80° anniversario del transito del Ven. Massimo Rinaldi

 

UNA VOCAZIONE CHE CRESCE COME MISSIONE

 

Omelia nella festa della Visitazione della Beata Vergine Maria

80° anniversario del transito del venerabile Massimo Rinaldi

 

 

    È davvero provvidenziale che l’80 anniversario del transito del venerabile Massimo Rinaldi, missionario e poi vescovo in questa Santa Chiesa di Rieti, coincida  con la festa della Visitazione della Beata Vergine Maria. Il racconto evangelico ce ne ha lasciato una descrizione bellissima. Dopo avere detto il suo Si a Dio, Maria imita il Diletto del Cantico, che salta per i monti e balza sulle colline; cammina leggera, anche se il suo ventre è già gonfio per la presenza umana di un figlio, che eternamente è il Figlio di Dio. Lo Spirito, infatti, l’aveva resa Madre del suo Signore, come riconoscerà la sua parente Elisabetta ed anche costei il vangelo ce l’indica «colmata di Spirito Santo». Questo ci fa capire che siamo dinnanzi alla «prima pentecoste : come quel mistero, anche questo è ricco di gioia ed è esultante per il sobbalzo del Battista nel grembo della mamma.

    Nel saluto di Elisabetta e, ancor più, nel Magnificat di Maria si verifica in anticipo anche il miracolo delle lingue. Nella persona di queste due donne, che s’incontrano nella lode c’è già il mistero della Chiesa che «in tutte le lingue si esprime e tutte le lingue nell’amore comprende» (Ad gentes, n. 4).

    Potremo a questo punto domandarci: perché Maria va da Elisabetta? Certo, per constatare il segno offertole dall’angelo: «Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile» (Lc 1,36); ma ci va soprattutto per comunicare l’evento salvifico di cui è stata fatta oggetto: «ha guardato l’umiltà della sua serva», dice e tutto il suo cantico è un elenco delle opere del Signore che non agisce soltanto in lei, ma per tutti noi e questo lo fa ancora oggi e poi sempre.

    C’è una connaturale consequenzialità tra il mistero dell’Annunciazione e questo della Visitazione, che stiamo celebrando. C’è la coerenza di una vocazione che si sviluppa come missione. Proprio nell’individuare questa spirituale corrispondenza tra vocazione e missione, mi pare si possa riconoscere una prima «provvidenzialità» nella coincidenza dei due motivi, che ci fanno incontrare questa sera.

    Il nostro venerabile Servo di Dio, infatti, scoprì la sua prima vocazione proprio nella missionarietà. Ho letto con attenzione quel che Pietro Borzomati ha scritto circa la spiritualità e pietà del vescovo Massimo Rinaldi. Di esse, l’eminente studioso calabrese – specialista sui temi del movimento cattolico, della spiritualità e della pietà popolare – scriveva che non possono essere disgiunte dalle esperienze che egli ebbe come scalabriniano e come missionario in Brasile. Questo al punto che la stessa fecondità della guida diocesana ne sarà poi positivamente segnata. «L’esperienza missionaria – scrive Borzomati – ha reso più fruttuosa la sua pastoralità nella diocesi di Rieti, dove, ad esempio, anche nelle sue esortazioni si coglieva il desiderio di attuare una catechesi che avrebbe dovuto tendere a sensibilizzare i fedeli a rendere saldo il loro rapporto con Dio attraverso una vigorosa pietà cristologica, per essere pronti ad annunciare il Regno».[1]

    In questa correlazione fra missionarietà e pastoralità penso si debba riconoscere un grande senso di attualità. È la caratteristica dei grandi uomini e senz’altro pure dei santi quella di essere «moderni», oltre le barriere del tempo. Ci sono pensieri e modelli, che il tempo rende obsoleti. Quante cosiddette «modernità» non sono poi scomparse dall’orizzonte? Per la santità, invece, è un po’ come la «madre» nella poesia di E. De Amicis: « Non sempre il tempo la beltà cancella / o la sfioran le lacrime e gli affanni;/ mia madre ha sessant’anni,/ e più la guardo e più mi sembra bella». Così è la santità; così è la grandezza interiore: crescit eundo, come cantava un antico poeta latino: Cresce con l’andare e procedendo acquista forza.[2] Anche questa commemorazione ecclesiale ne è un segno.

    Vi faccio una confidenza, carissimi, ora che sono al termine di un cammino episcopale. Quando nel 2004 giunsi nella Chiesa di Albano feci l’ingresso in una realtà a me sconosciuta. Partii dalla mia terra un po’ come Abramo, che «partì senza sapere dove andava» (Ebr 11,8). Avevo bisogno di una bussola per orientarmi e la trovai in un documento che la CEI aveva appena firmato con la data della Pentecoste 2004; un documento dal volto esterno alquanto dimesso: una nota pastorale! Quanti, nei libri, leggono le «note»? Ebbene, quel testo, intitolato Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, fu la bussola con la quale iniziai una esperienza durata quasi diciassette anni. Cominciava così: «Una pastorale tesa unicamente alla conservazione della fede e alla cura della comunità cristiana non basta più. È necessaria una pastorale missionaria, che annunci nuovamente il Vangelo, ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza umana conformemente al Vangelo e, nel nome del Vangelo, contribuire a rendere nuova l’intera società» (n. 1).

    Subito dopo si leggeva: «Per il fatto che è rivolta a tutti, uomini e donne nelle più varie situazioni di vita, la proposta missionaria non è per questo meno esigente, né sminuisce la radicalità del Vangelo». Questo lo vidi riproposto con forza nel IV Convegno della Chiesa italiana a Verona nell’autunno del 2006 e fu con questo bagaglio pastorale che ho camminato sino ad oggi.

    Il testo del 2004 prosegue ancora: «La forza del Vangelo è chiamare tutti a vivere in Cristo la pienezza di un rapporto filiale con Dio, che trasformi alla radice e in ogni suo aspetto la vita dell’uomo, facendone un’esperienza di santità. La pastorale missionaria è anche pastorale della santità, da proporre a tutti come ordinaria e alta missione della vita». Ecco: con la nuova missione affidatami dal Papa, io ora sono qui ed è anche per tale mio nuovo compito che il vostro vescovo, cui mi lega un’antica amicizia, mi ha chiamato. Torniamo però ad una seconda provvidenziale coincidenza per questo incontro.

    Nella proclamazione del Vangelo abbiamo udito il cantico del Magnificat, che di Maria è la preghiera per eccellenza, divenuta poi preghiera di tutta la Chiesa. È un cantico, il Magnificat, che certamente ci pone in condizione d’intuire la condizione di Maria, vergine in ascolto che anzitutto accoglie con fede la parola di Dio, ma cerca pure di confrontarla nel suo cuore e questo sia per capire ciò che accade attorno a lei, sia per rileggere la propria storia, la propria vocazione alla luce delle opere di misericordia compiute da Dio per il popolo cui lei – che sarà chiamata Figlia di Sion – apparteneva.

    Le nostre scelte, le nostre azioni, le nostre decisioni hanno sempre una radice e noi dobbiamo riconoscerle, anche quando si tratta della nostra fede, della nostra vita di Chiesa, delle scelte pastorali. Ancora P. Borzomati riguardo al venerabile Massimo Rinaldi scriveva una cosa molto bella ed è con questa che mi avvio a concludere. Diceva che le sue scelte pastorali non ebbero radici soltanto nella sua vocazione missionaria, ma anche nelle radici del territorio dov’era nato. «È ovvio – scrive – che non si debba perdere di vista l’esperienza antecedente a Rieti, un territorio profondamente intriso di spiritualità francescana dove si praticava, anche, una pietà popolare vivace, articolata…».[3] Aggiunge un rimando all’influsso esercitato sul Rinaldi dal messaggio e dal progetto di Francesco d’Assisi.

    Questo vuol dire che nella nostra vita di Chiesa e nella vita cristiana non possiamo disincarnarci. Uno dei primi libri che lessi da ragazzo nel Seminario fu quello scritto da Pierre Charles, un gesuita missionario, e tradotto nel 1955 in italiano dall’Istituto Saveriano Missioni Estere col titolo Dio non ha scelto gli angeli. Oltre al titolo, di quel libro non ricordo molto. Quel poco che mi è rimasto nella memoria è che missionari non sono soltanto quelli che partono per i cosiddetti territori di missione (come il venerabile Rinaldi), ma deve esserlo ogni cristiano ed è quello che ho di nuovo capito da grande col documento CEI, ricordato prima.

    L’altra cosa che ho capito è che quando ci chiama il Signore non ci vuole perfetti… altrimenti avrebbe scelto gli angeli! Ci sceglie nonostante le nostre debolezze, i nostri limiti, difetti e anche peccati, perché «santi» (come pure il nostro Venerabile) lo diventiamo per sua misericordia. Un racconto ebraico spiega che agli angeli, i quali lo scoraggiavano dal creare l’uomo perché lo avrebbe deluso in mille modi e lo avrebbe anche offeso, Dio avrebbe risposto: allora inutilmente è scritto che sono Dio misericordioso? Questa sera, celebrando una festa mariana, potremmo fargli dire al buon Dio: allora inutilmente una Vergine, che ho scelto come Madre terrena per il mio Figlio, canterà: di generazione in generazione la sua misericordia; soccorre Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia?

 

    Rieti, Cattedrale Basilica di Santa Maria – 31 maggio 2021

                                                                                                                                          Marcello Card. Semeraro

 

 

 

[1] «La spiritualità e la pietà del vescovo Massimo Rinaldi», in G. Maceroni, G. Rossi, A.M. Tassi (a cura di), Il Vescovo scalabriniano Massimo Rinaldi. Un interprete della Chiesa del Novecento, SEI, Torino 1996, 65.

[2] Lucrezio, De rerum natura VI, 341-342.

[3] O.c., 61.