Relazione al Convegno del Centro Diocesano Confraternite

 

Confraternite per una Chiesa sinodale

Relazione al Convegno del Centro Diocesano Confraternite

 

L’invito del vostro Arcivescovo e mio fraterno amico a incontrarvi questa sera, mi ha fatto arretrare nel tempo e tornare agli anni del mio ministero sacerdotale nella Chiesa di Lecce e poi anche alla mia prima esperienza episcopale nella Chiesa di Oria. Nel primo caso, all’insegnamento della sacra teologia ebbi l’occasione di unire, dal 1976 al 1998, il ministero di padre spirituale di una confraternita del mio paese intitolata ai Santi Medici Cosma e Damiano; dal 1998 al 2004, poi, fui vescovo di una Chiesa – quella di Oria – che custodisce uno più antichi santuari dedicati agli stessi Santi Anargiri, dove ancora oggi accorrono tanti pellegrini e dove sono ancora presenti e vive molte Confraternite. Ben conosco, dunque, benché non con le caratteristiche specifiche delle Confraternite di Sicilia, la realtà confraternale con le sue forme espressive della pietà popolare: forme che in molti casi, specialmente in quelle più antiche, sia qui nel Meridione d’Italia come nell’America Latina, sono segnate dall’influsso giunto dalla Spagna, dove pure sono una realtà vivissima. Per tale ragione nel mio intervento farò riferimento anche ad alcuni documenti ecclesiastici che giungono da quella Nazione e dal «Documento di Aparecida»: Discepoli e missionari di Gesù Cristo affinché in lui abbiamo vita, Si tratta del documento conclusivo della V Conferenza Generale del CELAM 2007, cui lavorò come coordinatore del testo finale l’allora arcivescovo di Buenos Aires, card. J. M. Bergoglio.

La proposta dell’Arcivescovo Corrado, dunque, mi ha offerto l’opportunità di riflettere ancora una volta sulla realtà confraternale e di questo lo ringrazio vivamente. Con lui saluto Mons. Giovanni Cassata, Delegato Arcivescovile per le Confraternite, e il Presidente del Centro Diocesano Dr. B. M. Puleo. Salutando voi tutti, vi ringrazio fin da ora per la cortesia dell’ascolto.

 

Pietà popolare: un sistema immunitario della Chiesa

Per avviare questo mio intervento vorrei partire da quanto si legge nella nota pastorale Le Confraternite nell’oggi della Chiesa, pubblicata dai Vescovi di Sicilia il 9 marzo 2022. Essa inizia richiamando il compito di «scoprire e gustare il significato profondo della pietà popolare».

Occorre, allora, anzitutto, una precisazione di termini, che desumo dal Direttorio su pietà popolare e liturgia, pubblicato dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti nel 2002. Qui si distingue tra «pietà popolare» e «religiosità pastorale». Con la prima si intendono le «diverse manifestazioni cultuali di carattere privato o comunitario che, nell’ambito della fede cristiana, si esprimono prevalentemente non con i moduli della sacra Liturgia, ma nelle forme peculiari derivanti dal genio di un popolo o di una etnia e della sua cultura» (n. 9). Con «religiosità popolare», invece, si intende un insieme di azioni che manifestano la dimensione religiosa presente «nel cuore di ogni persona, come nella cultura di ogni popolo e nelle sue manifestazioni collettive... Ogni popolo infatti tende ad esprimere la sua visione totalizzante della trascendenza e la sua concezione della natura, della società e della storia attraverso mediazioni cultuali, in una sintesi caratteristica di grande significato umano e spirituale» (n. 10). Lo stesso Direttorio, tuttavia, spiega che se pure la religiosità popolare non si rapporta necessariamente alla rivelazione cristiana; essa, tuttavia, poiché in molte regioni (ed è il nostro caso) si esprime «in una società impregnata in vario modo di elementi cristiani, dà luogo ad una sorta di “cattolicesimo popolare”, in cui coesistono, più o meno armonicamente, elementi provenienti dal senso religioso della vita, dalla cultura propria di un popolo, dalla rivelazione cristiana».

La distinzione fu esplicita e chiara già nell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (1975) di San Paolo VI dove il Papa spiegava che la religiosità popolare, se è bene orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa, aggiunge, «manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, noi la chiamiamo volentieri “pietà popolare”, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità» (n. 48). È avendo alla luce queste parole che in questo mio intervento userò indistintamente le due espressioni, ben sapendo che mi rivolgo a persone che appartengono ad una realtà la pedagogia di evangelizzazione di cui parlava Paolo VI la stanno vivendo ormai da ben cinquant’anni.

Torno alla Nota pastorale dei Vescovi di Sicilia, dove si cita un’espressione di Papa Francesco che, parlando qui a Palermo nella Cattedrale il 15 settembre 2018, descrisse la pietà popolare come «il sistema immunitario della Chiesa». Questo appellativo, riferendolo ai santuari mariani, il Papa lo ripeté pochi giorni dopo, il 29 novembre 2018, parlando a quanti avevano partecipato al I Congresso Internazionale per i rettori e operatori dei Santuari. La frase completa di Francesco è la seguente: «La pietà popolare è il sistema immunitario della Chiesa… Quando la Chiesa incomincia a farsi troppo ideologica, troppo gnostica o troppo pelagiana, la pietà popolare la corregge, la difende».[1] L’immagine è davvero efficace, perché il sistema immunologico, pur non avendo la medesima importanza del sistema nervoso, di quello cardiovascolare, è tuttavia una sorta di rete di sorveglianza che protegge il corpo da agenti patogeni sia esterni, sia interni.

Fuor di metafora, anche in questo caso il Papa tornava a richiamare quello «gnosticismo» e quel «pelagianesimo», di cui aveva scritto nel n. 94 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Vi accennai io stesso nell’intervento che feci in Cattedrale qui a Palermo il 30 settembre 2016, in occasione di un Convegno ecclesiale diocesano cui ero stato chiamato come relatore.[2] Parafrasando l’esortazione apostolica, dissi che per gnosticismo oggi possiamo intendere un cristianesimo inteso come semplice «pensiero», come una cultura e non, piuttosto, come una persona da incontrare e con cui vivere. In pratica, un «cristianismo» e non un cristianesimo. Sotto questo profilo la pietà popolare ci fa sempre incontrare con la «carne di Cristo». Penso, ad esempio, ai grandi riti della settimana santa e delle Via Crucis, che in tante parti segnalano il ruolo delle Confraternite. Considerando la pietà popolare, nel Documento di Aparecida si legge: «La nostra gente si identifica particolarmente con il Cristo sofferente, lo guardano, lo baciano o toccano i suoi piedi feriti come per dire: “Questo è colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Tanta di questa gente è esclusa, ignorata, depauperata ma non abbassa le braccia. Con la sua caratteristica religiosità, si aggrappa all’immenso amore che Dio ha per essa e che le ricorda costantemente la propria dignità. Trova anche la tenerezza e l’amore di Dio nel volto di Maria, nella quale vedono rispecchiato il messaggio essenziale del Vangelo…» (n. 265).

Per sua parte, con pelagianesimo si intende quella corrente di pensiero che, minimizzando il potere della grazia sopravvaluta le capacità dell’uomo. Il 10 novembre 2015, incontrando a Firenze i rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, il Papa dirà: «Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività... La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo».

Aggiungo anche per questo caso, una citazione esemplare dal Documento di Aparecida, dove si richiama quel processo di secolarizzazione che ormai da decenni insidia i cristiani nella fede e nella pratica religiosa. Anche in questo caso la pietà popolare è in grado di immunizzare la fede cristiana. Essa, infatti, risulta essere «una potente confessione del Dio vivente all’opera nella storia e un canale di trasmissione della fede. Il camminare insieme verso i santuari e partecipare ad altre manifestazioni di pietà popolare di pietà popolare, anche portando i propri figli o invitando altri, è di per sé invitare gli altri, è di per sé un gesto di evangelizzazione con il quale il popolo cristiano evangelizza gesto evangelizzatore con cui il popolo cristiano evangelizza se stesso e realizza la missione della Chiesa» (n. 264).

Il discorso circa l’efficacia immunologica della pietà popolare potrebbe evidentemente essere ulteriormente approfondito. Si pensi, ad esempio, a una delle sue potenzialità, ossia il fatto che può aiutare la Chiesa a difendersi dal problema della insignificanza sociale. La pietà popolare, difatti, può offrirle un’ampia gamma di occasioni, luoghi e strumenti dai quali e con i quali può continuare a lanciare il suo messaggio e annunciare Gesù con un effetto moltiplicatore. Si pensi, ad esempio, alla molteplicità di celebrazioni liturgiche, che in occasione di feste patronali e di altre ricorrenze religiose sono frequentate da una moltitudine di persone che in genere non vanno mai in chiesa, e tuttavia ritornano al paese per la festa del patrono… In questi casi la religiosità popolare può costituire un vero altoparlante di evangelizzazione. Il Direttorio su pietà popolare e liturgia, che ho prima citato, annota che «Il “giorno del Santo” ha […]una grande valenza antropologica: è giorno di festa. E la festa – è noto – risponde a una necessità vitale dell’uomo, affonda le sue radici nell’aspirazione alla trascendenza. Attraverso manifestazioni di gioia e di giubilo la festa è affermazione del valore della vita e della creazione. In quanto interruzione della monotonia del quotidiano, delle forme convenzionali, dell’asservimento alla necessità del guadagno, la festa è espressione di libertà integra, di tensione verso la felicità piena, di esaltazione della pura gratuità. In quanto testimonianza culturale, essa mette in luce il genio peculiare di un popolo, i suoi valori caratteristici, le espressioni più genuine del suo folklore. In quanto momento di socializzazione, la festa è occasione di dilatazione dei rapporti familiari e di apertura a nuove relazioni comunitarie» (n. 232).

Torno a richiamare le varie rappresentazioni della Passione, preparate e vissute in occasione della Settimana Santa: eventi che impegnano tante persone sia come attori, sia come comparse. Non v’è lì già spazio di annuncio, almeno per fare comprendere l’evento, oppure per far entrare l’attore nel suo personaggio? Si pensi ancora al pio esercizio della Via Crucis. Il Direttorio su pietà popolare e liturgia ricorda che «nel pio esercizio della Via Crucis confluiscono […] varie espressioni caratteristiche della spiritualità cristiana: la concezione della vita come cammino o pellegrinaggio; come passaggio, attraverso il mistero della Croce, dall’esilio terreno alla patria celeste; il desiderio di conformarsi profondamente alla Passione di Cristo; le esigenze della sequela Christi, per cui il discepolo deve camminare dietro il Maestro, portando quotidianamente la propria croce (cf. Lc 9,23)» (n. 133). Non c’è dubbio che, se svolti con devozione e dignità cristiana, i riti tradizionali possono diventare delle preziose catechesi.

Così può essere anche per le varie processioni: la contemplazione delle immagini della vita del Signore è una predicazione del mistero pasquale, cioè della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo; le processioni eucaristiche ci riportano alla sorgente della vita della Chiesa; le immagini della Vergine ci proclamano la grandezza della Madre del Signore e la potenza della sua materna intercessione; le processioni con le immagini dei santi ci stimolano a seguire il loro esempio.

 

La «pietà popolare»: forma di inculturazione della fede

Torno a richiamare ciò che il Direttorio su pietà popolare e liturgia scrive sulla pietà popolare. Ricorda che le sue diverse manifestazioni «si esprimono prevalentemente non con i moduli della sacra Liturgia, ma nelle forme peculiari derivanti dal genio di un popolo o di una etnia e della sua cultura» (n. 9). In questa descrizione desidero qui sottolineare la distinzione tra le forme espressive della pietà popolare e i moduli della sacra liturgia: se questi ultimi riguardano tutta la Chiesa,[3] le espressioni della popolare riguardano non tutto il popolo, bensì un popolo![4]

La conseguenza è la loro varietà: le loro diversità sono legate alla cultura, alla storia, alla vita collettiva, nonché al linguaggio dei simboli e del corpo di una specifica collettività. Scrive Francesco in Evangelii Gaudium: «Le forme proprie della religiosità popolare sono incarnate, perché sono sgorgate dall’incarnazione della fede cristiana in una cultura popolare. Per ciò stesso esse includono una relazione personale, non con energie armonizzanti ma con Dio, con Gesù Cristo, con Maria, con un santo. Hanno carne, hanno volti» (n. 90).

Ne deriva un aspetto che anche la Nota dei Vescovi di Sicilia, citando il n. 126 di Evangelii Gaudium, sottolinea: «Nella pietà popolare, poiché è frutto del Vangelo inculturato, è sottesa una forza attivamente evangelizzatrice che non possiamo sottovalutare: sarebbe come disconoscere l’opera dello Spirito Santo. Piuttosto, siamo chiamati ad incoraggiarla e a rafforzarla per approfondire il processo di inculturazione che è una realtà mai terminata. Le espressioni della pietà popolare hanno molto da insegnarci e, per chi è in grado di leggerle, sono un luogo teologico a cui dobbiamo prestare attenzione, particolarmente nel momento in cui pensiamo alla nuova evangelizzazione».

A questa affermazione, può fare da specchio quest’altro brano di Evangelii Gaudium: «Quando in un popolo si è inculturato il Vangelo, nel suo processo di trasmissione culturale trasmette anche la fede in modi sempre nuovi; da qui l’importanza dell’evangelizzazione intesa come inculturazione. Ciascuna porzione del Popolo di Dio, traducendo nella propria vita il dono di Dio secondo il proprio genio, offre testimonianza alla fede ricevuta e la arricchisce con nuove espressioni che sono eloquenti. Si può dire che “il popolo evangelizza continuamente sé stesso”. Qui riveste importanza la pietà popolare, autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio. Si tratta di una realtà in permanente sviluppo, dove lo Spirito Santo è il protagonista» (n. 122).[5]

Poiché il tema del nostro incontro è Confraternite per una Chiesa sinodale, vale la pena che proprio in questo elemento di inculturazione della pietà popolare Papa Francesco individua una traccia di sinodalità. «Sinodo», infatti, è una parola greca che rimanda all’incontro, al con-vivere, a una «pluriforme armonia» (cf. Evangelii Gaudium, n. 220).

 

Pietà popolare e liturgia

Per quanto, in tema di rapporto fra religiosità popolare e cultura, sia necessario ricordare che «il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche rivestimento culturale», occorre anche valutare il rischio di cadere in quella che sempre Francesco ha chiamato «vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore» (Evangelii Gaudium, n. 117).

Antidoto per questo rischio sarà anzitutto il legame della pietà popolare con la vita liturgica della Chiesa. Se, infatti, in ogni religione ci sono espressioni popolari, si deve tuttavia ammettere che in ambito cristiano ciò che colora l’espressione culturale della fede impressa nei cuori dei fedeli è il mistero dell’Incarnazione e a questo, come ha insegnato il Concilio Vaticano II, si partecipa in forma piena ed eminente mediante la Sacra Liturgia.[6] Per questo, all’impegno lodevole di «inculturare la Liturgia» deve sempre corrispondere, come elemento equilibratore, quello di collegare sempre la pietà popolare con la vita liturgica. Non valutare questo legame corrisponde ad accreditare un culto esterno e vuoto. Nella Chiesa, però, non mai lecito promuovere un «culto esterno», che non sia accompagnato allo stesso tempo da disposizioni interne che lo animino.

Al riguardo si dovrà ammettere che oggi il rischio è più accentuato che nel passato. Si pensi ad alcune manifestazioni che hanno sì una origine religiosa, ma che oggi, specialmente dai media, sono considerate unicamente sotto l’aspetto antropologico e folkloristico. Una Nota pastorale del 1985 dei Vescovi spagnoli rilevava in proposito: «pure i media contribuiscono, e talvolta non poco, a questa crescente desacralizzazione. La trasmissione di processioni o altre celebrazioni cattoliche è talvolta accompagnata da commenti che le privano del loro contenuto cristiano o le equiparano a celebrazioni pagane. Tutto ciò ha un impatto relativizzante e persino svalutante sulla presentazione delle cerimonie religiose; basta qualche abile tocco di montaggio, nella successione o nel conteggio delle immagini, per ottenere risultati molto negativi nel trattamento dei temi religiosi».[7]

Molto opportunamente, dunque, la Nota pastorale dei Vescovi di Sicilia evidenzia il legame fondamentale che sussiste tra pietà popolare e liturgia. In tale contesto diventa davvero rilevante il richiamo ivi presente all’Eucaristia domenicale. Il “vivere secondo la domenica” è una esigenza interiore del credente, della famiglia cristiana, della comunità parrocchiale. Senza una partecipazione attiva alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia e alle festività prescritte, non potrà mai esserci una vera pietà popolare. Dobbiamo anzi ammettere ogni grande riforma della Chiesa è legata alla riscoperta della fede nell’Eucaristia.

Al riguardo, il Direttorio su pietà popolare e liturgia offre delle indicazioni preziose. Richiama subito, ad esempio, l’importanza di «rispettare la differenza oggettiva tra i pii esercizi e le pratiche di devozione rispetto alla Liturgia» e perciò fare sì che non vi sia commistione tra le formule proprie dei pii esercizi e le azioni liturgiche. Avverte, per questo, che gli atti di pietà e di devozione trovino il loro spazio al di fuori della celebrazione dell’Eucaristia e degli altri Sacramenti. Per un altro aspetto, chiede di superare, dove è il caso, la concorrenza o la contrapposizione con le azioni liturgiche e stabilisce il principio: «va salvaguardata la precedenza da dare alla domenica, alla solennità, ai tempi e giorni liturgici» (n. 13). Su queste premesse, «deve essere ritenuto un punto fermo la priorità della celebrazione dell’anno liturgico su ogni altra espressione e pratica di devozione», come pure il necessario rapporto della pietà popolare con la Liturgia.

 

Ombre possibili nella religiosità popolare

Ho prima citato il n. 48 di Evangelii Nuntiandi di Paolo VI. Lì, in passaggio fondamentale in tema di religiosità popolare il Papa rilevava che insieme con le potenzialità essa ha pure i suoi limiti: è, difatti, frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione, anzi di superstizioni; spesso resta a livello di manifestazioni cultuali senza impegnare un’autentica adesione di fede… Occorre, allora, riconoscere che la religione popolare non va automaticamente santificata, né si deve pensare che tutto in essa sia frutto dello Spirito. Come peraltro accade per ogni condotta umana, anche la pietà popolare conosce i limiti umani, intellettuali e morali, l’egoismo e il peccato. Essa, pertanto, ha sempre bisogno di essere evangelizzata, illuminata dalla Parola di Dio, integrata nella più grande comunità ecclesiale: ecco un altro fondamentale punto di «sinodalità»!

Una buona diagnosi, sulla quale sarà possibile compiere un esame, potrebbe essere quello che Francesco ha scritto in Evangelii Gaudium: «a volte l’accento, più che sull’impulso della pietà cristiana, si pone su forme esteriori di tradizioni di alcuni gruppi, o in ipotetiche rivelazioni private che si assolutizzano. Esiste un certo cristianesimo fatto di devozioni, proprio di un modo individuale e sentimentale di vivere la fede, che in realtà non corrisponde ad un’autentica “pietà popolare”. Alcuni promuovono queste espressioni senza preoccuparsi della promozione sociale e della formazione dei fedeli, e in certi casi lo fanno per ottenere benefici economici o qualche potere sugli altri» (n. 70).

Suggerisco di cogliere in questo brano due passaggi. Il primo coincide con quello che si legge pure nella Nota dei Vescovi di Sicilia: «La scelta di aderire a una confraternita presuppone il desiderio di un maggiore impegno di vita cristiana. Occorre evitare la contraddizione di aderire ad una realtà ecclesiale più impegnativa e non vivere da buoni cristiani e onesti cittadini».

Il secondo aspetto riguarda l’eventuale presenza di interessi personali, o di gruppo che non debbono avere nulla a che fare con la pietà popolare. Più esplicitamente, rivolto ai partecipanti a un pellegrinaggio della diocesi di Cassano allo Jonio il 21 febbraio 2025, Papa Francesco disse: «I gesti esteriori di religiosità non bastano per accreditare come credenti quanti, con la cattiveria e l’arroganza tipica dei malavitosi, fanno dell’illegalità il loro stile di vita». I rischi di queste ombre esigono da tutti la massima vigilanza e specialmente dai pastori il dovere del sano discernimento.

Anche i Vescovi di Sicilia, nella loro Nota che ho scelto come guida per il mio intervento, richiamano con sobrietà, ma con chiarezza, alcune tematiche importanti, quali il senso di onestà e legalità, in particolare nella corretta e scrupolosa amministrazione dei beni, aggiungendo un passaggio importante: «i beni di una confraternita sono beni ecclesiastici, non privati e la loro destinazione, ,oltre che riguardare le esigenze della stessa, riguarda i bisogni dei poveri e della comunità ecclesiale».

Questo mi permette di richiamare l’ultimo punto del mio intervento che esprime, per le confraternite, la fiducia di un loro ritorno radicale alle origini.

 

La carità quale opera primaria delle Confraternite

Sotto il profilo storico, infatti, dobbiamo ammettere che, sino ad una certa epoca – e questo vale anche per la nostra Italia –, la Chiesa ha adempiuto alla sua missione caritativa soprattutto per mezzo delle Confraternite. Possiamo dire anzi che non c’è stata alcuna povertà e sofferenza umane che non abbia dato origine ad una Confraternita! La carità si manifesterà specialmente nei momenti di difficoltà della vita – malattie, povertà, vedovanza ecc. – e poi in occasione della morte: funerali, sepoltura, orazioni, messe… Mediante l’opera della confraternite la Chiesa ha dimostrato e ancora oggi può dimostrare di essere la vera esperta in umanità, che nel suo volto riflette il volto di Cristo e la carità del Vangelo.

Numerose confraternite, all’inizio della loro storia hanno scopi caritativi indirizzati verso bisogni specifici, che impegnano le varie opere di misericordia: «poveri vergognosi» (ossia nobili che per alterne vicende – spesso derivanti da questioni politiche – divenivano improvvisamente poveri pellegrini), prigionieri, bambini abbandonati («esposti»), ragazze da maritare, condannati a morte («compagnie di giustizia»), prigionieri per debiti, vedove, orfani…

In Italia (e non solo) la situazione mutò radicalmente prima con la legislazione napoleonica e poi, definitivamente, con la nascita dello Stato italiano di cui, uno dei primi atti legislativi fu quello che distinse le Confraternite con scopo esclusivo, o prevalente di culto dalle altre aventi scopo esclusivo o prevalente di beneficenza: queste ultime, analogamente alle Opere Pie, furono assoggettate alla tutela dell’autorità governativa. Successivamente alle Confraternite aventi scopo esclusivo di culto lo Stato confiscò i beni produttivi di reddito, lasciando loro solo quelli improduttivi come chiese e oratori. Il ruolo di incidenza sociale delle Confraternite venne così a scomparire sicché queste stesse concentreranno ogni loro iniziativa quasi esclusivamente su finalità di culto! Da allora, le Confraternite non saranno più ciò che erano state al principio.[8]

Ora, nella Nota dei Vescovi di Sicilia, che spesso ho citato, il terzo punto ha un titolo suggestivo: Appartenenza per amore. Su questo, per concludere, vorrei rapidamente aprire una suggestione: per le nostre Confraternite, può essere «sinodalità» anche il sintonizzarsi con quello che è il principio ermeneutico del pontificato di Papa Francesco, ossia la misericordia. Per Francesco è questa la trave principale che sostiene la vita e la missione della Chiesa. Egli ci dice: «Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo. vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri» (Evangelii Gaudium, n. 270). Per il Papa è questo, oggi, il toccare la carne sofferente di Cristo. Egli spessissimo ripetere che il nostro deve sempre essere amore «concreto, con le opere di misericordia», per toccare «la carne di Cristo lì, di Cristo incarnato».[9]

Sapranno testimoniarlo anche le nostre Confraternite? Alle antiche povertà oggi se ne sono aggiunte di nuove, che interpellano la carità della Chiesa: tossicodipendenza, immigrazione, nonché le tante povertà morali causate dalla solitudine, dalla prostituzione, dal dissesto familiare, ecc. La storia passata delle Confraternite potrà essere la loro storia futura? Mi sia permesso, allora, immaginare le nostre Confraternite come le partners nell’opera delle nostre Caritas, diocesane e parrocchiali. È la domanda con la quale concludo: sarà, l’appartenenza a una Confraternita, una appartenenza per amore?

 

Palermo, Teatro Don Orione, 19 novembre 2022

 

Marcello Card. Semeraro

 

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[1] Il Papa disse di avere colto questa frase da un vescovo italiano. Si tratta, con molta probabilità, di Mons. Gualtiero Sigismondi, oggi vescovo di Orvieto-Todi e dal 2017 assistente ecclesiastico generale dell’Azione Cattolica Italiana: all’immagine del sistema immunitario in rapporto alla pietà popolare mariana, egli aveva fatto ricorso in una sua omelia del 2015 alla Chiesa di Foligno.

[2] Cf. https://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=12598:le-leresier-pastorali-secondo-evangelii-gaudium&catid=353:questioni-ecclesiologiche dove è riprodotta quella mia relazione. 

[3] I riti per la celebrazione della Messa, ad esempio, pur nella possibilità di scelta di formulari diversi, sono comunque codificati per tutta la Chiesa; così per le altre celebrazioni sacramentali.

[4] Su quanto dirò in seguito, sul tema generale, cf. D. Cuesta Gómez, Luci e ombre della religiosità popolare. Uno studio nel confronto con il magistero ecclesiastico e la teologia, Tau Editrice, Todi 2022; per il magistero di Francesco, cf. C. M. Galli, La piedad popular : Sensus fidei y Locus theologicus. Aportes del Papa Francisco a la teología de la piedad popular, su https://repositorio.uca.edu.ar/handle/123456789/13312.

[5] Poco prima Papa Francesco aveva scritto: «Non renderebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale…» (n. 117).

[6] In Sacrosanctum Concilium leggiamo: «Per realizzare un'opera così grande [ossia l’opera della salvezza], Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, “ offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, al punto che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza]. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro”» (n. 7).

[7] Obispos del Sur de España, El catolicismo popular. Nuevas consideraciones pastorales (20 febbr. 1985), in https://odisur.es/asamblea-de-obispos/el-catolicismo-popular-nuevas-consideraciones-pastorales/

[8] Cf. M. Sensi, v. Confraternita-Arciconfraternita, in «Lessico di Storia della Chiesa» a cura di B. Ardura, Lateran University Press, Città del Vaticano2020, p. 190-193.

[9] Ho citato, solo per un esempio, dall’omelia in Santa Marta dell’11 novembre 2016.