Relazione al Convegno Tonalestate 2023

 

La cura: per una educazione integrale della persona

Relazione al Convegno Tonalestate 2023

 

Il tema della cura può essere affrontato da diverse prospettive: filosofica,[1] sociologica pedagogica, medica[2] e anche pastorale.[3] Per quest’ultimo aspetto, personalmente ci sono arrivato a motivo della progressiva mia attenzione ai temi della generatività, cui mi ero rivolto sollecitato dalla lettura degli studi di E. H. Erikson, sulla continuità e mutamenti dei cicli della vita umana. Con «generatività» egli indica l’impulso che nasce da interessi altruistici e creativi, la capacità di uscire dalla narcisistica esclusiva preoccupazione di sé per prendersi cura delle nuove generazioni e ciò non necessariamente nei termini della procreatività biologica, ma, in senso ancora più ampio, come attuazione di imprese creative che possono positivamente incidere nella vita sociale. L’alternativa drammatica è la «stagnazione».[4]

Durante il ministero pastorale nella Chiesa di Albano, specialmente nel corso della visita pastorale, cercai di approfondire e prospettare questa scelta.[5] In tale contesto ritenni utile fare riferimento allo schema proposto da Chiara Giaccardi e Mauro Magatti nel volume Generativi di tutto il mondo, unitevi[6] che espone un percorso a quattro tappe: desiderare, generare, prendersi cura e lasciare andare. L’insorgere, poi, della pandemia mi indusse a soffermarmi sul momento della cura, tema sul quale mi è stato chiesto d’intervenire in questo nostro incontro.[7] Procederò, dunque, soffermandomi su tre aspetti: quello generale della cura; il conseguente tema del farsi carico di una persona, una comunità; alcune emergenze nell’oggi.

 

1)      La cura

Socrate, uno dei pilastri della nostra tradizione di pensiero, ci suggerisce, per definire la cura, di partire da sé.[8] La cura è anzitutto epimeleia autou, cura di sé. Prima di spirare egli esorta i suoi giovani allievi a questa arte: «Non ho nulla di nuovo da dirvi se non quello che vi ho sempre detto: abbiate cura di voi stessi e così farete cosa gradita a me e a voi».[9] In questa accezione socratica, cura significa recuperare la dimensione più autentica dell’uomo: costruzione interiore della propria persona, che non si realizza esclusivamente nell’agorà, ma anzitutto nella riflessione su se stessi. È una forza interiore che deriva dalla consapevolezza dei propri limiti e della propria vulnerabilità, ma è anche libertà di pensiero e di autonomia nel giudizio. Socrate chiede di pensare a sé, di dedicare spazio interiore, cioè tempo alla cura di sé, alla costruzione della propria interiorità.[10]

Il termine cura, però, non è greco, ma latino.[11] Lo troviamo impiegato da Orazio (65-8 a.C.), che da Alfonso Traina – grande studioso contemporaneo della lingua latina – è stato definito come il «poeta della cura» e da Seneca (4 a.C.-65 d.C.). Quanto a Orazio; il suo significato fondamentale è quello di ansia, preoccupazione costante, angoscia. In lui, sinonimi di cura sono termini come aegrimonia, aerumna, maeror, sollicitudo, tristitia … Termini facilmente riconoscibili anche per chi è ignaro della lingua latina. Ciò che grava, pesa sulla vita umana non è tanto il passato, quanto il futuro! L’esito di questa condizione esistenziale è il famoso carpe diem oraziano sicché «gli anni e i giorni che passano in un attimo ti ammoniscono di non illuderti d’essere immortale… non siamo che polvere e ombra». Anche per Seneca il futuro è da temere e perciò è saggezza concentrarsi sul presente. In Seneca, però, troviamo anche un altro aspetto della cura: è generatrice di vita. Tutto ciò che è caduco e temporale, infatti, per continuare a esistere ha bisogno di cura. Senza la cura, dunque, l’uomo non può vivere.

Giungiamo così a un testo che, riscoperto e ripreso da Heidegger, ha svolto un ruolo importante nello sviluppo della filosofia della cura: il mito di Cura, che Igino, un autore del I secolo d. C., riporta nelle sue Fabulae.

Il testo riecheggia racconti di vario genere, non ultimo quello genesiaco della creazione dell’uomo (cf. Gen 2,7). Si tratta, evidentemente, di un mito antropogonico, di quelli, cioè, che indagano sulla formazione dell’uomo. Di questo tipo ne esistono in tutte le civiltà. Quello di Igino, che sto per riportare, ha il suo contesto nella civiltà latina, giacché solo nella lingua latina è possibile il gioco di parole: homo/humus.[12] Se, poi, si suppone un suo rapporto col pensiero di Seneca, c’è da pensare che esso abbia uno sfondo di carattere stoico. Si tratta, ad ogni modo, di un «mito» e cioè di una narrazione che, come avverte P. Ricoeur, «esprime in termini di mondo, cioè di ultramondo o di secondo mondo, la comprensione che l’uomo ha di sé stesso in rapporto al fondamento e al limite della sua esistenza […] esso esprime nel linguaggio oggettivo il senso che l’uomo acquista della sua dipendenza nei confronti di ciò che permane al limite e all’origine del suo mondo». Vale, allora, la pena di leggerlo per intero:

Cura, nell’attraversare un fiume, vide del fango argilloso, lo raccolse pensosa e cominciò a modellare un uomo; mentre stava osservando ciò che aveva fatto, arrivò Giove. Cura le chiese di dar vita alla statua e Giove la esaudì senza difficoltà; ma quando Cura volle dargli il proprio nome, Giove glielo proibì e disse che doveva dargli il suo. Mentre Giove e Cura discutevano sul nome, intervenne anche Terra, dicendo che la creatura doveva avere il suo nome, poiché era stata lei a dargli il corpo. Elessero a giudice Saturno, che a quanto pare diede un parere equo: «Tu, Giove, perché gli hai donato la vita [...] ne riceverai il corpo. Cura, poiché per prima lo ha modellato, lo possegga finché vive; ma visto che è sorta una controversia a proposito del nome da dargli, lo si chiami uomo, homo, poiché è fatto di terra, ex humo».[13]

La favola è interessante sotto molti aspetti. Anzitutto per il riferimento alla duplice origine: il soffio del dio e la materia terrena. Questa duplice origine crea nell’uomo una tensione, che potrebbe essere mortale se non ci fosse l’intervento del tempo (il dio Saturno, nel mito) a creare la giusta distanza:

Solo il tempo sa essere un buon giudice. Saturno, con la sua decisione, mostra come la cura segua un processo, un progetto che si sviluppa fra passato, presente e futuro, proprio come l’uomo che, in questo mito, si chiama così per la materia di cui è composto. In realtà, al di là del nome, questo essere appartiene a Cura […] La cura si manifesta nel tempo che dedichiamo, nella partecipazione empatica, nell’apertura che ci legittimiamo ad avere.[14]

In tale contesto si potrà pure tener conto di una ricorrente etimologia latina: quod cor urat, ciò che scalda il cuore.[15] Non è una etimologia nel senso vero e proprio, ma ha il suo effetto. Prendersi cura, infatti, è ciò che «scalda il cuore».[16]

Il pensatore che meglio di ogni altro ha colto e analizzato il tema della «cura» è stato M. Heidegger, il quale ne ha scritto ampiamente nella sua opera fondamentale Essere e tempo (Sein und Zeit – 1927). Qui la cura (Sorge) è definita come la radice primaria dell’essere umano. Si tratta, dunque, di un «modo di essere essenziale»; del modo proprio dell’uomo di essere-nel-mondo (Da-sein); quello con cui stabilisce relazioni con gli altri e con le cose. Qui egli definisce la cura come la radice primaria dell’essere umano e il fondamento dell’esistenza. È uno stato doloroso che costringe amorevolmente a rispondere di un’esistenza. Ne segue che l’«aver cura» heideggeriano non è affatto un semplice gesto premuroso; rientra, invece, nella dimensione ontologica, strutturale della persona. La si può definire come relazione fra soggetti che esclude la delega ad altri poiché atto di cura che implica un’assunzione di responsabilità in prima persona. Emerge, in questa prospettiva, la dimensione della alterità come valore, come sacralità.[17]

Heidegger sottolinea pure che per lo sviluppo della cura fondamentale è il tempo: un tempo non fatto di minuti e ore, ma di relazioni di cui il soggetto (padre/madre, educatore, amico/a, medico, infermiere ...) è responsabile. L’ aver cura heideggeriano è descritto, pertanto, come avere-tempo-per-l’altro; come relazione fra soggetti che esclude la delega ad altri, poiché implica un’assunzione di responsabilità in prima persona.

Da un altro e complementare punto di vista vale la pena riferire le sollecitazioni e le proposte che provengono da E. Borgna, noto e importante psichiatra italiano. Egli ha messo in luce un aspetto che nel nostro contesto mi sembra utile sottolineare ed è che «la premessa alla cura si fonda sulla conoscenza intuitiva: sull’intuizione che, nel senso immemoriale di Simone Weil, consente di decifrare, al di là (e prima) di ogni verbalizzazione, i sentieri insondabili degli sguardi e dei volti, i significati nascosti e sotterranei di una stretta di mano e di un sorriso infranto, le penombre dolorose di una lacrima».[18] Anche in medicina, dunque, prima ancora di somministrazioni farmacologiche di vario genere, la cura mette in gioco le relazioni e in modo particolare gli affetti.[19] Nell’affettività, d’altra parte, c’è sempre relazione, intersoggettività e questo rimane vero anche laddove non si riesce ad andare oltre il contatto e il silenzio.

Tutte queste suggestioni ci conducono a un concetto che è senz’altro incluso in quello di cura e si chiama responsabilità.

 

2)      La responsabilità

Per approfondire il tema può essere utile richiamare il pensiero di Manuel Cruz, un filosofo spagnolo. Nella sua opera dal titolo Farsi carico egli fa notare come oggi (ed è un fenomeno che accade per molte parole) più un termine è diffuso, più risulta difficile trovare un accordo sul suo contenuto, sul suo significato.[20]

Cruz considera, infatti, il concetto di responsabilità sulla base delle condizioni del mondo in cui viviamo: un mondo dove per la responsabilità non sembra davvero esserci posto. Nonostante i ripetuti appelli alla responsabilità, infatti, nessuno sembra volerla assumere su di sé. Siamo, così, di fronte al paradosso di ritenere che ogni male debba essere responsabilità di qualcuno, ma in fondo di nessuno, poiché nessuno è disposto a considerarsi responsabile. L’impegno di M. Cruz è di colmare questo vuoto proponendo una responsabilità che non sia solo di tipo negativo, ma possa anche rendere conto anche delle azioni positive. Egli sostituisce, così, il termine responsabilità con farsi carico: concetto, in verità, anch’esso ambiguo, ma in grado di consentire un diverso approccio alla responsabilità. Inoltre, lo spostamento dalla responsabilità al farsi carico permette a M. Cruz di riflettere sul soggetto e sulla costruzione dell’identità.

Una prima interessante osservazione riguarda il fatto che sulle diverse concezioni della responsabilità il tempo gioca un ruolo centrale: non tanto perché qualcuno possa essere ritenuto responsabile di cose non ancora fatte, ma perché le diverse riflessioni sul tempo svelano lati diversi della responsabilità. Per Manuel Cruz, in particolare, la responsabilità è sempre connessa a una relazione con il tempo e con la memoria. In proposito, egli ritiene che una delle patologie che caratterizzano la nostra epoca sia proprio una relazione distorta con il passato e con il futuro. Con il passato, anzitutto, poiché se per un verso la nostra società guarda costantemente al futuro, per l’altro ritorna insistentemente sul passato e sulla sua rappresentazione. Questi diversi atteggiamenti sono, a parere di M. Cruz, due facce di una stessa medaglia, della stessa incapacità di relazionarsi con il presente.[21] In conclusione, egli propone una concezione delle responsabilità che sia al tempo stesso orientata al futuro, ma pure saldamente ancorata in una relazione con il passato.

L’obiettivo riguarda la possibilità di trovare una spinta all’azione. Un’altra delle patologie delle nostre società, infatti, sarebbe una generale apatia, alla quale Cruz si oppone partendo proprio da questo punto: ritrovare la responsabilità per ritrovare la capacità di agire. È della decisione, che noi siamo chiamati a rispondere; ciò di cui dobbiamo essere responsabili; degli effetti di questa, poi, dobbiamo farci carico. In questo senso siamo chiamati a rispondere anche della scelta di non agire, di non decidere: la responsabilità, infatti, non riguarda soltanto le azioni, ma anche le omissioni, le azioni mancate, le decisioni di ritrarsi dalla scena pubblica. Proprio questa riflessione sulle azioni mancate è forse il punto più interessante della trattazione di Cruz; quello che gli permette di chiarire la distinzione tra una responsabilità riparatrice e il farsi carico: tema che qui ricorda la cura heideggeriana.

 

3)      Responsabilità come cura, oggi

Per Manuel Cruz, il cui pensiero è stato sinteticamente richiamato, la responsabilità personale è, sì, una cura verso se stessi; una cura, però che non prende forma in un dialogo in solitudine, perché scaturisce dal rapporto con gli altri, con chi ci sta intorno.[22]

Questo ci incoraggia ad aggiungere qualcosa riguardo alla responsabilità: non si può mettere in atto la responsabilità senza la relazione con un altro; una relazione, anzi, che non è possibile limitare al rapporto uno a uno, ma si deve estendere nei confronti della società, del mondo intero, della natura. Potrebbero esserci di aiuto, qui, le due encicliche di papa Francesco: Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020).[23]

Si dirà, ad ogni modo, che il termine responsabilità «ha due grandi significati: uno, che sembra essere diventato prevalente, rimanda alla dimensione dell’imputabilità delle azioni, è il render ragione a sé e agli altri delle azioni che compiamo (essere responsabile di qualcosa). L’altro, altrettanto rilevante, è la responsabilità come cura, come attenzione, come sollecitudine verso qualcuno o verso qualcosa».[24]

Chi, in modo particolare, ha approfondito il tema della responsabilità è stato Hans Jonas. La sua riflessione muove dalla consapevolezza dei rischi cui viene esposta l’umanità da una civiltà tecnologica dove il massimo potere si accoppia col massimo di vuoto e il massimo di capacità al minimo sapere intorno agli scopi. Scrive:

poiché altri uomini verranno in ogni caso dopo di noi, la loro esistenza non richiesta conferirà loro, quando sarà giunto il momento, il diritto di accusare noi progenitori di essere gli artefici della loro sventura, se noi, mediante un agire sconsiderato e non necessario, avremo pregiudicato a loro scapito il mondo oppure la costituzione umana. Ma se per la loro esistenza potranno ritenere responsabili soltanto i loro procreatori diretti […], per le condizioni della loro esistenza potranno ritenere responsabili i remoti progenitori o più in generale i produttori di quelle condizioni. Sussiste quindi per l’umanità odierna, a partire dal diritto all’esistenza non ancora presente, ma anticipabile dei posteri, un dovere di paternità di cui deve rispondere, e in forza del quale noi siamo responsabili nei loro confronti di quelle azioni che possono avere così profonde ripercussioni.[25]

Nelle pagine conclusive della sua opera, ricorrendo al termine cura scrive: «La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando “apprensione” nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere […]: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità».[26]

Come si deduce dal titolo della sua opera, Jonas faceva il richiamo alla civiltà tecnologica. Quando la pubblicava era il 1979. Da allora, anche sotto questo profilo molte cose sono molto cambiate. Si pensi alla rivoluzione tecnologica in corso. Essa «trasforma radicalmente la nostra esperienza […]. In modo reale, perché muta le relazioni spazio-temporali con il nostro ambiente, con i nostri simili, con l’eredità delle nostre conoscenze (basti pensare alla cosiddetta rivoluzione informatica), con il nostro corpo (si pensi alla cosiddetta rivoluzione biotecnologica [...]), con la natura che ci circonda (con la possibilità di modificare le strutture dei viventi e di permettere di programmare animali e vegetali come macchine biologiche per produrre farmaci). E l’uso consueto del termine rivoluzione per descriverli indica la percezione della loro portata in riferimento sia all’esperienza concreta, sia alle modalità con le quali tendiamo a comprenderli».[27]

Ancora, guardando al mondo della cura medica si può dire che «secondo molte previsioni di analisti qualificati e dello stesso andamento del mercato, il lavoro medico, tipicamente intellettuale, può trovarsi in difficoltà, in pratica essere sostituibile, di fronte all’avanzata delle tecnologie robotiche e di quelle sofisticate innovazioni che utilizzeranno al meglio i big data. Molte specialità potrebbero risentirne, quelle strettamente collegate con tecniche che utilizzino computer capaci non solo di fare diagnosi per immagini, ma anche di sviluppare la cosiddetta deep learning, cioè la capacità della macchina di auto apprendere».[28]

Sono cambiamenti radicali. «Stiamo parlando di un nuovo capitolo della storia umana».[29] In proposito il cardinale Carlo Maria Martini domandava: «Sono così minacciose tutte le tecnologie del virtuale? L’intero cammino verso l’intelligenza artificiale finirà per svalutare il valore della persona, riducendola a pura meccanica? O, invece, saranno i valori dell’uomo a indurre la scienza ad aprire nuovi fronti grazie alle conquiste tecnologiche? [...] Tutto questo costituisce uno scenario molto incoraggiante, purché l’intelligenza umana rimanga padrona dei processi».[30]

Paolo Benanti T.O.R., studioso molto autorevole in materia, avverte che una governance delle tecnologie legate all’Intelligenza Artificiale è un appello obbligante alle coscienze, «uno spazio dove le considerazioni antropologiche ed etiche, in un mutuo scambio e dialogo, devono divenire forze efficaci per plasmare e guidare l’innovazione tecnologica, rendendola autentica fonte di sviluppo umano».[31] È, dunque, necessario – afferma lo stesso P. Benanti – promuovere una algor-etica.[32]

Sono questioni inedite, che interpellano indubbiamente temi come la responsabilità e in ultima analisi anche le questioni poste dalla cura. Si tratta di sfide senza precedenti e inedite, che esigono soluzioni nuove. Al riguardo, dice papa Francesco: «Un mondo migliore è possibile grazie al progresso tecnologico se questo è accompagnato da un’etica fondata su una visione del bene comune, un’etica di libertà, responsabilità e fraternità, capace di favorire il pieno sviluppo delle persone in relazione con gli altri e con il creato».[33]

Proprio ieri, per altro, il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ha reso noto il tema del Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2024, dove si legge:

“Intelligenze artificiali e Pace”

I notevoli progressi compiuti nel campo delle intelligenze artificiali hanno un impatto sempre più profondo sull’attività umana, sulla vita personale e sociale, sulla politica e l’economia.

Papa Francesco sollecita un dialogo aperto sul significato di queste nuove tecnologie, dotate di potenzialità dirompenti e di effetti ambivalenti. Egli richiama la necessità di vigilare e di operare affinché non attecchisca una logica di violenza e di discriminazione nel produrre e nell’usare tali dispositivi, a spese dei più fragili e degli esclusi: ingiustizia e disuguaglianze alimentano conflitti e antagonismi. L’urgenza di orientare la concezione e l’utilizzo delle intelligenze artificiali in modo responsabile, perché siano al servizio dell’umanità e della protezione della nostra casa comune, esige di estendere la riflessione etica all’ambito dell’educazione e del diritto.

La tutela della dignità della persona e la cura per una fraternità effettivamente aperta all’intera famiglia umana sono condizioni imprescindibili perché lo sviluppo tecnologico possa contribuire alla promozione della giustizia e della pace nel mondo.[34]

 

 

Ponte di Legno – Hotel Mirella, Sala Paradiso, 9 agosto 2023

 

Marcello Card. Semeraro

 

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[1] Fondamentali per me sono stati gli studi di Luigina Mortari: La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, Milano 2006; Filosofia della cura, Raffaello Cortina, Milao 2015; La politica della cura, Raffaello Cortina, Milano 2021. Per l’aspetto etico, cf. S. Brotto, Etica della cura. Una introduzione, Ethica, Napoli 2013.

[2] Cf. M. Pettinacci, Prendersi cura. Ricerche e riflessioni in tempo di fragilità, EDB, Bologna 2021; G. Lonati, Prendersi cura. Per il bene di tutti: nostro e degli altri, Corbaccio, Milano 2022.

[3] Cf. pure E. Borghi, A. Cargnel, A. Bondolfi (a cura di), La cura dell’altro. Riflessioni bibliche, teologiche e sociali, Cittadella, Assisi 2020.

[4] E. H. Erikson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando Edit., Roma 2003, 84-90;

[5] Cf. M. Semeraro, Per una pastorale generativa. Il cammino di rinnovamento della iniziazione cristiana, Miter Thev, Albano L. 2014; Idem, l ministero generativo. Per una pastorale delle relazioni, EDB, Bologna 2016.

[6] C. Giaccardi, M. Magatti, Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano 2014.

[7] Ho riassunto le mie riflessioni in M. Semeraro, Abbi cura di lui. Proposta per uno stile pastorale, Messaggero, Padova 2022.

[8] Il tema della cura di sé è previo e fondamentale. Cf. L. Mortari, Aver cura di sé, Raffaello Cortina, Milano 2019. Per l’aspetto filosofico cf. M. Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli, Milano 201915; per l’aspetto spirituale, cf. J.-G. Xerri, Prenditi cura della tua anima. Una ecologia interiore, Queriniana, Brescia 2020.

[9] Fedone, 115b-c.

[10] Per il tema in Socrate, cf. A. Papa, L’identità esposta. La cura come questione filosofica, Vita e Pensiero, Milano 2014, 3-10.

[11] L’etimologia è assunta da Isidoro di Siviglia: «Inter Curam et sollicitudinem. Sollicitudo moderata est, atque temperabilis, cura vero sine moderatione est; unde et cura dicta est, eo quod cor urat»: Differentiae, 88: PL 83, 20. Per quanto segue, cf. una sintesi in Semeraro, Abbi cura di lui cit., 31-52.

[12] Il gioco di parole si riscontra pure nella letteratura cristiana antica. Così, ad esempio, in Beda (VIII sec.): «Adam quippe homo, humus, terrigena, terraque rubra et sanguinea, et genitor: et istae interpretationes in humo, et in sanguine, et in terra, et in creatione retinent dignitatem»: Exp. in librum primum Moysi, IV: PL 91, 216; Rabano Mauro (IX sec.): «homo dictus est ab humo»: Exc. de arte gramm. Prisciani: PL 111, 671.

[13] Fabulae, 220: Igino, Miti. Nuova edizione a cura di G. Guidorizzi, Adelphi, Milano 2000, 142.

[14] V. Cantoni Mamiani, Leadership di cura. Dal controllo alle relazioni, Vita e Pensiero, Milano 2021, 125.

[15] La troviamo in Isidoro di Siviglia, che distingue la sollecitudine dalla cura: «Sollicitudo moderata est, atque temperabilis, cura vero sine moderatione est; unde et cura dicta est, eo quod cor urat»: Differentiae, 85: PL 83, 20.

[16] L’espressione «riscaldare il cuore» è presente nella lingua italiana.

[17] Si vedrà per questo C. Badocco, v. Cura in «Enciclopedia Filosofica», 3, Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate – Bompiani, Milano 2006, 2490-2494.

[18] L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2019, 188.

[19] Cf. U. Curi, Le parole della cura. Medicina e filosofia, RaffaelloCortina, Milano 2017.

[20] Per quel che segue, cf. M. Cruz, Farsi carico. A proposito di responsabilità e di identità personale, Meltemi, Milano 2005; cf. pure C. Cossutta, Farsi carico. Il tema della responsabilità in Manuel Cruz, in «Lessico di etica pubblica», 2 (2014), 62-71.

[21] Egli osserva, ad esempio, la ricorrenza, oggi, di espressioni come: ricominciamo di nuovo, voltiamo pagina o altre simili. Sono espressioni che, con la loro stessa enunciazione verbale, ci paiono cariche di connotazioni positive sicché la novità, la rottura con il passato sembrano essere diventate un valore, un segno positivo e quasi rassicurante. L’uomo si contemporaneo si sente al di là di questa rottura con la sua storia, «si sente nuovo, altro», diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto. Il passato viene utilizzato quasi come un dispregiativo: essere legati al passato diventa un difetto, un limite, un problema.

[22] Si dirà, ad ogni modo, che quella di cui M. Cruz parla è una responsabilità laica, che cioè non scaturisce da una trascendenza. Questo, tuttavia, non le toglie valore, ma anzi la rende più “interessante” in vista del dialogo.

[23] Per una sintesi, cf. M. Semeraro, Il francescanesimo di un papa gesuita, Messaggero, Padova 2023.

[24] A. Pessina, Ecologia, responsabilità e antropocentrismo, in «Medicina e Morale» 65 (2016), 709-713.

[25] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1993, 51-52

[26] Jonas. Il principio responsabilità cit., 285.

[27] A. Pessina, Il bello dell'etica. Per una rilettura del rapporto tra essere e dover essere, in R. Corvi (a cura di), Esperienza e razionalità, Franco Angeli, Milano 2005, 152.

[28] A. Panti, Questione medica. Guardiamo al futuro con parametri nuovi, in Quotidianosanità.it del 5 maggio 2018: https://www.quotidianosanita/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=61427.

Cf. pure E. Bartolini, Medico robot? No grazie, Editoriale di «Genova Medica, Anno 19 n. 7-8/2011, 4.

[29] L. Floridi, Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide, Raffello Cortina, Milano 2022, 11.

[30] C.M. Martini, Le cattedre dei non credenti, Bompiani, Milano 2015, ed. Kindle, 832.

[31] P. Benanti, Le macchine sapienti. Intelligenze artificiali e decisioni umane, Marietti, Torino 2018, 130.

[32] Cf. P. Benanti, Oracoli. Tra algoretica e algocrazia, Luca Sossella editore, Roma 2018. Dello stesso Autore, cf. pure Digital Age. Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società, San Paolo, Cinisello Bals. 2020.

[33] Discorso ai partecipanti al seminario «Il bene comune nell’era digitale», promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura e dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, 27 settembre 2019. Per l’argomento, cf. N. Villani, L’intelligenza artificiale e le sue sfide etiche, in «Annali-Università degli Studi Suor Orsola Benincasa» - 2022, Napoli 2022, 293-308.

[34] https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/08/08/0555/01215.html