Articolo su Rosario Livatino

 

Rosario Livatino, giudice e beato

 

Nel corso dell’Udienza concessa al Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi il 21 dicembre 2020, il Sommo Pontefice ha autorizzato la medesima Congregazione a promulgare il Decreto riguardante «il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, Fedele Laico; nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì (Italia) e ucciso, in odio alla Fede, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento (Italia), il 21 settembre 1990»(1).

    La notizia ha suscitato immediatamente una grande eco: non solo per la figura in sé, certo molto nota e apprezzata fin dal giorno della sua uccisione, quanto per il fatto che, almeno in epoca recente, sarebbe la prima volta che una decisione di questo genere riguarda un magistrato nell’esercizio del suo dovere, come da alcuni è stato subito rilevato. È proprio sul tipo di santità proposta dalla beatificazione del giudice Livatino che si focalizzeranno le pagine seguenti, supponendo noti i pur importanti aspetti biografici (cfr il riquadro alla p. a fianco) e quelli relativi all’evento delittuoso che stroncò la sua vita.

 

   1. Sia santo, sia martire

    L’omicidio di Rosario Livatino suscitò grande reazione nell’Italia di quegli anni, sicché la sua figura fu studiata e approfondita a lungo. A livello penale furono aperti ben tre processi dai quali la sua immagine di uomo e di magistrato emerse in tutta la sua limpidezza. Al contempo, anche nel popolo di Dio, e non solo in terra di Sicilia, crebbe la convinzione che Livatino possedesse una personalità cristiana tale da permettergli di superare il piano della giustizia e dell’azione di un magistrato. Si ricorderanno, in tale contesto, le parole pronunciate a braccio da Giovanni Paolo II al termine della Messa celebrata il 9 maggio 1993 nella Valle dei Templi di Agrigento: «lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Successivamente si è saputo che, prima di giungere alla Valle dei Templi, il Papa aveva voluto fermarsi per alcuni minuti presso la casa dei genitori di Rosario, Rosalia e Vittorio Livatino.

    Nel processo canonico, la convinzione che si trattasse di martirio maturò gradualmente durante l’ascolto dei testimoni, fino a indurre il Postulatore (2) a richiedere quello che in termini tecnici è detto mutamento del lemma da super virtutibus a super martyrio, cioè il passaggio da un processo per l’accertamento dell’eroicità delle virtù a un processo per un caso di martirio. La Congregazione accolse favorevolmente la richiesta nel novembre 2019 e tra dicembre 2019 e gennaio 2020 si procedette pertanto a un’inchiesta suppletiva sul martirio, con l’escussione di ulteriori 22 testimoni. Di conseguenza, pur trattandosi di un unico processo, hanno operato due differenti commissioni storiche, verificando che sussistono sia la fama di santità sia quella di martirio.

 

    2. Santo a pieno titolo

    Dal materiale raccolto nella classica positio discussa nella Sessione ordinaria della Congregazione del 1º dicembre 2020, emergono tre aspetti che vale qui la pena sottolineare.

a) Una santità “ordinaria”

    Per comprendere il tipo di santità che si mette in luce nella vicenda di Rosario Livatino, si potrebbe anzitutto fare riferimento a quella che, nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate (2018), papa Francesco ha chiamato «la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”» (n. 7). Durante il processo è precisamente emerso che il “martirio formale” subìto da Rosario Livatino ha il suo background nel suo vissuto virtuoso: durante la vita operò sostenuto dal costante riferimento a Dio e da un’autentica fiducia nella sua presenza.

    Ritroviamo questa “concezione pratica della fede” in una frase del diario di Livatino, diventata famosa: «quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Lo stesso possiamo dire per il motto sub tutela Dei [“sotto la custodia di Dio”, N.d.R.], abbreviato nella sigla S.T.D., con cui apriva i suoi scritti e che si legge pure nella tesi di laurea. L’espressione ricorre frequentemente nella tradizione giuridica della Chiesa, per quanto in formule differenti, tra cui sub tutela divinae protectionis [“al riparo della protezione di Dio”, N.d.R.]. La ritroviamo in un’opera di Ugo di Fouilloy (1096- 1172), un canonico regolare di sant’Agostino, intitolata De claustro animae (IV, 25: PL 176, 1174), in cui parla della croce-albero della vita, sotto i cui rami, ossia sub tutela divinae protectionis, dimorano i giusti saziandosi dei suoi frutti, che li custodiscono e li rafforzano sino alla fine della vita: un’immagine che davvero illumina la vicenda terrena di Rosario Livatino.

    Nel corso della sua pur giovane esistenza, egli approfondì il suo personale vissuto di preghiera e di partecipazione ai sacramenti, assumendo sempre più consapevolmente i valori della testimonianza cristiana, della legalità e della convivenza civile, che ispireranno le sue scelte professionali. Questa «“misura alta” della vita cristiana ordinaria», come la chiamò Giovanni Paolo II nel n. 31 della lettera apostolica Novo millennio ineunte (2001), non è soltanto il contesto nel quale è da collocarsi il suo martirio, ma pure la motivazione ex parte persecutorum, cioè quella dei suoi assassini.

b) La continuità tra fede e professione

    Siamo, così, al secondo aspetto: dalle deposizioni emerge che nell’uccisione di Rosario Livatino fu decisivo il fatto che agli occhi dei mafiosi delle varie correnti locali egli appariva inavvicinabile e incorruttibile proprio in ragione della sua condotta, che con chiarezza si vedeva scaturire direttamente dalla sua fede cristiana. «Era inflessibile, ma non era mai cattivo o ingiusto», dirà un testimone.

    Dalle deposizioni appare chiaro che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei(3): i suoi persecutori odiavano Cristo, esplicitamente riconosciuto e disprezzato nell’incorruttibile condotta del giudice Livatino. Lo denigravano, per questo, come “santocchio”. Del consolidarsi di questo odium fidei Livatino diventò ben presto consapevole. Continuò, tuttavia, serenamente il suo quotidiano lavoro conservando la fiducia in Dio e dando con semplicità pubblica testimonianza della sua fede mediante l’amministrazione fedele e professionalmente qualificata della giustizia. L’intimo e conseguente rapporto tra fede e vita appare in lui in forma davvero esemplare. Una testimone ha dichiarato: «In Livatino non vi era confine tra professione e il suo essere uomo di fede. Il suo essere cristiano traspariva dal suo essere magistrato».

c) La virtù della mitezza

    Il terzo aspetto porta a considerare la consistenza del martirio ex parte victimae: come il giudice Livatino ha vissuto l’odio di cui era oggetto, fino all’uccisione? La risposta può sintetizzarsi nell’esercizio di quella virtù che nel suo Elogio della mitezza (1993) Norberto Bobbio aveva celebrato come la più «impolitica» tra tutte. Nella prospettiva evangelica, essa «si rivela come un dono divino, capace di fiorire nel cuore del credente come amore per l’altro, perdono, rigetto della violenza, fiducia nel giudizio di Dio. […] la mitezza evangelica altro non è che la “povertà nello spirito” della prima delle Beatitudini, colta nella sua connotazione di adesione gioiosa alla volontà e alla legge divina. Il modello rimane lo stesso Cristo che delinea proprio la mitezza come sua qualità distintiva e fonte di imitazione per il discepolo: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Matteo 11,29)»(4).

    Il primo aspetto che manifesta l’esercizio della mitezza da parte di Livatino riguarda la scelta che nessun altro corresse il suo medesimo rischio di vita. In un suo appunto si legge: «Non voglio lasciare vedove e orfani». È consapevole di essere in pericolo di vita, subisce esplicite minacce di morte che lo addolorano, ma prosegue irreprensibile nella scelta fondamentale di rimanere “sotto la custodia di Dio”. C’è, poi, l’ultima espressione uscita dalla sua bocca prima del colpo di grazia esploso in pieno volto: «Picciò, che vi ho fatto?». Davanti ai suoi uccisori, Livatino ha una parola di mitezza! Questa espressione riporta al lamento di Dio, che leggiamo nel libro del profeta Michea: «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?» (6,3). La liturgia del Venerdì santo pone tradizionalmente questo lamento sulle labbra del Crocifisso, su cui non è un rimprovero e neppure una sentenza di condanna, ma un invito dolorante a riflettere sulle proprie azioni, a ripensare la propria vita, a convertirsi.

 

   3. Martire a pieno titolo

    Nel contesto dell’incontro con i genitori di Rosario, il 9 maggio 1993, è riferito da testimoni che Giovanni Paolo II lo abbia descritto come «martire della giustizia e indirettamente della fede». L’espressione fu ripresa anche da papa Francesco: «Il 9 maggio 1993 il mio predecessore san Giovanni Paolo II, poco prima di rivolgere agli “uomini della mafia” il memorabile e perentorio invito alla conversione nella Valle dei Templi, ad Agrigento, aveva incontrato i genitori di un magistrato, Rosario Angelo Livatino, che il 21 settembre 1990, all’età di 38 anni, era stato ucciso mentre si recava al lavoro in Tribunale. In quella occasione il Papa lo definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”»(5).

    La frase è da intendersi alla luce di ciò che già insegnava san Tommaso d’Aquino il quale, in un passaggio molto limpido del commento alla Lettera ai Romani, scrive che «muore per Cristo non soltanto chi è ucciso a motivo della fede in Lui, ma anche chi è ucciso per qualsiasi opera di giustizia compiuta per amore di Cristo» (Super Romanos, VIII, 7). È da ravvisare qui la fondamentale ragione per cui la Chiesa annovera tra i suoi martiri il giudice Rosario Angelo Livatino.

 

Fonte: Aggiornamenti Sociali maggio 2021 (327-331)

 

Note:

1 Bollettino della Sala Stampa Vaticana, Promulgazione di Decreti della Congregazione delle Cause dei Santi, 22 dicembre 2020

2 Il Postulatore è la persona incaricata dalle autorità ecclesiastiche di seguire una causa di beatificazione lungo il proprio iter [N.d.R.].

3 Nel linguaggio “tecnico” delle cause dei santi, la locuzione latina in odium fidei (“in odio alla fede”) indica la ragione delle uccisioni che meritano di essere considerate martirii [N.d.R.].

4 Ravasi G., «Mitezza forza della ragione», in Avvenire, 4 luglio 2015.

5 Papa Francesco, Discorso ai membri del Centro Studi “Rosario Livatino”, 29 novembre 2019