L’Ecclesiologia del Proemio di Mitis Iudex
Relazione al Corso di formazione organizzato dal Tribunale Apostolico della Rota Romana
Sono grato all’Ecc.mo Decano, Mons. Alejandro Arellano Cedillo, per l’invito a partecipare a questo Corso di formazione giuridico-pastorale, che si tiene in occasione del decimo anniversario del motu proprio Mitis Iudex. L’aspetto sul quale mi ha chiesto di concentrare l’attenzione è la ecclesiologia soggiacente al suo Proemio.
I
La prima questione che ritengo sottoporre alla comune attenzione è di carattere terminologico. Non mi sembra di poco conto, giacché riguarda direttamente il carattere stesso della riforma del processo matrimoniale canonico voluta e operata dal m.p.: si tratta della parola che gli dà il titolo, ossia la parola mitis. Sappiamo che nel Nuovo Testamento tale termine è riferito prima di tutto al Signore Gesù: è Lui il mite ed umile di cuore (Mt 11,29) ed è, perciò, ancora Lui il “giudice mite”. Una volta Papa Francesco ha così commentato il passo evangelico: «Gesù dice di sé stesso: “Imparate da me, che sono mite (gr. prays) e umile di cuore”. Questo è il suo ritratto spirituale e ci svela la ricchezza del suo amore. La mitezza è un modo di essere e di vivere che ci avvicina a Gesù e ci fa essere uniti tra di noi» (Omelia del 1 novembre 2016 nello Swedbank Stadion a Malmö – Svezia).
Come premessa aggiungo solo che sul tema della mitezza nel diritto esiste una bibliografia, che a voi è certamente nota (cito per tutto la recente nuova edizione di G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino 2024); come, però, è stato giustamente osservato, lì il tema non è considerato nel senso della teologia cristiana (cf. I. Zuanazzi, La mitezza quale paradigma della potestà di governo nella Chiesa, in «Ius Ecclesiae», XXX, 1, 2018, pp. 79-100).
Effettivamente, il neotestamentario prays che ne è alla base non è affatto assimilabile al concetto etico di mitezza, già presente nella grecità classica. Nel nostro caso è doveroso salvaguardare la prospettiva che lo vuole come dono di Dio e, di conseguenza, compito cristiano. H. Frankemölle spiega la praytes evangelica come «coraggio del servizio a favore degli uomini, con rinuncia alla violenza e con fede e fiducia in Jahvé» («Dizionario Esegetico del N.T.» a cura di H. Balz & G. Schneider, II, Paideia, Brescia1998, c. 1089)
A proposito della mitezza richiamata dal titolo del nostro m.p. è utile fare un’altra precisazione, visto che la versione ufficiale del Documento in lingua italiana traduce il latino mitis iudex con «giudice clemente». Niente da eccepire, senz’altro, considerato il fatto che l’aggettivo è lì riferito a Gesù. Nel nostro linguaggio orante, difatti, con il quale ci rivolgiamo a Dio, al Padre e a Cristo – e pure alla Vergine Maria, invocata come «regina» – sono classiche le espressioni come: patiens et clemens Dominus, Virgo Dei genitrix clemens et sancta … Nel nostro linguaggio italiano, oltretutto, la mitezza (lat. mansuetudo) è spesso equiparata alla clemenza (lat. clementia). Nel latino, però, specialmente quando è attribuito a persone umane, non si tratta della medesima cosa, per quanto ambedue gli atteggiamenti – della mitezza e della clemenza – si risolvano in fin dei conti in una azione benefica.
Lo insegna esplicitamente San Tommaso d’Aquino, il quale scrive che «la clemenza è la moderatezza di un superiore nei riguardi di un inferiore» (clementia est lenitas superioris adversus inferiorem) e che il suo effetto proprio è la riduzione di una punizione esteriore (clementiam autem pertinet directe quod sit diminutiva poenarum). In questo senso si legge, ad esempio: Deus clemens, qui secundum multitudinem miserationum tuarum peccata poenitentium deles, Christus vobis dimittat debita clemens … Così pure l’invocazione a Maria, che in Sant’Amedeo di Losanna troviamo così spiegata: O clemens, o pia, o dulcis Maria, ut cum dies erit irae, tribulationis et angustiae, non pro reatu puniamur, sed pro te, Domina, digni inveniamur misericordia…
Quanto alla mansuetudine, invece, il cui atto proprio è la mitezza, San Tommaso spiega che essa si rivolge verso chiunque e che ha di proprio il frenare l’impulso dell’ira (mansuetudo autem proprie diminuit passionem irae). Diversamente dalla clemenza, dunque, che modera la punizione esteriore, la mitezza è un moto interiore dell’anima (cf. STh II-II, 157), un atteggiamento ricco di dolcezza, attenzione e premura; alla maniera dell’Apostolo, che scrive: «io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo» (2Cor 10,1).
Seguendo questa linea, in Pastores gregis di Giovanni Paolo II si legge che «sul volto del Vescovo i fedeli devono potere contemplare le qualità che sono dono della grazia e che nelle Beatitudini costituiscono quasi l’autoritratto di Cristo: il volto della povertà, della mitezza e della passione per la giustizia; il volto misericordioso del Padre e dell'uomo pacifico e pacificatore; il volto della purezza di chi guarda costantemente ed unicamente a Dio. I fedeli devono poter vedere nel loro Vescovo anche il volto di colui che rivive la compassione di Gesù verso gli afflitti …» (n. 18).
Dalla mia osservazione – che a qualcuno potrà sembrare scrupolosa – segue che ricordare al vescovo la dimensione vera della mitezza non è affatto chiedergli di cambiare le norme relative all’indissolubilità del sacramento del Matrimonio: il m.p. richiama con forza, peraltro, la necessità di tutelare in massimo grado la verità del sacro vincolo. Si legge: «Non mi è tuttavia sfuggito quanto un giudizio abbreviato possa mettere a rischio il principio dell’indissolubilità del matrimonio; appunto per questo ho voluto che in tale processo sia costituito giudice lo stesso Vescovo, che in forza del suo ufficio pastorale è con Pietro il maggiore garante dell’unità cattolica nella fede e nella disciplina». Il rischio non è ipotetico. Un Vescovo deve, pertanto, sempre ripetere in se stesso quanto suggerisce la preghiera dell’Adsumus: «Non nos patiaris perturbatores esse iustitiae, qui summam diligis aequitatem. Non in sinistrum nos ignorantia trahat …».
Ciò che con l’aggettivo mitis s’intende sottolineare è che l’approccio del Vescovo, inserito nel servizio alla Chiesa a lui affidata, deve sempre essere improntato sulla paternità spirituale. Di conseguenza, pure il suo servizio di giudice dev’essere inteso in tale dimensione. Ossia mitis.
II
Dall’aspetto linguistico passo ora al contesto ecclesiologico, visto che tra il volto del Vescovo e quello della Chiesa c’è sempre una circolarità. Il nostro m.p. del resto parla sempre del Vescovo diocesano. Il principio-base è quello richiamato da Lumen gentium n. 23, dove si insegna che «i singoli vescovi sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari»; principio che in San Cipriano trova la formula: scire debes episcopum in Ecclesia esse et Ecclesiam in episcopo, «Il Vescovo è nella Chiesa e la Chiesa è nel Vescovo» (Epist. 66, 8: Hartel III, 2, p. 733; cf. 69, 8: PL 4, 406).
Nel caso del mitis iudex mi sovviene quel volto di Chiesa che fu richiamato da San Giovanni XXIII inaugurando il Concilio Ecumenico Vaticano II. Nell’allocuzione Gaudet mater Ecclesia disse: «Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando». Oggi possiamo riconoscervi il volto del mitis iudex.
Nel parallelo m.p. Mitis et misericors Iesus, che riguarda la disciplina dei processi matrimoniali nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, l’immagine cristologica ispiratrice per il vescovo è leggermente diversa, ma è tale da permettere un approfondimento ecclesiologico. Nel Proemio si legge infatti che «importantissimo è il ministero del Vescovo, il quale, secondo l’insegnamento dei Padri orientali, è giudice e medico, poiché l’uomo, ferito e caduto (peptokόs) a causa del peccato originale e dei propri peccati personali, divenuto infermo, con le medicine della penitenza ottiene da Dio la guarigione e il perdono e viene riconciliato con la Chiesa. Il Vescovo infatti – costituito dallo Spirito Santo come figura di Cristo e al posto di Cristo (eis typon kai tòpon Christou) – è anzitutto ministro della divina misericordia; pertanto l’esercizio della potestà giudiziale è il luogo privilegiato in cui, mediante l’applicazione dei principi della oikonomia e della akribeia, egli porta ai fedeli bisognosi la misericordia risanatrice del Signore».
Il rimando esplicativo alla prassi medicinale è un classico nella patristica. San Gregorio di Nazianzo, ad esempio, per dare conto delle difficoltà di guidare le anime, fa il confronto con la guida del corpo, cioè la medicina e sottolinea che più ci si rende conto della difficoltà nel curare il corpo, meglio si comprende quanto sia ardua la pratica della medicina dell’anima (cf. Apologetica Oratio II, 16; PG 35, 425). Così pure Sant’Ambrogio, quando spiegava cosa è la mitezza che imita Gesù faceva riferimento alle cure mediche e scriveva: «La consolazione deve essere mite, non aspra; deve alleviare il dolore e mitigare l’ardore e non, invece, suscitare agitazione. Ce lo insegna la stessa medicina del corpo, la quale è solita applicare rimedi più delicati alle ferite infiammate, per alleviarne il dolore. Per questo dapprima le ferite vengono riscaldate e curate con impacchi, e solo dopo si incidono: perché la durezza stessa non offenda e il taglio non renda la ferita più dolorosa» (Enarr. in XII psalmos Davidicos, In Ps. XXXVII,. 42: PL 14, 1030).
Queste parole mi riportano a quel che disse San Paolo VI, chiudendo l’assise conciliare: «L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo». Ritroviamo qui la missione fondamentale del prendersi cura delle persone, soprattutto di quelle più fragili, ammalate e, perciò, anche delle famiglie ferite. Questo mi richiama l’altro volto della Chiesa tante volte illustrato da Papa Francesco, ossia della Chiesa come ospedale da campo. L’idea è antica e la troviamo già in San Giovanni Crisostomo il quale, annunciando ai fedeli l’inizio della Santa Quaresima, diceva: «la Chiesa è una specie di ospedale per la medicina spirituale» (iatreîon pneumatikόn); è «il luogo del rimedio e non quello del giudizio, il luogo del perdono delle colpe e non quello della loro punizione» (In Gen. Hom. 1, 1: PG 53, 22).
III
Passando a considerare i criteri fondamentali che hanno guidato l’opera di riforma dei processi matrimoniali, mi pare che nel Proemio del m.p. Papa Francesco, ne indichi tre: la vocazione e missione del vescovo nella Chiesa particolare, la communio episcoporum, ossia la realtà del collegio dei vescovi (o, come abitualmente diciamo, la «collegialità episcopale») e la communio ecclesiarum. Tutti questi elementi hanno come loro punto di riferimento l’ecclesiologia del Vaticano II e in particolare la dottrina esposta da Lumen Gentium. Anche in questo caso tengo a sottolineare che le tre realtà: ministero episcopale, communio episcoporum e communio ecclesiarum vanno sempre insieme, né possono essere dissociate sicché, quando si tratta dell’una, le altre devono sempre essere considerate sullo sfondo. È un principio generale della scienza teologica, dove i diversi «trattati» non sono l’uno accanto all’altro, ma si illuminano reciprocamente! Vale pure nel nostro caso.
All’inizio del Proemio, dunque, si legge che il «Signore Gesù … ha affidato all’Apostolo Pietro e ai suoi Successori il potere delle chiavi per compiere nella Chiesa l’opera di giustizia e verità; questa suprema e universale potestà, di legare e di sciogliere qui in terra, afferma, corrobora e rivendica quella dei Pastori delle Chiese particolari, in forza della quale essi hanno il sacro diritto e davanti al Signore il dovere di giudicare i propri sudditi». Il tema ritorna in altri passaggi dove si richiama che il Vescovo di Roma offre ai Vescovi questo documento di riforma, in quanto essi «condividono con lui il compito della Chiesa, di tutelare cioè l’unità nella fede e nella disciplina riguardo al matrimonio, cardine e origine della famiglia cristiana».
Un indubbio merito del nostro m.p. è l’avere sottolineato la potestà sacramentale del Vescovo nella Chiesa particolare a lui affidata. Si tratta, infatti, di una realtà cui non sempre viene dato il dovuto rilievo. Si tratta, invece, come spiega l’esortazione Pastores gregis, di una «vera potestà, ma una potestà illuminata dalla luce del Buon Pastore e informata dal suo modello. Esercitata in nome di Cristo, essa è “propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in definitiva regolato dalla suprema autorità della Chiesa e, entro certi limiti, in vista dell'utilità della Chiesa o dei fedeli, possa essere circoscritto. In virtù di questo potere, i Vescovi hanno il sacro diritto e davanti al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e di regolare tutto quanto appartiene al culto e all'apostolato”. Il Vescovo, dunque, è investito, in virtù dell'ufficio che ha ricevuto, di una potestà giuridica oggettiva, destinata ad esprimersi in atti potestativi mediante i quali attuare il ministero di governo (munus pastorale) ricevuto nel Sacramento» (n. 43).
In riferimento, poi, a quanto affermato in Mitis iudex lo stesso Francesco, lo spiegava il 25 novembre 2017ai partecipanti al corso promosso dal Tribunale della Rota Romana. In quella circostanza il Papa richiamava alcuni elementi che mettono in luce la missione del Vescovo diocesano in chiave ecclesiologica e certamente giuridica: nel processo breviore sono richieste, ad validitatem, due condizioni inscindibili: l’episcopato e l’essere capo di una comunità diocesana di fedeli (cf. can 381 §2). La competenza esclusiva e personale del Vescovo diocesano fa diretto riferimento alla ecclesiologia del Vaticano II, la quale ci ricorda che solo il Vescovo ha già, nella consacrazione, la pienezza di tutta la potestà che è ad actum expedita, attraverso la missio canonica. Affidare, dunque, l’intero processo breviore al tribunale interdiocesano (sia del viciniore, sia di più diocesi) porterebbe a snaturare e a ridurre la figura del Vescovo – padre, capo e giudice dei suoi fedeli – a mero firmatario della sentenza. Ora, però, si mette in luce la potestà episcopale del vescovo, che è caratterizzata dall’origine divina, dalla comunione e dalla missione ecclesiale. Essa ha un’indole e un fine pastorale per promuovere l’unità della fede, dei sacramenti e della disciplina ecclesiale, nonché per ordinare adeguatamente la stessa Chiesa particolare, secondo le proprie finalità. Per compiere la sua missione il Vescovo diocesano esercita, in nome di Cristo, una potestà che, in quanto al diritto è annessa all’ufficio conferito con la missione canonica. Tale potestà è propria, ordinaria ed immediata, quantunque il suo esercizio sia regolato in definitiva dalla suprema autorità della Chiesa e quindi possa dal Romano Pontefice essere circoscritta entro certi limiti, per il bene della Chiesa o dei fedeli. Le funzioni di insegnare, santificare e governare non sono tre funzioni che esternamente si assommano l’una all’altra; i tria munera sono, invece, intimamente congiunti fra loro sì da formare un unico triplex munus e dirigere tutto il ministero del Vescovo, sull’esempio del Buon Pastore, al servizio di Dio e dei fratelli (cf. Direttorio “Apostolorum Successores” per il ministero pastorale dei Vescovi, nn. 64-65).
Nel nostro Documento tornano pure i temi della communio episcoporum e della communio ecclesiarum. Vi si sottolinea, infatti, che un vescovo non agisce mai da solo, ma sempre in comunione con gli altri vescovi e con il romano pontefice. Per tale ragione il motu proprio parla della communio in riferimento
- alla Sede Metropolitana, «giacché tale ufficio di capo della provincia ecclesiastica, stabile nei secoli, è un segno distintivo della sinodalità nella Chiesa»;
- alle Conferenze Episcopali che, «spinte dall’ansia apostolica di raggiungere i fedeli dispersi», devono fortemente avvertire il dovere di condividere la conversione pastorale, e devono rispettare «assolutamente il diritto dei Vescovi di organizzare la potestà giudiziale nella propria Chiesa particolare»;
- la Sede Apostolica, quale appello al Tribunale ordinario, cioè la Rota Romana, «nel rispetto di un antichissimo principio giuridico, così che venga rafforzato il vincolo fra la Sede di Pietro e le Chiese particolari, avendo tuttavia cura, nella disciplina di tale appello, di contenere qualunque abuso del diritto, perché non abbia a riceverne danno la salvezza delle anime».
Tale communio non deve essere solo un principio teologico, ma si deve concretamente manifestare negli orientamenti condivisi, nell’unione di intenti e nella condivisione di progetti, formazione e collaborazione fra i vescovi e le Chiese. Mi permetto di dire che dal richiamo del m.p. a rispettare «assolutamente il diritto dei Vescovi», non si può dedurre un diritto «assoluto» del Vescovo stesso: intendo un diritto che lo svincoli, o lo separi dalla prassi scelta dagli altri Vescovi del medesimo territorio, o Conferenza Episcopale. Non sarebbe, infatti, segno di «effettiva» communio una eventuale modalità di azione dissonante fra diocesi della medesima Metropolia o Regione ecclesiastica. L’effetto, in tal caso, metterebbe in questione l’affetto/affectus collegiale, cioè il vincolo sacramentale che è alla base di tutte le relazioni fra i vescovi!
Si potrebbe qui ricorrere a Romano Guardini quando parla di «opposizione polare», ch’è poi volontà di armonizzare gli opposti; invitare a una tavola comune concetti che in apparenza non si potrebbero accostare, perché collocati in un piano superiore, dove trovano la loro sintesi. Potestà del Vescovo e communio episcoporum non sono in contraddizione, ma in «opposizione polare» ed esigono, perciò un incontro a un livello più alto. In Pastores gregis San Giovanni Paolo II ha scritto: «Ogni azione del Vescovo compiuta nell’esercizio del proprio ministero pastorale è sempre un’azione compiuta nel Collegio. Che si tratti di esercizio del ministero della Parola o del governo nella propria Chiesa particolare, o anche di decisione presa con gli altri Fratelli nell’episcopato riguardo alle altre Chiese particolari della stessa Conferenza episcopale, in ambito provinciale o regionale, rimane sempre azione nel Collegio, perché compiuta conservando la comunione con tutti gli altri Vescovi e con il Capo del Collegio, nonché impegnando la propria responsabilità pastorale. Tutto questo, poi, si realizza non già in virtù di una convenienza umana di coordinamento, bensì di una sollecitudine verso le altre Chiese, che deriva dall'essere, ciascun Vescovo, inserito e raccolto in un Corpo, o Collegio. Ogni Vescovo, infatti, è simultaneamente responsabile, anche se in modi diversi, della Chiesa particolare, delle Chiese sorelle più vicine e della Chiesa universale» (n. 59).
Aggiungerei ciò che disse Benedetto XVI ai Vescovi della Conferenza Episcopale di Albania in visita ad limina il 23 maggio 2008: «spetta anzitutto a voi il compito di promuovere nei vostri atti e nelle vostre iniziative quell’unità che deve manifestare il mistero basilare e vivificante dell’unico Corpo di Cristo, in comunione col ministero del Successore di Pietro. Non si può non vedere, in questa prospettiva, quanto sia essenziale il comune sentire e la condivisa corresponsabilità dei Vescovi, proprio per far fronte in modo efficace ai problemi e alle difficoltà della Chiesa in Albania. Come potrebbe immaginarsi un percorso diocesano che non tenesse conto del parere degli altri Vescovi, il cui consenso è necessario per rispondere in modo adeguato alle attese dell’unico popolo a cui la Chiesa si rivolge?». Sono principi ecclesiologici che, evidentemente, sulle labbra di Benedetto XVI non valgono solo per l’Albania!
Penso a quanto la Commissione Teologica Internazionale ha scritto al n. 70 del suo Documento La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa (2018), ossia che la sinodalità deve essere vissuta secondo tre ambiti, certamente correlati, ma distinti: a) anzitutto la sinodalità come stile, che si manifesta nel modo ordinario di vivere e operare della Chiesa; b) in secondo luogo, quella sinodalità che designa particolari strutture nei differenti livelli parrocchiale, diocesano, interdiocesano… e relativi processi nei quali si esprime e si traduce la natura sinodale della Chiesa; c) da ultimo, la sinodalità che designa specifici «eventi sinodali in cui la Chiesa è convocata dall’autorità competente e secondo specifiche procedure determinare dalla disciplina ecclesiastica». Cito solo questo numero perché è stato ribadito da Leone XIV quando il 26 giugno 2025 ha incontrato i membri del Consiglio Ordinario della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi. Ha detto testualmente: «Papa Francesco ha dato un nuovo impulso al Sinodo dei Vescovi, rifacendosi, come più volte ha affermato, a San Paolo VI. E l’eredità che ci ha lasciato mi pare sia soprattutto questa: che la sinodalità è uno stile, un atteggiamento che ci aiuta ad essere Chiesa, promuovendo autentiche esperienze di partecipazione e comunione».
IV
La Chiesa non considera i processi di nullità matrimoniale come pratiche burocratiche, ma le intende quale missione radicata nella sollecitudine pastorale del vescovo. È il principio guida per il quale il vescovo, somigliante a Cristo mitis iudex, è anch’egli «giudice». Nel motu proprio si legge: «Affinché sia finalmente tradotto in pratica l’insegnamento del Concilio Vaticano II in un ambito di grande importanza, si è stabilito di rendere evidente che il Vescovo stesso nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati. Si auspica pertanto che nelle grandi come nelle piccole diocesi lo stesso Vescovo offra un segno della conversione delle strutture ecclesiastiche, e non lasci completamente delegata agli uffici della curia la funzione giudiziaria in materia matrimoniale. Ciò valga specialmente nel processo più breve, che viene stabilito per risolvere i casi di nullità più evidente».
Sulla conversione delle strutture Papa Francesco aveva già scritto, come peraltro citato nel m.p., al n. 27 di Evangelii Gaudium. Qui la parola «conversione» è rivolta non ai «lontani», o ai non-credenti, bensì ai «vicini» e alla strutture stesse della Chiesa. Si tratta di un farsi-vicini, come una madre che si avvicina a dei figli che si considerano oramai fuori della famiglia: non perché siano lontani, ma perché sono stati allontanati.
Non possiamo, però, trascurare che oggi il decennale di Mitis iudex coincide con le settimane conclusive del Giubileo della Speranza. Non dispiace, perciò, ricordare ciò che scriveva Giovanni Paolo II nel n. 4 di Pastores gregis: «Sarà … la speranza in Gesù, Buon Pastore, a riempire il suo (del Vescovo) cuore di compassione inducendolo a piegarsi sul dolore di ogni uomo e donna che soffre, per lenirne le piaghe, conservando sempre la fiducia che la pecora smarrita possa essere ritrovata. In tal modo il Vescovo sarà sempre più luminosamente segno di Cristo, Pastore e Sposo della Chiesa. Agendo come padre, fratello e amico di ogni uomo, egli sarà accanto a ciascuno viva immagine di Cristo, nostra speranza, nel quale si adempiono tutte le promesse di Dio e sono portate a compimento tutte le attese della creazione»
Ci sono alcuni passaggi del m.p. che mi pare sollecitino in modo particolare il Vescovo ad atteggiarsi quale mitis iudex: ossia fratello e amico. Il primo è laddove scrive che: «ho deciso di dare con questo Motu proprio disposizioni con le quali si favorisca non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi, non meno che una giusta semplicità, affinché, a motivo della ritardata definizione del giudizio, il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio». Aggiungo il dettato del can. 1683: «Allo stesso Vescovo diocesano compete giudicare le cause di nullità del matrimonio con il processo più breve ogniqualvolta … ricorrano circostanze di fatti e di persone, sostenute da testimonianze o documenti, che non richiedano una inchiesta o una istruzione più accurata, e rendano manifesta la nullità». È una situazione classica per richiedere non un giudizio «clemente», ma un giudizio davvero «mite».
Per rimanere nel tema assegnatomi non aggiungo altro. Concludo, allora, con quanto Papa Francesco disse il 24 ottobre 2013 nell’omelia di una Messa per una ordinazione episcopale: «Amate, amate con amore di padre e di fratello tutti coloro che Dio vi affida … amate i poveri, gli indifesi e quanti hanno bisogno di accoglienza e di aiuto. Esortate i fedeli a cooperare all’impegno apostolico e ascoltateli volentieri …. E vegliate con amore su tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo vi pone a reggere la Chiesa di Dio. Vegliate nel nome del Padre, del quale rendete presente l’immagine; nel nome di Gesù Cristo, suo Figlio, dal quale siete costituiti maestri, sacerdoti e pastori. Nel nome dello Spirito Santo che dà vita alla Chiesa e con la sua potenza sostiene la nostra debolezza».
Roma, Palazzo della Cancelleria, 19 novembre 2025
Marcello Card. Semeraro