Il giubileo e la Speranza: aspetti teologici e risvolti ecclesiali
Inaugurazione dell’Anno Accademico 2024/2025 dell’ISSR Metropolitano «S. Giovanni Paolo II»
Nella prospettiva del Grande Giubileo del Duemila e, al tempo stesso, dell’inizio del nuovo millennio cristiano il papa Giovanni Paolo II invitava i fedeli della Chiesa cattolica a «riscoprire la virtù teologale della speranza».[1] Quella proposta e quel messaggio sono stati ripresi per il Giubileo del 2025 da papa Francesco, che così ha esortato: «Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante»; ha pure auspicato che questo evento possa «favorire molto la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza».
La speranza, uno slancio
All’annuncio e all’augurio Francesco ha pure aggiunto l’indicazione del motto programmatico: Pellegrini di speranza.[2] Questo invito ci rimanda a un passaggio del vangelo secondo Luca, dove Gesù dice ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito» (12,35-36).[3] All’epoca gli ebrei indossavano una veste lunga e questo impediva sia alcuni lavori, sia la corsa, l’affrettarsi verso qualcuno, o qualcosa. Più ancora, però, l’immagine delle «vesti strette ai fianchi» evoca la partenza frettolosa dall’Egitto dei figli d’Israele, un esodo avvenuto di notte (Es 12,11); ugualmente si dirà per l’altra immagine della lampada accesa, rimanda al seder pasquale, memoriale dell’uscita dall’Egitto, per questo celebrato anch’esso di notte che rimanda anch’essa alla libertà nel camminare, nel muoversi.
Questo è profezia della vita cristiana in tutto il suo spirituale dinamismo, come sottolineava già Origene con le sue Omelie sull’Esodo. Predicava ad esempio: «Chi segue Cristo e cammina sulle sue vie cammina all’asciutto, mentre alla sua destra e alla sua sinistra si ergono le acque. Ma egli cammina diritto fino a quanto non abbia raggiunto la libertà e canti al Signore l’inno della vittoria».[4] Il cammino cristiano è sempre un esodo: il cammino di chi percorre cammini di libertà e si muove verso la terra promessa. La vita-esodo del cristiano è pellegrinaggio della speranza.
Chi spera somiglia pure all’atleta che corre alla maniera di san Paolo, che ai Filippesi ripeteva: «Io corro verso la meta per raggiungere il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (3,14). L’Apostolo ha concepito così la sua vita, sicché può scrivere: «Ho terminato la corsa. Ho conservato la fede (2Tim 4,6-7).
Alla luce di ciò, è pure da comprendere il senso dell’attesa proprio di chi spera. Anche l’attesa, difatti, è un atteggiamento fondamentale della speranza cristiana. È ancora san Paolo, difatti, a parlare di «attesa della beata speranza» (cf. Tit 2,13). Ci sarà utile, in proposito, riprendere l’avvertimento dell’indimenticato prof. Antonio Pitta, biblista recentemente e immaturamente scomparso che tanto ha illustrato le nostre Chiese di Puglia. In quella che è praticamente l’ultima sua opera pubblicata, egli ha sottolineato l’originalità dell’uso paolino del verbo «aspettare» (prosdéchomai), dove l’attenzione è portata sulla persona che attende, descritta come uno che è in tensione, è proteso.[5] La speranza, dunque, è slancio e questo contrasta con il nostro uso comune del verbo attendere che, contrariamente alla sua etimologia, ha ormai il senso prevalente dell’«aspettare» passivamente, sicché noi parliamo, ad esempio di «sala d’attesa». Qui, invece, si tratta di una spinta in avanti, come di risposta a un impulso, come si legge nel profeta Isaia: «quanti sperano nel Signore riacquistano forza (allassô = TILC: «ricevono forze sempre nuove»), mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (40,31). Ecco il peregrinare nella speranza.
Speranza, un’attesa ambivalente
Se, però, guardiamo alla storia del pensiero umano troviamo ben altre concezioni ed è anche su questo che vale la pena soffermarsi. Cominciando da molto lontano guardiamo, dunque, a Cicerone per il quale la speranza è expectatio boni, «attesa di un bene»,[6] ovviamente di un bene possibile e realizzabile. Il senso di una relazione con il futuro lo si trova pure nella parola greca elpís (cui ricorre anche il greco del Nuovo Testamento) ed è per questa ragione che Aristotile diceva che i giovani sono facili a sperare e vivono gran parte del loro tempo nella speranza! «I giovani – diceva – vivono la maggior parte del tempo nella speranza; infatti la speranza è relativa all’avvenire; cosi come il ricordo è relativo al passato e per i giovani l’avvenire è lungo e il passato è breve; infatti all’inizio del mattino non v’è nulla della giornata che si possa ricordare, mentre si può sperare tutto».[7]
La sua descrizione della realtà giovanile nel quadro della speranza sarà condivisa pure da san Tommaso d’Aquino, il quale però aggiunge un’annotazione molto fine anche sotto il profilo psicologico: etiam inexperientia est quodammodo causa spei. Nel mondo giovanile – ma oggi l’osservazione deve essere anticipata all’età adolescenziale – all’origine della speranza c’è pure la «inesperienza».[8] La speranza diventa così non necessariamente l’attesa di un bene, ma pure il timore di un male. La speranza umana è sempre, in qualche modo, gemella della paura. Quanto alle speranze umane, perciò, è sempre utile tenere una distanza critica: esse, infatti, sono come le onde, che s’innalzano e ricadono. Sono davvero molte le speranze svanite.
Sappiamo, peraltro, che nella classicità greco romana la speranza è legata al mito di Pandora riportato da Esiodo. Era una donna, opera di Zeus, dotata, come dice il suo nome, di tutti i doni ai quali il dio volle aggiungerne uno suo racchiuso in un vaso, con l’ordine di non aprirlo mai. Pandora, però, non seppe resistere alla curiosità e aprì il vaso che le era stato donato. A quel punto uscirono da esso tutti i mali del mondo: la malattia, la morte, l’inganno, la delusione, la miseria, la violenza… e si sparsero su tutta la terra. Pandora cercò allora di richiudere quel vaso e riuscì solo a non fare uscire la speranza (elpís). Così, mentre ormai tutti i mali dilagano per il mondo intero, rimane la sola la speranza per sostenere nell’uomo la fiducia di un futuro migliore.
Questa è, però, solo una versione del mito. Rimane, infatti, l’interrogativo: perché la speranza era conservata insieme con tutti i mali? Che forse non sia un male essa stessa? Seneca ne aveva parlato come dell’attesa di un bene incerto.[9] Egli stesso, peraltro, ha reso tipica la figura stoica del saggio come «colui che sa vivere senza speranza e senza paura».[10] Che, allora, la speranza non sia un inganno? Ecco, allora, nel passaggio all’epoca moderna, Cartesio, che ritiene la speranza una convinzione illusoria; lo segue Hobbes, che la considera un turbamento che ostacola la stabilità dell’anima; e poi Spinoza, che la pensa come una cattiva passione perché incostante, come la paura del resto; c’è anche Kierkegaard, che la pensa come generatrice di inquietudine e, finalmente, F. Nietzsche il quale afferma perentorio che la speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga l’agonia[11].
Rivalutazioni recenti
Non è questa, però, in filosofia, l’ultima parola. Ho già citato delle etimologie, utilizzandole come punto di partenza per una riflessione sulla speranza. Un’altra etimologia ci viene dal termine tedesco Hoffnung, che dice apertura di orizzonte, di senso, di vita. L’immagine è suggestiva e lo stesso papa Francesco la richiamò nella catechesi del 26 aprile 2017: «Anche quanti sono mossi da una speranza semplicemente umana – disse – percepiscono la seduzione dell’orizzonte, che li spinge a esplorare mondi che ancora non conoscono. La nostra anima è un’anima migrante».
In tale contesto vale la pena richiamare il pensiero di Gabriel Marcel, per il quale l’essere stesso è costituito da uno slancio verso l’oltre. «Dobbiamo riconoscere – egli scrive – che l’esigenza dell’essere non è un semplice desiderio o una vaga aspirazione, ma piuttosto una spinta interiore che sorge dal profondo e che può essere interpretata come un appello».[12]
Nella riflessione di Marcel sulla speranza, ciò che subito appare è la concezione relazionale, che egli ne ha; un’idea «agapica», si direbbe, perché fondata sull’amore. È in definitiva ciò che distingue la speranza dal desiderio. Questo, ritiene Marcel, è fondamentalmente egocentrico, perché tende al possesso; la speranza, invece, ha una dimensione comunitaria e, per quanto segreta possa essere, è sempre tesa a una comunione. Il suo spazio è quello del noi ed è sempre, per questo, uno sperare per noi, per tutta l’umanità. Di Marcel è la formula: spero in Te per noi! «La speranza è solo possibile al livello del noi, o, se si preferisce, dell’agapé, ma mai di un io solitario che si chiudesse totalmente ed esclusivamente nei fini individuali. La speranza, quindi, ci si presenta come calamitata dall’amore, o forse meglio da un insieme di immagini che questo amore intesse e irradia».[13]
Si dirà di più, poiché per lanciarsi verso un orizzonte ancora sconosciuto l’uomo ha sempre bisogno della speranza: la quale, perciò, è sempre una grazia, un dono che si riceve. Marcel, dunque, non esita a parlare di una metafisica della speranza:
è vivere nella speranza, anziché concentrare la nostra ansiosa attenzione sui magri gettoni allineati davanti a noi, dei quali febbrilmente, senza posa, facciamo e rifacciamo il conto, presi dal timore di trovarci frustrati o diminuiti. Più ci renderemo tributari dell’avere, più saremo vittime della rovente ansietà che esso sprigiona, più andremo perdendo non solo l’attitudine alla speranza, ma perfino la credenza, pur indistinta, nella sua possibile realtà. È vero in questo senso che solo gli esseri interamente liberati dalle pastoie della cupidigia sotto tutti gli aspetti sono in grado di conoscere la divina levità della vita vissuta nella speranza.[14]
Marcel, tuttavia, parla anch’egli della speranza come antidoto/reazione alla percezione di un tempo chiuso, che vuole spingere verso la disperazione: è l’incantesimo che vuole ammaliare l’uomo, da cui occorre liberarsi. Sperare, allora, è pure dire liberazione da tutto ciò che vuole opprimere il cuore e si mostra come una spes contra spem. «La riflessione di Marcel costituisce, dunque, una ribellione tenace e sempre all’erta contro un pessimismo che incupisce le conclusioni dei massimi pensatori dell’essere e dell’esistenza. Con loro condivide la serietà degli interrogativi, l’irrisolta ambiguità che li attraversa. Condivide, inoltre, il dinamismo che muove l’essere e l’esistenza e li progetta verso un futuro aperto e tutto da inventare e sperare. E tuttavia rifiuta di stemperare il progetto esistenziale contro la barriera della morte, per risolverlo in desolazione insignificante».[15]
Un altro filosofo che, come Marcel, ha inteso dare uno spessore teoretico al tema della speranza è stato Ernst Bloch, pensatore di rilievo anche per la teologia della speranza di J. Moltmann, il quale dichiarava esplicitamente un debito rilevante nei suoi riguardi: «Per Bloch il sospiro del creato oppresso che anela alla gioia, alla felicità e alla sua vera patria, il sospiro creatore di religione, sta nel “dissidio, carico di religione, dell’uomo diviso tra la sua apparenza che c’è, e la sua essenza che non c’è”».[16]
Quella di E. Bloch «è l’ultima grande difesa filosofica della speranza».[17] Punto di riferimento sarà il suo Il principio speranza (in tre volumi: 1954-1959), vera e propria enciclopedia della speranza, giacché essa s’insinua in tutti gli spazi dell’umano, a partire dai sogni, che sono un’attesa di un mondo migliore («sogni ad occhi aperti»). Si tratta, in pratica di una mappa di tutti i territori della speranza. Anche per lui, tuttavia, speranza non vuol dire certezza. Egli, anzi, la ritiene bene descritta da una formella di Andrea Pisano posta sulla porta del battistero di Firenze dove la speranza è illustrata con le braccia rivolte verso l’alto: simile, in questo, a Tantalo condannato a cercare qualcosa che non potrà mai raggiungere. La speranza, allora, è fondamentalmente una tensione.
Sotto questo aspetto, pur filosofo dichiaratamente marxista e ateo E. Bloch giunge a voler dimostrare che la religione non è necessariamente l’oppio dei popoli; proprio la religione, anzi, ha portato per molti secoli nel suo grembo i sogni migliori degli uomini. Rimane, tuttavia, l’interrogativo se il suo «principio Speranza» possa affermarsi davvero in una visione che non sia religiosa, che non si riferisca a un senso totale della storia, il quale ad un tempo ci abita ma anche infinitamente ci trascende: la pura immanenza non può che essere ripetitiva in se stessa.[18]
Il tramonto delle utopie
Nel contesto odierno, tuttavia, riflessioni di questo tipo sembrano davvero «utopiche»: ossia, nel senso più letterale, «fuor di luogo». Annunciando il Giubileo del 2025 lo stesso Francesco ha parlato della necessità di ricomporre un clima di speranza. Questo bisogno è, di fatto, sempre esistito; oggi, però, la questione si mostra con una particolare urgenza.[19] Il nostro oggi, infatti, sembra essere davvero il tempo delle passioni tristi, come è stato chiamato.[20]
L’espressione, presa in prestito da Spinoza, intende affermare che la nostra epoca sarebbe passata dal mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia ad un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo. In altre parole, se l’epoca precedente – quella chiamata «moderna» – è stata caratterizzata dal mito del progresso illimitato, quella «post-moderna» proclama, invece, il tramonto di ogni progetto per il futuro e il ripiegamento disilluso sul presente. Qualcuno, richiamando la mitologia, spiega che si è passati dal mito di Prometeo a quello di Narciso; ossia dalla figura dell’uomo che sfida la divinità per portare all’uomo il fuoco del progresso, a quello dell’uomo che dedito a contemplare se stesso in uno specchio d’acqua, rischia di morire. L’avvenire, così non è più quello dove sorge il sole, ma il luogo del calare delle tenebre. Da qui la caduta della speranza. Il futuro-promessa è diventato il futuro-minaccia.[21] L’età giovanile, in particolare, non è più quella della speranza.
La sua palingenesi è nella paura, che assale da ogni angolo: da quello esistenziale (la salute e la vecchiaia), a quello economico (paura di trovare, o perdere il lavoro), a quello sociale (paura dello straniero, del terrorismo). Altra parola-chiave del post-moderno è la crisi: parola che se, in origine aveva il significato di scelta e decisione, ora ha assunto quello di rottura con gli orizzonti di senso e di caduta in un permanente stato di incertezza. Ulteriore elemento è l’alterazione della concezione del tempo, sicché alla desertificazione del futuro subentra l’eternizzazione del presente: la storia pare che abbia cessato di correre verso il futuro, per avvitarsi sempre di più sul presente: un tempo che, con riferimento a una tecnica musicale, qualcuno chiama «puntillistico», ossia fatto da eventi isolati e autonomi.
In tali contesti la vita che un tempo era intesa come cammino e, specialmente nel contesto del cristianesimo, come pellegrinaggio, oggi ha cambiato il suo volto in «turismo». Da pellegrino a turista è il titolo molto evocativo di uno studio di Z. Bauman: intende un uomo alla ricerca di esperienze non soltanto sempre nuove, ma pure sempre diverse, dal momento che «le gioie di ciò che è familiare si logorano e cessano di attrarre».[22]
Diventa attuale, in tale situazione, l’invito di papa Francesco ad annunciare la speranza facendosene pellegrini. L’immagine del peregrinare e dello sperare sono nella tradizione cristiana occidentale connaturali e conseguenti. Non per nulla già nell’antichità Isidoro di Siviglia studiando l’etimologia della parola latina spes-speranza ne indicava la radice nel termine pes-piede. La speranza – diceva – è così chiamata perché somiglia al piede che ti aiuta a camminare, a progredire, andare avanti. La speranza, dunque, anche qui non è stasi, ma tensione, cammino, movimento. Pascasio Radberto, un monaco e teologo benedettino medievale, scriveva che «la speranza si affretta verso ciò che la fede crede e quel che la carità desidera ed è per questo che i santi padri hanno descritto la speranza come il piede, che fa camminare coloro che progrediscono in Cristo».
La speranza cristiana
In fin dei conti, la questione di una speranza incerta, o di una speranza certa si gioca laddove si vuole che sia ancorata la speranza. Quello, infatti, che fa la differenza tra la Speranza e le speranze è il loro baricentro: le speranze nascono dall’uomo e poggiano sull’uomo stesso, o anche sulle sue opere e le sue realizzazioni; la Speranza (cristiana) viene da Dio e poggia su Dio. Consapevole di tale fondamentale differenza, sant’Agostino scriveva: Pavor est ex humana infirmitate, spes ex divina promissione. Quod paves tuum est, quod speras donum Dei est in te, «la trepidazione deriva dalla fragilità umana, la speranza dalla promessa divina. Quello per cui temi è tuo, quello per cui speri è dono di Dio in te».[23]
Ora è ben noto che immagine tradizionale della speranza è l’àncora. Di essa ha parlato una volta Francesco con queste parole:
Tra i simboli cristiani della speranza ce n’è uno che a me piace tanto: l’àncora. Essa esprime che la nostra speranza non è vaga; non va confusa con il sentimento mutevole di chi vuole migliorare le cose di questo mondo in maniera velleitaria, facendo leva solo sulla propria forza di volontà. La speranza cristiana, infatti, trova la sua radice non nell’attrattiva del futuro, ma nella sicurezza di ciò che Dio ci ha promesso e ha realizzato in Gesù Cristo… La nostra fede è l’àncora in cielo. Noi abbiamo la nostra vita ancorata in cielo. Cosa dobbiamo fare? Aggrapparci alla corda: è sempre lì. E andiamo avanti perché siamo sicuri che la nostra vita ha come un’àncora nel cielo, su quella riva dove arriveremo.[24]
La simbologia dell’àncora nasce nel contesto di culture vitalmente legate alla navigazione e al mare: poiché ha funzione di tenere ferma la nave sia nel porto, sia in mare aperto ecco che l’ancora diviene un simbolo di salvezza, di speranza.[25] È, però, nel quadro cristiano che la figura dell’àncora ha un ulteriore sviluppo. La si trova, infatti, nella Lettera agli Ebrei dove si legge che nella speranza noi «abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi, divenuto sommo sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedek» (6,19-20). Ecco, allora, che san Tommaso d’Aquino sottolineerà la radicale differenza tra l’àncora marina e quella cristiana: «C’è differenza tra l’àncora e la speranza, perché l’àncora è gettata in fondo al mare, mentre la speranza è posta in cima, cioè in Dio. Infatti, nulla in questa vita presente è stabile, dove l’anima possa essere stabile e trovare riposo».[26]
Sant’Agostino aveva detto che è la speranza la virtù che ci rende propriamente cristiani! Propter quam unam nos christiani sumus.[27] Il cristiano è sicuro che la sua vita è ancorata in Cristo risorto ed avrà perciò uno sbocco positivo. Questo, però, non è sufficiente, perché la speranza cristiana se pure è attratta dal «futuro» (meglio forse è meglio dire dal ricordo del futuro),[28] è anche una motivazione per agire nel presente.
Già lo diceva Zenone, vescovo di Verona nel IV secolo: «Togli la speranza e cesserà l’impegno in ogni campo, togli la speranza e tutto finisce».[29] Ce lo ricorda oggi il Concilio Vaticano II, il quale insegna che «il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo o dall’incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante».
Poco più avanti il testo aggiunge: «Con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo… non solo suscita il desiderio del mondo futuro, ma con ciò stesso ispira anche, purifica e fortifica quei generosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra». E poi di nuovo: «l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo. (Gaudium et Spes, nn. 34. 38. 39).
Il messaggio conciliare è chiaro. In tale quadro si potranno considerare tante storie di santità, soprattutto negli ultimi due secoli sino ad oggi. Penso, ad esempio, ai cosiddetti «santi sociali» nell’otto-novecento torinese, che avviarono varie iniziative e operarono nel campo della cura, della protezione e della educazione dei poveri e degli emarginati. Uno, almeno, fra questi santi, che hanno vissuto così la speranza cristiana, desidero citare per concludere, giacché mi è molto caro: parlo di Pier Giorgio Frassati, che sarà canonizzato il prossimo 3 agosto 2025 in coincidenza con la GMG.
L’epifania della sua santità furono i riti funebri. Tutti quelli che l’avevano conosciuto trasmisero il ricordo che lo rendeva loro più caro. «Amava i poveri e gli umili, fra i quali passò beneficando», dicevano alcuni; altri aggiungevano: «Li andava a ricercare nei quartieri più lontani della città; saliva le scale strette e oscure; entrava nelle soffitte, dove soltanto abitano la miseria e il dolore; portava il soccorso che sfama e diceva la parola che consola». E poi ancora: «Tutto quello che aveva in tasca era per gli altri, come tutto quello che teneva in cuore. Era nato per dare; non viveva per sé; era un cristiano di fede e un cristiano d’azione». Quelli a lui più vicini, però, dicevano: «Aveva la fede di un bimbo in un corpo d’alpino; possedeva il fascino, anzi il contagio dell’esempio che trascina; irradiava intorno a sé la gioia perenne e inalterabile».
Parlando di Pier Giorgio Frassati nel 1932 (ossia a pochi anni dalla morte) mons. Giovanni Battista Montini, all’epoca Assistente della FUCI, disse che egli era ricco delle virtù primitive «che fanno la giovinezza del mondo»; Pier Giorgio, anzi, ci dice che il cristianesimo è la forza della vera giovinezza.
Nell’omelia del 20 maggio 1990 per la Beatificazione, san Giovanni Paolo II parlò, a sua volta, così di Frassati:
Tutta immersa nel mistero di Dio e tutta dedita al costante servizio del prossimo: così si può riassumere la sua giornata terrena! … Egli proclama, con il suo esempio, che è «beata» la vita condotta nello Spirito di Cristo, Spirito delle Beatitudini, e che soltanto colui che diventa uomo delle Beatitudini riesce a comunicare ai fratelli l’amore e la pace. Ripete che vale veramente la pena sacrificare tutto per servire il Signore. Testimonia che la santità è possibile per tutti e che solo la rivoluzione della carità può accendere nel cuore degli uomini la speranza di un futuro migliore.
Concattedrale Gran Madre di Dio, Taranto, lunedì 10 febbraio 2025
Marcello Card. Semeraro
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[1] Lettera apost. Tertio millennio adveniente, n. 46.
[2] Lettera dell’11 febbraio 2022 a S.E. Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, per il Giubileo 2025. Cf. poi la bolla di indizione Spes non confundit pubblicata da papa Francesco con data 9 maggio 2024. In proposito, cf. D. Salvatori, Le bolle di indizione dei giubilei del terzo millennio: struttura, teologia e peculiarità, in «Quaderni di diritto ecclesiale», 2024 (37)/ 4, pp. 392-404; G. Pani, Il giubileo della speranza, ne «La Civiltà Cattolica» 2024, III, pp. 158-169 (quad. 4178 del 20 lug/3 ago 2024).
[3] Un ampliamento dell’immagine c’è nella parabola del vangelo secondo Matteo riguardo alle vergini che con le lampade accese hanno provveduto all’olio necessario per attendere l’arrivo dello sposo e alle altre che, invece, sono state smemorate e incaute (cf. 25,1-13).
[4] In Exodum VI, 14: PG 12, 340.
[5] Cf. A. Pitta, Paolo e l’evangelo della speranza, San Paolo, Cinisello Balsamo 2024, p. 214-215.
[6] Tusculanae disputationes, IV, § 58.
[7] Retorica II (B), 12, 1389a in Aristotele, «Opere», II, Mondadori, Milano 2008, p. 894.
[8] Cf. STh I-II, q. 40, a. 6 ad 3. Sul mutamento cf. R. Bodei, Generazioni. Età della vita. Età delle cose, Laterza, Roma-Bari, 2020.
[9] Ad Lucilium epistulae morales, I, 10: «spes enim incerti boni nomen est». Per Tommaso d’Aquino, invece, la speranza è sempre rivolta a un bene; per questo è diversa dalla paura, il cui oggetto è invece qualcosa che avvertiamo come un male, qualcosa di negativo e pericoloso; cf. STh I-II, q. 40, a. 1co.: «non enim, proprie loquendo, est spes nisi de bono».
[10] De constantia sapientis, IX, 2: «Haec effugit sapiens qui nescit nec in spem nec in metum vivere».
[11] Per una esposizione di carattere filosofico, cf. M. Marassi, v. Speranza, in Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, «Enciclopedia filosofica», XI, Bompiani, 2006, pp. 19947-10958. Cf. pure. G. Goisis, Speranza, Messaggero, Padova 2020. Anche Benedetto XVI, nell’enciclica Spe Salvi ha fatto un’esposizione critica di queste posizioni filosofiche, a cominciare da Bacone, a Kant, Engels, Marx: cf. nn. 16-31.
[12] G. Marcel, Il mistero dell’essere, Borla, Roma 1987, p. 230.
[13] G. Palmitessa, L’essere e la speranza in Gabriel Marcel, in «Rivista di Vita Spirituale» 71 (2017/1), p. 58. Per l’intero studio, cui qui faccio riferimento, cf. le pp. 41-70.
[14] G. Marcel, Filosofia della speranza, a cura di A. Scivoletto, Philosophia, Firenze 1953, p. 53.
[15] Palmitessa, L’essere e la speranza cit., p. 69.
[16] J. Moltmann, Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1970, p. 351.
[17] R. Bodei, Geometria delle passioni: paura , speranza, felicità: filosofie e uso politico, Feltrinelli, Milano 2000, p. 77 nota 45.
[18] Cf. V. Melchiorre, Sulla speranza, Morcelliana, Brescia 2000, pp. 28-29.
[19] Per il magistero pontificio, cf. l’esortazione apostolica Ecclesia in Europa (28 giugno 2003) di Giovanni Paolo II tutta informata dal tema della speranza. La questione-speranza fu ripresa nel 2007 da Benedetto XVI con l’enciclica Spe salvi e poi ancora, da egli stesso, nel Messaggio per la XXIV Giornata Mondiale della Gioventù (5 aprile 2009) dove avvertiva come lo smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddisfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazione, sia una delle principali conseguenze della dimenticanza di Dio.
[20] Il riferimento è a M. Benasayag, G. Schmit, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2014; per una sintesi, cf. I. Seghedoni, «L’epoca delle passioni tristi» di Miguel Benasayag e Ghérard Schmit, in «Tredimensioni» 2 (2005), pp. 323-331.
[21] Cf. Benasayag, Schmit, L’epoca delle passioni cit., p. 40.
[22] Cf. Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 27-54; qui, p. 44.
[23] Enarrationes in Psalmos, 30/2, 3: PL 36, 232.
[24] Udienza del 26 aprile 2017.
[25] Così in Virgilio: Eneide VI,3-4 (dente tenaci ancora fundabat naves); Pindaro, Ode Olimpica VI, 100 («È un bene nella notte tempestosa, dalla nave veloce aver gettato due àncore»).
[26] Super Heb. [rep. vulgata], cap. 6, l. 4. Il tema è già in sant’Agostino: «camminiamo in basso finché siamo nella nostra carne. Ma se poniamo in alto la nostra speranza è come se avessimo bene assicurata l'àncora»: Serm. 359/A, 1: PLS 2, 759. Per il simbolismo cristiano dell’àncora, cf. J.-P. Kirsch, v. Ancre, in «Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne ed de Liturgie», I/2, cc. 1999-2031
[27] De Civitate Dei, VI, 9, 5: PL 41, 189.
[28] L’espressione allude al titolo dell’opera postuma di J.D. Zizioulas, Ricordare il futuro. Per una ontologia in prospettiva escatologica, EDB, Bologna 2024. In tale ottica la parola «futuro» deve essere intesa più propriamente come «avvento».
[29] Tractatus II, 1: PL 11, 270: «tolle spem, torpet humanitas tota. Tolle spem, artes virtutesque universae cessabunt. Tolle spem, et interempta sunt omnia».