Molfetta, Venerabilità Antonio Bello

«Figlio, non hanno più sale…»

Omelia per la venerabilità del Servo di Dio Antonio Bello

 

    Torno qui a Molfetta e celebro in questa cattedrale col cuore non soltanto colmo di emozioni, ma pure ricco di tanti ricordi. Mai avrei immaginato di salire su questa Cattedra per presiedere un’Eucaristia rivestito della dignità cardinalizia e, per giunta, per rendere pubblico il decreto di venerabilità per il Servo di Dio Antonio Bello: don Tonino, come sempre lo abbiamo chiamato. Ringrazio, dunque, il vescovo diocesano, Mons. Domenico Cornacchia, per avere programmato questo rito e, con lui, saluto il presbiterio diocesano dove rivedo tanti volti a me cari, sia per amicizia, sia per collaborazione, sia per discepolato nel Seminario Regionale. Con loro saluto gli arcivescovi e vescovi presenti e, per tutti, il Presidente della CEP Mons. Donato Negro, arcivescovo di Otranto e primo successore in Molfetta di Mons. A. Bello. Questo medesimo saluto lo estendo di vero cuore a tutti i fedeli e, con loro, alle Autorità presenti. Di ogni ordine e grado.

    Ho vissuto qui a Molfetta trentacinque anni della mia vita e tutto il mio ministero di presbitero lo deposi ai piedi della Regina Apuliae, quando, appresa in segreto dall’arcivescovo C.F. Ruppi la mia nomina alla Chiesa di Oria, vi tornai da solo al mattino del 13 luglio 1998. Per tutti quegli anni, fin da giovane seminarista, scrutando l’orizzonte dal porto di Molfetta ho sempre veduto nella luce del tramonto il santuario della Madonna dei Martiri: luoghi, ambedue, dedicati a Maria, la «donna del vino nuovo», come l’avrebbe chiamata don Tonino che, rivolto a lei, dice: «fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza» (Scritti, VI, 32). Questa invocazione vogliamo ripeterla anche noi oggi, in questa Chiesa che, dal 1982 al suo transito alla casa del Padre, lo ha avuto come padre, fratello ed amico e viva immagine di Cristo, nostra speranza (cf. Giovanni Paolo II, Pastores gregis, n. 4).

    Non è davvero il caso, carissimi, che io ripeta qui il profilo spirituale ed umano di mons. Bello. Lo conoscete bene ed è stato, oltre tutto, sinteticamente disegnato dal Decreto, letto all’inizio di questa Santa Messa. Mi soffermerò, allora, sul titolo mariano che ho appena ricordato ed è particolarmente adatto a noi, che abbiamo appena ascoltato il racconto delle nozze di Cana: un testo che, nell’insieme del quarto vangelo, occupa un posto qualificante e che, nonostante i lunghi e numerosi studi dedicatigli dagli esegeti, conserva ancora nascoste, inesauribili ricchezze. Il mistero di Cana, infatti, è epifanico come quello dei Magi e del Battesimo del Signore al Giordano: «Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo: oggi la stella ha guidato i magi al presepio, oggi l'acqua è cambiata in vino alle nozze, oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano per la nostra salvezza, alleluia», abbiamo ripetuto nei Vespri del 6 gennaio. E se oggi ci fosse il banchetto di Cana? Se oggi vi fossimo invitati noi, discepoli di Gesù insieme con lui, al posto di quelli che l’accompagnarono duemila anni fa; se oggi Maria dovesse rivolgere a Gesù una sua costatazione e un suo implicito appello, cosa direbbe?

    Su quel: «Non hanno vino», che il libro della Genesi chiama «sangue dell’uva» (49,11), molto hanno scritto, gli studiosi. Nell’Antico Testamento simboleggia la Parola di Dio e soprattutto la Sapienza, che dopo avere imbandito la tavola e mesciuto il vino esorta: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Pr 9,5-6). Ed ecco che con intelligenza esegetica don Tonino scrive che proprio nell’accoglienza del Verbo si gioca il senso della vita e spiega: «Più che “senso”, è meglio dire “sapienza”. Cioè sapore, gusto. Il sale della minestra: quello che manca oggi. Se Maria presenziasse con Gesù, come in un giorno in Cana di Galilea, ai nostri banchetti, non direbbe più: “Figlio non hanno più vino”,

ma direbbe: Figlio, non hanno più sale…» (Scritti, VI, 243).

 

    Anche questo passaggio di mons. Bello è ricco di significati e di simboli: il sale dona sapore, ma anche purifica e dona incorruttibilità. Gesù ci vuole «sale della terra» (Mt 5,13). Nella memoria di don Tonino sarà tornata certamente la frase battesimale: «sale della sapienza» che, come richiama un testo medievale, aiuta a non perdere il sapore di Cristo sì da divenire insipienti e fatui (cf. PL 102, 318). Il 55mo Rapporto Censis (2021) ci ha dato un allarme: «Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità. È un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà…». In un testo del 1987 – ossia di trentacinque anni or sono – don Tonino scriveva: «Ci vuole un bel coraggio a dire che il vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è divenuto l’emblema drammatico dell’evasione e della fuga, che accomuna i tossici agli alcolisti, gli ultrás ai barboni… Ci si appiattisce in una esistenza che scorre, senza più stupore, senza più spessore, come le immagini sul video. E noi compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un telecomando: crediamo di scegliere, e invece siamo scelti. Si muore per anemia cronica di gioia. Si moltiplicano le feste, ma manca la festa. E le letizie diventano sbornie; gli incontri, frastuoni; e i rapporti umani, orge da lupanari» (Scritti, VI, 102).

    Maria, allora, oggi, direbbe: «Figlio, non hanno più sale…» Per il nostro Servo di Dio ciò indicava l’importanza, la necessità di avere, di trovare in Cristo il senso della vita: «di questo orientamento decisivo, di questo intimo significato delle cose, di questo profondo “perché”, oggi sentiamo tutti un incredibile bisogno»  (Scritti, VI, 243). E fu questo pure l’estremo suo saluto, nell’ultima Messa crismale celebrata, qui, in questa Cattedrale di Molfetta l’8 aprile 1993: «Coraggio – disse! Vogliate bene a Gesù Cristo, amatelo con tutto il cuore, prendete il Vangelo tra le mani, cercate di tradurre in pratica quello che Gesù vi dice con semplicità di spirito». Sono parole che per il loro contenuto, il contesto e l’ora in cui furono dette, basterebbero da sole a testimoniare della santità di don Tonino. Nonostante i quasi trent’anni trascorsi, se facciamo silenzio e facciamo tacere ogni altra voce, queste parole possiamo sentirle risuonare fra queste mura.

    E poiché «non può amare Dio che non vede, chi non ama il proprio fratello che vede» (1Gv 4,20) don Tonino subito aggiunse: «Poi, amate i poveri. Amate i poveri perché è da loro che viene la salvezza, ma amate anche la povertà» (Scritti, VI, 351). Emergeva qui l’anima francescana di don Tonino; quella medesima, che aleggiò nel conclave di metà marzo 2013. «E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: “Non dimenticarti dei poveri!”. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri» (Francesco, Udienza del 16 marzo 2013).

 

    Molfetta, 15 gennaio 2021

 

Marcello Card. Semeraro