Riflessioni conclusive al Convegno «Non c’è amore più grande. Martirio e offerta della vita»

 

Riflessioni conclusive

Convegno «Non c’è amore più grande. Martirio e offerta della vita»

 

Giunti al termine dei lavori del nostro Convegno sento il bisogno di ripetere, questa volta sinceramente motivati, la gratitudine del Dicastero e mia personale a tutti che, in forme diverse, ma convergenti, hanno prestato il loro contributo: i Relatori, certamente, insieme con i Moderatori, ma anche voi partecipanti, che, con la vostra attenzione e le vostre domande, avete reso ancora più interessante e utile il lavoro di questi giorni. Ancora grazie pure all’Augustinanum, che ci ha ospitati, agli interpreti e agli officiali del Dicastero per il servizio reso.

Ora è mio compito aggiungere alcune parole di conclusione. Non si tratta, però, di «conclusioni», come si legge nel dépliant illustrativo del programma svolto… Come fare? Il lavoro è stato davvero intenso e il ritmo alquanto serrato! Per «concludere» degnamente occorre quella distanza, che solo il tempo può dare. Vi confiderò, allora, brevemente, alcuni pensieri che, nell’ascolto, sono sorti in me come prima, quasi spontanea reazione a quanto ci veniva comunicato.

Seguirò, allora, l’ordine che mi è suggerito dai rapidi appunti, che ho tracciato mentre si succedevano le relazioni; prima, però, è giusto confidarvi una prima impressione generale circa la ricca molteplicità degli interventi: ci sono state delle tematiche generali, che hanno fatto come da sfondo ai nostri lavori, ma ad esse si sono organicamente aggiunte alcune riflessioni, che ci hanno trasportato nelle diverse aree geografiche: e questo vuole dire in differenti culture, tradizioni, storie… tutte molto diverse tra loro; ci sono stati pure gli altri «territori», questa volta della fede cristiana, nella varietà delle sue confessioni. In questi molteplici territori sono state inserite tante storie martiriali. Tutto ha avuto il suo momento di sintesi nella considerazione dell’uomo: l’uomo, sì; l’uomo in quanto tale, certamente, ma pure l’uomo di oggi «con i suoi eroismi e le sue meschinità», come abbiamo ascoltato nella prima relazione di stamane della prof.sa Zanet; tutto, però, stando ben attenti, a non generalizzare e a rintracciare alcune costanti. Tra cui quello, davvero umanizzante, del dono.

Quanto sia importante «donare» ce lo ha detto un pagano, ma non per questo la sua massima non merita attenzione. Si trova, oltretutto, in un’opera di Seneca, del quale l’antichità aveva una tale stima da immaginare un suo carteggio con l’apostolo Paolo: era, evidentemente, un «falso», costruito pure allo scopo d’innalzare il prestigio del cristianesimo.[1] Seneca, dunque, sentenziava: hoc habeo, quodcumque dedi, «io ho quello che ho donato».[2] Il come e i volti di questo dono – dono della vita – ci sono stati indicati pure dalle due relazioni di oggi: quella di S.E. mons. F. Fabene e l’altra, di p. M. Faggioni. Se quella della prof.sa Zanet si è collocata nella linea antropologica, quelle di Mons. Fabene e del p. Faggioni si sono poste nella prospettiva più specifica del nostro Dicastero quanto al «dono della vita». Ciò doverosamente premesso, mi siano concesse alcune personali riflessioni.

Comincio riprendendo il riferimento a Seneca, di cui ho pure già detto nell’Introduzione di lunedì pomeriggio. Egli era uno stoico; Lattanzio, addirittura, lo indica come acerrimus stoicus romano.[3] Questa sottolineatura perché – ricordavo anche questo nella mia Introduzione – il martirio è stato fin dal principio interpretato alla luce dello stoicismo. Ce lo ricorda – penso ci abbiate fatto caso un po’ tutti – l’immagine scelta per illustrare il nostro Convegno: si tratta di sant’Albano, conosciuto come il primo martire britannico.[4] Osserviamo la stampa: non è forse sereno nel volto, quel martire, per quanto trafitto e già sul momento di essere decapitato? Così muoiono i martiri: i dolori, infatti, sono soltanto delle exercitationes (prove), come diceva sempre Seneca.[5]

Questo schema si ripete nei secoli e ne troviamo in qualche modo delle tracce ancora in san Francesco d’Assisi dove, però, la «musica» è ormai totalmente diversa. Di Francesco, infatti, si narra che giunto nel castello di Montefeltro:

entra e vassene in sulla piazza, dove era raunata tutta la moltitudine di questi gentili uomini, e in fervore di spirito montò in su uno muricciuolo e cominciò a predicare proponendo per tema della sua predica questa parola in volgare: Tanto è quel bene ch’io aspetto, che ogni pena m’è diletto. E sopra questo tema, per dittamento dello Spirito Santo, predicò sì divotamente e sì profondamente, provandolo per diverse pene e martìri de’ santi apostoli e de’ santi martiri e per le dure penitenze di santi confessori, per molte tribulazioni e tentazioni delle sante vergini e degli altri santi, che ogni gente stava con gli occhi e con la mente sospesa inverso di lui, e attendeano come se parlasse uno agnolo di Dio».[6]

È, a questo punto, doveroso dire che in realtà nei santi martiri non c’era insensibilità: loro non sono mai stati, né sono degli eroi insensibili alla paura, all’angoscia, al panico, al terrore, al dolore fisico e psichico alla maniera degli eroi mitologici: come Achille, noto per la sua invulnerabilità, tranne che nel tallone; Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini; Eracle, proverbiale per le sue straordinarie fatiche e la sua forza sovrumana… I martiri cristiani, invece, non furono impassibili; furono «umani», come ha scritto P.L. Guiducci in un saggio sulla testimonianza dei martiri cristiani a Roma dal I al IV secolo.[7]

A loro riguardo, il prof. A. Riccardi ci ha parlato di forza nella debolezze e di forza della debolezza. Dalla sua relazione, ma pure dalle comunicazioni di ieri, non ci è difficile dedurre che il numero dei martiri cristiani non si riduce affatto a quelli beatificati e/o canonizzati. C’è, al contrario, un intero, grande popolo di martiri, se non altro perché c’è stato e c’è un martirio di popolo.[8] Se, infatti, è vero l’antico detto di Tertulliano, che semen est sanguis Christianorum,[9] è anche vero che i martiri nascono e germogliano in un terreno di fede cristiana. Dai martiri fioriscono i cristiani, ma pure dai cristiani sbocciano i martiri. Mi torna alla memoria la storia di Origene, il quale si sentiva incoraggiato dall’esempio del padre Leonida, ma quando ha 17 anni è lui  scrivere al padre per esortarlo ad affrontare il martirio.[10]

Passo ora alla relazione del vescovo A. Amarante sul tema dell’odio contro la fede cristiana nel mondo di oggi, dove abbiamo udito l’evocazione delle figura dell’Idiota di Dostevskij con il suggerimento di una sua sovrapposizione alla figura di Cristo. Non a torto di sicuro e, anche qui, ho avuto un ritorno di memoria perché Romano Guardini ha dedicato a questa figura pagine davvero belle e profonde. Egli, infatti, comincia proprio con il sostenere che nel principe Myškin si manifesta una particolare somiglianza con Cristo, che Guardini esprime richiamandosi a Gal 2,20: «Io vivo, ma non io, bensì Cristo vive in me», ch’è per lui come il timbro della santità: egli la chiama «in-esistenza di Cristo nel cristiano». Ciò detto, Guardini s’interroga sul perché e sul come di questa assimilazione a Cristo. Comincia, allora, a descrivere la figura dell’Idiota nel confronto con i suoi fratelli; ne riprende comportamenti e scelte e, da ultimo, riferisce una sua riflessione quando, nel treno, avendo iniziato viaggio, pensa: «Ora sto andando dagli uomini ... ». Qui la luce si accende: Myškin è uno che viene d’altrove; viene dal suo mondo e va verso gli uomini. Sì, ecco perché in lui si manifesta Cristo: egli è un uomo nel quale Cristo ha fatto la sua irruzione.[11]

C’è stato, poi, il prof. Jan Mikrut il quale, giunto al termine del suo intervento ha denunciato la «dimenticanza» nei riguardi di questa storia di martiri: «Una delle caratteristiche negative dell’epoca moderna – ha detto – risiede nel fatto che la memoria del passato viene spesso trascurata. Alcune società vivono secondo l’errato preconcetto che non vi sia nulla di straordinario che valga la pena di essere ricordato».[12] Mi domando: è solo smemoratezza, distrazione, noncuranza? Certo. Potrebbe, però, essere anche quella caduta nella «banalità del male», di cui ha scritto H. Arendt a proposito del processo Eichman, dove la lontananza dalla vera realtà e la mancanza di idee sono il presupposto fondamentale della tentazione totalitaria, che tende ad allontanare l’uomo dalla responsabilità del reale, rendendolo meno di un ingranaggio in una macchina.

Potrebbe, infine, essere pure quell’appiattimento sul presente (o sull’attimo fuggente) che caratterizza la nostra epoca, cancellando così non soltanto il passato, ma pure il futuro. In un’ intervista rilasciata per il più diffuso quotidiano italiano, il giovane cantante chiamato Ultimo dice: «Essere giovani oggi è tremendo. Perché sei senza punti di riferimento». E alla domanda su cosa intendesse risponde: «Non conosco nessun ragazzo della mia età che vada a votare, e nessuno che vada in chiesa». All’altra domanda se crede in Dio, egli risponde di essere «sempre alla ricerca. Ho bisogno di credere, sento una grande fede dentro…». Subito dopo, però, precisa: «un conto è credere in un dio, in un’entità, nelle energie; e io credo nelle energie …». Qui ci rendiamo conto che non c’è più spazio per la relazione e quindi neppure per il dono.

Indicazioni preziose per una tale situazione ci sono giunte dalla prof.sa Zanet la quale, tra i passaggi necessari, ha indicato pure quello che va dall’individualismo alla riscoperta delle relazioni, invitando a operare un transito da quelle che E. Husserl definiva «monadi isolate» alle altre, chiamate «monadi con finestre», dove le finestre sono l’empatia. Indicazione antropologicamente preziosa, perché solo su questa base umana, come è stato ricordato da lei e da S.E. Fabene, si costruisce quella «dimensione comunitaria» della santità, che fu il tema del nostro Convegno lo scorso anno.

Tutto questo non vale solo per l’area europea; vale, più o meno, dappertutto. Mi ha dato, però, molto da pensare la relazione del prof. Affatato relativa all’Asia: egli diceva che lo stile di vita cristiano in quel Continente può essere sintetizzato dalla formula: «essere buoni cittadini e nel contempo buoni cristiani». Ciò mi fa fatto ricordare quel che scrive l’Autore della Lettera a Diogneto riguardo ai cristiani del II secolo. Scrive:

I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale … Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera.[13]

La situazione descritta dall’ignoto autore di questa Lettera è quella del cristianesimo degli inizi, dove ciò che identificava il cristiano era proprio la sua estraneità al mondo e questa era pure il motivo e la radice della sua santità. Cito ancora R. Guardini, il quale si domanda chi fossero quei «santi» residenti a Corinto, a Tessalonica ecc, ai quali scriveva l’apostolo Paolo. Sono semplicemente i cristiani, risponde ed è davvero così: «Quando noi ragioniamo dei santi, pensiamo ai grandi “isolati” del cristianesimo, le cui austere figure stanno nelle nostre chiese. Qui invece sono uomini, che vivono a Corinto, a Tessalonica, ad Efeso o dove che sia, che credono, sperano, lottano contro la loro fragilità e non hanno gran che di straordinario da ostentare nella loro vita religiosa».[14]

Tutto semplice, allora? Nient’affatto perché «all’inizio del cristianesimo, era già qualcosa di straordinario diventare cristiano e vivere da cristiano. Uno che si decideva a questo, si staccava dalla propria esistenza precedente. Diventava estraneo al suo ambiente. E se la sua famiglia si convertiva con lui, diventava estraneo ad essa. E talvolta era così profonda questa diversità da equivalere ad una separazione». E questo non valeva solo per la famiglia, ma pure per la società e per lo Stato sicché chi diventava cristiano «affrontava, per amore di Dio, un passo gravido di conseguenze. Egli entrava in una vita turbata dalla diffidenza dell’ambiente agitato e aggravata da difficoltà d’ogni genere. Richiedeva rinuncia su rinuncia e spesso conduceva all’oppressione e alla morte».[15]

Dopo, però, il cristianesimo diventò religione di stato e i cristiani lasciarono il posto alla «cristianità»: tutta la precedente «estraneità» non solo scomparve, ma fu persino dimenticata. Il suo posto fu preso dal monachesimo dei Padri del deserto il posto dei martiri fu preso dagli asceti, dai monaci e non da loro soltanto. Appena l’altro ieri, nella memoria di san Martino abbiamo così recitato nell’antifona al Magnificat dei Vespri: «Martino, vescovo santo, con tutte le tue forze amavi Cristo Re e non temevi le potenze del mondo. Anima santissima, se la spada non ti ha colpito non hai perso la gloria del martirio».[16]

Tutto questo lo ha ricordato ieri il protopresbitero Sergio Mainoldi, citando per questo i testi di san Massimo il confessore a commento all’agonia di Gesù nel Getsemani.[17] Ciò mi ha riportato alla memoria un altro testo, questa volta di san Tommaso Moro (1477-1535), il quale, ormai prigioniero nella Torre di Londra in attesa della sempre più sicura condanna a morte, scrive un opera e la intitola De tristitia Christi: è anche questo una meditazione sulla agonia di Gesù. Nel racconto dell’evangelista Marco compare un ragazzo che seguiva Gesù con indosso soltanto un lenzuolo; scoperto, fugge via nudo lasciando ai persecutori soltanto un lenzuolo. È per Tommaso Moro il simbolo della libertà del discepolo: con il suo umorismo, Tommaso vuole dire a Enrico VIII: io ti lascio il mio mantello, prendilo pure; io vado libero verso Cristo![18] Ecco un modo cristiano, «drammatico» ma utopico di vedere il martirio: il martirio porta altrove… «Oggi, con me nel paradiso».

Concludo: il dr. Affatato e la prof.sa Zanet ci hanno ricordato la figura di Akash Bashir, il giovane pakistano che, mentre il 15 marzo 2015 svolgeva il suo servizio d’ordine, resosi conto della minacciosa presenza di un terrorista kamikaze che voleva entrare in Chiesa, lo fermò abbracciandolo: così è saltato in aria insieme con lui! Ambedue, in prospettiva diversa ma complementare, hanno sottolineato la simbologia di quell’abbraccio! Avviandoci, dunque, a chiusura del nostro Convegno proporrei di unire mentalmente la raffigurazione di sant’Albano a questa seconda immagine, che ci dice anch’essa molto sul martirio e sul dono della vita.

E intanto? Come ci ha ricordato don Aimable Musoni, nel mutare dei tempi il diventare cristiani giunse gradualmente ad esigere il processo opposto a quello suggerito dalla Lettera a Diogneto: lì, vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno capitava, i cristiani si adeguavano ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo, ma avevano una mirabile estraneità a motivo di Cristo! In epoca di cristianità, la stessa evangelizzazione giunse a portare agli altri non solo quel Cristo di cui si era innamorati, ma pure i propri costumi, le proprie tradizioni ecc.

Chi non ricorda la questione dei «riti cinesi»? C’era certo la raccomandazione di Propaganda fide: «Cosa potrebbe essere più assurdo che trasferire in Cina la civiltà e gli usi della Francia, della Spagna, dell’Italia o di un’altra parte d’Europa? Non importate tutto questo, ma la fede che non respinge e non lede gli usi e le tradizioni di nessun popolo, purché non siano immorali».[19] Dopo, però, le cose si complicarono e nel 1630 in Cina giunsero altri missionari (domenicani e francescani) e i gesuiti perdettero la battaglia. Oggi abbiamo le questioni dell’acculturazione, inculturazione ecc., ma…

Non mi dilungo, perché non è questo il luogo e il momento; mi domando, però: quelle comunità dell’Asia, tanto somiglianti alla Lettera a Diogneto, sono una figura del nostro passato, o possiamo intenderle come una profezia del nostro futuro?

Oggi, nella nostra parte d’Europa, che include Roma, non abbiamo certo le «persecuzioni» dei primi tempi cristiani e lo stesso Colosseo, che nella nostra immaginazione è il teatro della morte di tanti martiri, oggi lo è per le nostre Via Crucis e celebrazioni giubilari per i «Nuovi Martiri». Se non c’è la persecuzione, abbiamo, però, l’indifferenza. Cosa è più drammatico?

Quando in Gaudete et exsultate papa Francesco ha commentato la beatitudine evangelica che dice: «Beati i perseguitati per causa della giustizia… Beati quando vi insulteranno. vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia…», ha scritto solo due righe; ha scritto, però, che nell’indifferenza non si tratta più di persecuzioni, ma «di scherni che tentano di sfigurare la nostra fede e di farci passare per persone ridicole». Intende dire che la beatitudine evangelica rimane attuale anche laddove non c’è persecuzione, ma indifferenza, o derisione. Ha perciò concluso che «accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità» (Gaudete et exsultate, n. 94). Altre volte, papa Francesco ha parlato pure di «martirio coi guanti bianchi».[20]

Sì, carissime/i, la domanda che ancora non mi lascia la mente da ieri è questa: tra venti/trent’anni la nostra Chiesa – penso ora all’Italia – come sarà? Ci sono già Nazioni nella stessa Europa che possono farcelo immaginare.

Il 6 novembre scorso, al Dicastero delle Cause dei Santi ho incontrato il Nunzio Apostolico nel Kazakhstan e ieri questo incontro mi è tornato alla memoria, quando il Dr. Affarato ha letto una parte del discorso che papa Francesco tenne proprio lì, nella Cattedrale di Nur-Sultan, nel settembre 2022. Disse:

C’è una grazia nascosta nell’essere una Chiesa piccola, un piccolo gregge; invece che esibire le nostre forze, i nostri numeri, le nostre strutture e ogni altra forma di rilevanza umana, ci lasciamo guidare dal Signore e ci poniamo con umiltà accanto alle persone. Ricchi di niente, poveri di tutto, camminiamo con semplicità, vicini alle sorelle e ai fratelli del nostro popolo, portando nelle situazioni della vita la gioia del Vangelo. Come lievito nella pasta e come il più piccolo dei semi gettato nella terra, abitiamo le vicende liete e tristi della società in cui viviamo, per servirla dal di dentro.

Se la nostra Chiesa fra alcuni anni sarà anch’essa così, allora dobbiamo essere pronti a questa irruzione della grazia.

Vedete, carissimi, quanti ricordi mi sono venuti in mente in questi tre giorni? Il mio sogno è che questi ricordi siano il futuro. Grazie e arrivederci domattina per l’incontro con il Santo Padre.

 

Roma, Istituto Patristico Augustinianum, 13 novembre 2024

 

Marcello Card. Semeraro

 

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[1] Cf. la Tesi di Laurea discussa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia nell’a.a. 2013-2014 da Federica Piccolo su: Il carteggio apocrifo tra Seneca e San Paolo: rapporti con l’epistolario di Simmaco oratore, Relatore Prof. Paolo Mastandrea.

[2] Lo stesso Seneca scrive di avere trovato l’espressione in un testo del poeta romano Rabirio: «Mi pare davvero bello come Marco Antonio, nel poeta Rabirio, quando vede che la fortuna passa da lui ad altri e che a lui ormai resta solo la possibilità di morire, ma anche questa a condizione di metterla subito a frutto, dica: Ho ciò donato»: De beneficiis, VI, 3, 1.

[3] Divinarum Institut. I, 5: PL 6, 136. L’aggettivo acerrimus è da tradursi positivamente con «persona di grande intelligenza e perspicacia, di ingegno acuto e virtuoso».

[4] La vicenda di questo martire è narrata da Beda nella sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum (I. 7). Successivamente si racconterà che egli sarebbe stato ucciso perché offertosi in sostituzione del chierico Anfibulo, suo ospite, che lo avrebbe battezzato (cf. R. Ruocco, v. Albano, protomartire di Inghilterra, in «Bibliotheca Sanctorum», I, cc. 656-659. Si tratterebbe, così, di uno dei primi casi di oblatio vitae.

[5] Con questo schema, ad esempio, è costruito il Martyrium Polycarpi, risalente al 155/156 dove lo sfondo stoico è evidente: quando i persecutori lo trovano, egli è nell’atteggiamento del filosofo che dorme tranquillo e quando gli viene notificata la condanna alle belve risponde sereno che ciò avrebbe accresciuto la bontà del suo agire.

[6] I Fioretti. Considerazioni sulle stimmate, 1: FF 1897. Il testo precisa che ciò avvenne nel 1224 e il santo aveva 43 anni.

[7] Nell’ora della prova. La testimonianza dei martiri cristiani a Roma dal I al IV secolo, Edizioni Albatros, Roma 2017.

[8] A. Riccardi ha ricordato che questo allargamento del concetto di martirio è stato proposto da Giovanni Paolo II e ripreso fa papa Francesco.

[9] Apologeticus adversus gentes pro christianis, 50: PL 1, 535.

[10] Cf. E. Dal Covolo, v. Martirio, in A. Monaci Castagno (ed.) «Origene. Dizionario. La cultura, il pensiero, le opere», Città Nuova, Roma 2022, pp. 266-268. Qui si ricorda la teoria origeniana, condivisa con sant’Ambrogio, del «martirio allo scoperto» e del «martirio nel segreto», o «della coscienza»,: si tratta di coloro che sono pronti al martirio qualora ne fossero richiesti dalle circostanze.

[11] Cf. R. Guardini, Dostoevskij, Morcelliana, Brescia 2022, pp. 204-30 («Opera Omnia, XXIII).

[12] Di rimozione del martirio ha palato pure A. Riccardi nella sua relazione.

[13] A Diogneto, VI, 1, 5. Su questo fondamentale scritto, cf. M. Perrini (a cura di), A Diogneto. Alle sorgenti dell’esistenza cristiana, La Scuola, Brescia 1984, pp. 17-23; F. Ruggiero (a cura di), A Diogneto. Introduzione, testo critico e note di commento, Città Nuova, Roma 2020.

[14] R. Guardini, Il santo nel mondo, in Idem, «Ansia per l’uomo», Morcelliana, Brescia 2024, p. 244-245.

[15] Guardini, Il santo nel mondo cit., pp. 245-246. Cf. pure ciò che scrive H. U. v. Balthasar: «Secondo l’insegnamento di Cristo lo stato di persecuzione è lo stato normale per la Chiesa nel mondo, ed il martirio del cristiano è la sua situazione normale... E non nel senso che ogni singolo cristiano debba subire il martirio cruento, ma nel senso che egli dovrebbe considerare il caso che si presenta come la manifestazione esterna di una realtà interna, della quale egli pure vive. Il martirio è l’orizzonte della vita cristiana»: Cordula ovverossia il caso serio, Brescia 1993, p. 27.

[16] O beatum pontificem, qui totis visceribus diligebat Christum regem et non formidabat imperii principatum! O sanctissima anima, quam etsi gladius persecutoris non abstulit, palmam tamen martyrii non amisit,: la frase, adattata dalla liturgia a san Martino, è presente in Venanzio Fortunato, che l’applica a sant’Ilario di Poitiers.

[17] San Massimo mostra come con la preghiera nel Getsemani Gesù mostra la debolezza della sua umanità (che per questo è una vera umanità) invocando: «Padre, se è possibile si allontani da me questo calice»; al tempo stesso si mostra come esempio per noi quando dice: «Si compia in me la tua volontà, non la mia». Così, con l’accettazione delle sua sofferenza, Cristo si mostra quale modello per ogni cristiano che soffre per amore di Dio: cf. Massimo il Confessore. Meditazioni sull’agonia di Gesù a cura di A. Ceresa-Gastaldo, Città Nuova, Roma 1996: per il passo citato, cf. pp. 28-29. 64. 79-81. Si terrà pure conto, però, dell’affermazione di san Massimo, per cui il Figlio di Dio «divenne uomo per salvare, non per patire», Ivi. p. 64. Sul tema, fondamentale è F.-M. Lethel, Théologie de l’agonie du Christ. La liberté humaine du fils de Dieu et son importance sotériologique mises en lumière par saint Maxime le Confesseur, Beauchesne, Paris 1979.

[18] Cf. Tommaso Moro, Gesù al Getsemani. De tristitia Christi, a cura di D. Pezzini, Paoline, Milano 2011, pp. 200-210.

[19] Cf. Istruzione per i vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina (1659), in «Sacrae Congregationis de Propaganda Fide memoria rerum», III/2, Rom-Freiburg-Wien, Herder 1976, pp. 696-704.

[20] L’espressione la usò nella Omelia in Santa Marta del 30 giugno 2014: «se in quella persecuzione di Nerone ce ne sono stati tanti, oggi non ce ne sono meno di martiri, di cristiani perseguitati… Pensiamo al Medio oriente, ai cristiani che devono fuggire dalla persecuzione e ai cristiani uccisi dai persecutori e anche ai cristiani cacciati via in modo elegante, con i guanti bianchi: anche quella è una persecuzione!».».