitana e prese il nome di Geneviève di Santa Teresa. Maria Céline fu sempre molto vicina a Teresa e fra le due c’era un legame affettuoso.

[22] Manoscritto A 36r.

[23] C’est la confiance, n. 16. Cf. Manoscritto C 3r.

[24] Molto bello il commento di Cassiodoro: Expos. in Psal. CXXX: PL 70, 944. In G. Ravasi, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, III, EDB. Bologna 1985, pp. 648-651 si potranno vedere rimandi alla spiritualità cristiana e a testi letterari suggeriti da questo versetto.

[25] Vita prima di Tommaso da Celano, XII; FF 367.

[26] Gaudete et exsultate, n. 21; Udienza del 7 aprile 2021.

[27] I santi e san Francesco cit., pp. 92-93.

[28] Sponsa Verbi. Saggi teologici – II, Morcelliana, Brescia 1985, p.25.

[29] Dal 13 al 16 novembre 2023, presso l’Istituto Patristico Augustinianum di Roma il Dicastero delle Cause dei Santi ha programmato un convegno sulla Dimensione comunitaria della santità.

[30] Idealmente lo stesso schema della costituzione sulla Chiesa può essere articolato sul binomio tutti-alcuno dove il «tutti» della Chiesa è ravvisabile nei capitoli I, II, V di Lumen gentium; qui i capitoli III e IV (gerarchia e laicato) sono dei sottotitoli del cap. II e il cap. VI (i religiosi) un sottotitolo del cap. V. Il cap. VIII de Beata è un inserimento successivo e corona il cap. I sul mistero della Chiesa e il cap. VI sull’indole escatologica della Chiesa completa il cap. II sul peregrinante popolo di Dio: cf. M. Semeraro, Lumen gentium. Cinquant’anni dopo, Marcianum Press, Venezia 2015, pp. 69-72.

[31] Per quanto segue immediatamente, cf. M. De Salis, Concittadini dei santi e familiari di Dio. Studio storico-teologico sulla santità della Chiesa, EDUSC, Roma 2009, pp. 185-192; Idem, v. Santità in G. Calabrese, Ph. Goyret, O.F. Piazza (edd.), «Dizionario di Ecclesiologia», Città Nuova, Roma 2010, pp. 1269-1282. Per il quinto punto, cf. O.F. Piazza, Santità, Cittadella Ed., Assisi 2016, pp. 104-128.

[32] Si veda per questo Evangelii gaudium, n. 26).

[33] Nella Lettera Apostolica con cui lo proclamava dottore della Chiesa (7 ottobre 2012) Benedetto XVI scriveva: «Giovanni d’Ávila fu contemporaneo, amico e consigliere di grandi santi e uno dei maestri spirituali più prestigiosi e consultati del suo tempo. Sant’Ignazio di Loyola, che lo stimava molto, desiderò vivamente che entrasse nella nascente Compagnia di Gesù; ciò non avvenne ma il Maestro orientò verso di essa una trentina dei suoi migliori alunni.  Giovanni Ciudad, poi san Giovanni di Dio, fondatore dell’Ordine Ospedaliero, si convertì ascoltando il Santo Maestro e da allora si affidò alla sua guida spirituale. Il nobilissimo san Francesco Borgia, un altro grande convertito grazie alla mediazione di Padre Ávila, divenne addirittura preposito generale della Compagnia di Gesù. San Tommaso da Villanova, arcivescovo di Valencia, diffuse nelle sue diocesi e in tutto il Levante spagnolo il suo metodo catechetico. Suoi amici furono pure san Pietro de Alcántara, provinciale dei Francescani e riformatore dell’Ordine; san Giovanni de Ribera, vescovo di Badajoz, che gli chiese dei predicatori per rinnovare la sua diocesi, e poi arcivescovo di Valencia, aveva nella sua biblioteca un manoscritto con 82 suoi sermoni; Teresa di Gesù, oggi Dottore della Chiesa, che patì grandi travagli prima che potesse far arrivare al Maestro il manoscritto della sua Vida; San Giovanni della Croce, anch’egli Dottore della Chiesa, che si mise in contatto con i suoi discepoli di Baeza che lo aiutarono nella riforma del Carmelo; il Beato Bartolomeo dei Martiri, che, grazie ad amici comuni, venne a conoscenza della sua vita e della sua santità, e altri ancora che riconobbero l’autorità morale e spirituale del Maestro».

[34] Manoscritto A 2rv.

[35] Cf. R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Vita e Pensiero, Milano 19777, pp. 559-567.

[36] Gaudete et exsultate, n. 141.

[37] Ibidem. Il testo citato di san Giovanni della Croce è indirizzato a un religioso: «che tu capisca di non essere venuto in convento se non perché tutti ti lavorino e ti esercitino nelle virtù…»: Cautele n. 15.