Moriamo volentieri per Gesù Cristo

Omelia nella festa dei Ss. Martiri di Otranto

 

    Sono molto grato al vostro Arcivescovo Donato, per l’invito che mi ha rivolto a magnificare con voi il Signore nella lode dei Santi Martiri Idruntini. A lui sono legato da antica, profonda e fraterna amicizia anche per la comune origine nella Chiesa di Lecce. Mi unisco volentieri al suo saluto per voi tutti, a cominciare dai confratelli mons. Franco Coppola, arcivescovo Nunzio Apostolico in Messico, e mons. Vincenzo Pisanello, vescovo di Oria, Chiesa per la quale nel 1998 fui eletto Vescovo e che sempre conservo nel cuore.

    Torno qui, per la medesima circostanza, dopo vent’anni e, nel frattempo, i Beati Martiri sono stati canonizzati. Ricordo che per la sessione ordinaria dell’11 dicembre 2012 proprio io fui provvidenzialmente incaricato di esporre ai Cardinali e Vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi la cosiddetta «ponenza» per l’approvazione del miracolo presentato in vista dell’auspicata canonizzazione. Il voto unanime dei padri fu approvato e fatto proprio dal Papa Benedetto XVI. Fu poi il suo successore, Francesco, a procedere il 12 maggio 2013 – VII domenica di Pasqua – al rito di canonizzazione. Al suo termine, quando il Prefetto della Congregazione, il Cardinale Angelo Amato, nostro illustre conterraneo, lo ringraziò e salutò secondo il rito, il Papa gli disse: « Ho canonizzato più martiri in una sola celebrazione di tutti i miei predecessori insieme». Queste parole esprimevano il suo giubilo interiore!

    La gioia del Santo Padre in quell’occasione è ancora, oggi, la nostra gioia. Siamo lieti perché questi autentici testimoni furono davvero dei bravi «atleti», come li chiama il Prefazio proprio di questa Chiesa. Athletae Christi nel linguaggio cristiano sono gli apostoli e i santi, soprattutto i martiri. Tutti i cristiani, però, in forza del Battesimo e della Confermazione siamo chiamati a essere degli atleti di Cristo. Il cristiano è un combattente! Un figlio di questa Chiesa di Otranto, il teatino Lorenzo Scupoli (1530-1619) ha scritto un libro ch’è un classico della spiritualità cattolica col titolo Il combattimento spirituale.

    Molto bello è quanto in proposito ha scritto sant’Ambrogio: «Siamo atleti, che gareggiano in uno stadio spirituale e dobbiamo lottare secondo le regole. Vi sono molti incontri di lotta e chi oggi è vinto, domani si riscatta. Prima si lotta per il premio, poi per la corona. Forse che l’atleta, una volta che si è iscritto alla lotta, si dà all’ozio? Si esercita ogni giorno, ogni giorno si unge. Egli riceve anche un cibo appropriato all’attività agonistica; si richiede una severa condotta di vita, bisogna conservare la castità. Anche tu ti sei iscritto all’agone di Cristo, ti sei iscritto alla gara per la corona: medita, esercitati, ungiti con l’olio della letizia, con l’unguento che spande profumo … Una volta entrato nell’arena è inevitabile che tu sia esposto alla polvere e subisca il calore del sole estivo. La vampa è opprimente, ma la vittoria è piacevole. La foschia provocata dalla polvere è fastidiosa, ma la sopportazione è ammirevole. Nessuno entra nello stadio impolverato, ma lottando ci si ricopre di polvere … Nessuno è coronato dopo essersi ripulito: la vittoria conviene a chi è impolverato» (cf. De Elia et ieiunio XXI, 79: PL 14, 725-726). Credo che queste parole possano applicarsi ai nostri Martiri.

    Applaudiremo, dunque, a loro come il mese scorso abbiamo applaudito alla squadra di calcio italiana, che ha vinto gli «Europei» 2020? Oppure, come nei giorni scorsi alle medaglie d’oro italiane alle Olimpiadi di Tokio? Nient’affatto. «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo…: infatti quando sono debole, è allora che sono forte», ci risponderebbero con san Paolo i nostri Martiri (cf. 2Cor 12,10). Cosa faremo, allora? Loderemo il Signore dicendogli: «Sei tu che infondi l’ardore della fede, concedi la fermezza della perseveranza e doni nel combattimento la vittoria» (Messale Romano, Prefazio dei Santi Martiri II).

    Oggi un altro figlio di questa terra di Puglia è stato chiamato a presiedere la Congregazione delle Cause dei Santi ed ecco che, sino ad ora, i riti di beatificazione che, per mandato del Papa, ha presieduto, sono stati tutti per martirio. «Oggi – ha detto una volta Francesco – ci sono più martiri che all’inizio della vita della Chiesa, e i martiri sono dappertutto. La Chiesa di oggi è ricca di martiri, è irrigata dal loro sangue che è “seme di nuovi cristiani” e assicura crescita e fecondità al Popolo di Dio» (Udienza generale del 25 settembre 2019). Su queste parole occorre riflettere ed io mi domando se abbiamo qualche indizio che possa farci pensare che questa crescita c’è ancora ai nostri giorni. Oggi, di queste cose ne accadono?

    Vi dirò allora del giudice Rosario Angelo Livatino, il cui rito di beatificazione per martirio ho presieduto ad Agrigento il 9 maggio scorso, rimanendone non solo spiritualmente edificato, ma anche emotivamente molto toccato. Nel pomeriggio di quello stesso giorno mi recai a Canicattì, per pregare davanti alla sua tomba e poi visitai la sua casa, dove la sua stanza è conservata come egli la lasciò al mattino del 21 settembre 1990, giorno del suo martirio. Notai che al capezzale del suo letto c’è l’immagine non della Vergine, ma di Paolo VI. È una coincidenza che mi commosse, perché mi fece tornare alla memoria ciò che scrisse il p. Bartolomeo Sorge S.J., grande maestro nella Chiesa italiana, considerando la contemporanea canonizzazione fatta da Francesco il 14 ottobre 2018 sia di Paolo VI, sia di mons. Oscar Romero: Paolo VI è «il primo martire incruento del Concilio», scrisse, mentre mons. Romero è «il primo martire cruento del Concilio» («Paolo VI e Oscar Romero, i primi «martiri del Concilio», in Aggiornamenti Sociali ottobre 2018, 621-628).

    Quanto al beato martire Rosario A. Livatino, riferirò ciò che avvenne nel cuore di colui che fu il testimone oculare per eccellenza del delitto, il sig. Pietro Nava. Egli si trovava per lavoro a viaggiare sulla medesima statale dove Livatino fu bloccato dai suoi persecutori e involontariamente assistette all’omicidio. Mentre in tanti, per dirla con le parole della parabola evangelica, percorrendo la medesima strada passavano oltre (cf. Lc 10,31-32), egli al contrario vide e testimoniò: gesto di per sé davvero di grande valore, ma ancora più importante perché, in un’epoca in cui non era ancora entrata in vigore la legge per la protezione dei collaboratori o dei testimoni di giustizia, diede un serio colpo di piccone per abbattere quel muro di omertà, che generalmente (e ancora oggi) accompagna gli episodi di tipo mafioso. Da quel suo gesto, P. Nava ebbe come conseguenza la morte sociale: ancora oggi egli è uno «sconosciuto».

    Io sono nessuno, ha egli stesso intitolato la sua storia, scritta con alcuni amici della sua Lecco. A chi gli domandava perché avesse fatto quella testimonianza, dagli effetti così duri, rispondeva egli stesso: «Ricordo cosa diceva con saggezza antica mia madre, quando ero giovane: «Abbraccia la Croce e accada quello che Dio vuole». La sua scelta, dunque, egli la sentì come un dovere religioso. Ecco, poi, la testimonianza che egli rese alla Commissione parlamentare d’inchiesta, il 21 settembre 2016: «Da quel momento è cambiata la mia vita, da quel momento non sono stato più io, è stato difficile, si fa fatica a capire cosa ti succede …  Non hai più la tua vita, l’hai persa. Perché ho fatto questa scelta? È semplice: io ho avuto una famiglia che mi ha insegnato che devi avere senso di responsabilità, che quando tocca a te tocca a te, che non puoi alzarti la mattina, andarti a fare la barba e dirti le bugie … Chiaramente non sapevo che era un giudice, ma non era questo l’importante: c’erano delle pistole, c’era qualcosa che non andava, poteva essere chiunque, in quel momento toccava a me, io non avrei più potuto né leggere un giornale, né guardarmi nello specchio se non mi fossi comportato così. Vi chiedete se lo rifarei? Certo, perché devo avere rispetto di me stesso, il primo ad avere rispetto di me stesso devo essere io, non gli altri».

    Non vi nascondo, carissimi, che personalmente in queste parole riconosco il primo effetto di grazia del martirio di Rosario Livatino. Abbraccia la Croce e accada quello che Dio vuole: in categorie morali tutto questo si chiama «discernimento». Quando tocca a te tocca a tein quel momento toccava a me: in categorie biblica e teologica si chiama kairos. Per i greci questa parola significa: momento giusto, o anche opportuno e soprattutto momento cruciale. Lo stesso termine in teologia indica il tempo scelto da Dio per agire, per intervenire. Per l’uomo poi, ne sia o no consapevole, è momento di grazia perché, una volta posto di fronte alla propria coscienza morale egli è comunque posto di fronte a Dio. Come, infatti, ci insegna il Concilio Vaticano II, la coscienza «è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria» (Gaudium et spes, 16; cf. CCC 1776).

    Ci sono eventi – e riconoscerli è anche questo un’offerta di Dio (grazia preveniente la chiamerebbe il Concilio di Trento) – … eventi che sono il «caso serio» della vita. Deum quasi transeuntem habemus: «Dio somiglia ad un viandante che ci passa accanto, diceva Riccardo di San Vittore (cf. Beniamin Maior IV, 11: PL 196 0146). Per noi, la questione è riconoscerlo, quando passa. Questo, però, non accade se abbiamo l’animo distratto, superficiale, frettoloso.

    Perché faccio queste considerazioni? Che c’entrano coi nostri Martiri? Io mi domando (e in verità qui me lo domandai pure vent’anni or sono): come mai questi «ottocento» non rinnegarono la fede? Perché non cercarono di sottrarsi alla morte con la fuga, o nascondendosi? Perché, invece, aderirono al grido di Antonio Primaldo, rispondendogli in coro, come racconta il Galatino: Moriamur pro Christo omnes … «Moriamo per Gesù Cristo, tutti; moriamo volentieri, per non rinnegare la sua santa fede»?

    Eppure non erano dei fanatici e neppure erano asceti come i monaci del vicino monastero di Casole, distrutto anch’esso in quei medesimi eventi. Penso che una risposta possa esserci, piuttosto, in quella «santità della porta accanto», di cui ha scritto il Papa nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate: «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”» (n. 7).

    Di questa «classe media» fan parte certamente i martiri di Otranto. Christicolae li denomina il Prefazio di questa santa Chiesa idruntina e canta: quelli che avevano cura del suo nome Cristo li ha resi suoi testimoni. Lo facevano con la laboriosità e la bravura degli antichi agricoltori che da questa terra del Salento hanno tratto il pane, il vino e l’olio: «il vino che allieta il cuore dell’uomo, l’olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore», come dice il Salmo (104,15).

    La massima parte è anonima. Di tutti loro non emerge che il nome di Antonio Pezzulla, denominato Primaldo, un umile cimatore di panni. Solo dalla sua voce si sentì che tutti «tenevano Gesù Cristo per figliolo di Dio e loro Signore e vero Dio, e che piuttosto volevano mille volte morire che rinnegarlo e farsi Turchi». Degli altri, è la muta testimonianza di cui parlava, condotto anch’egli al martirio, sant’Ignazio di Antiochia: «È meglio tacere ed essere, che dire e non essere… Uno solo è il maestro … e ciò che tacendo ha fatto è degno del Padre» (Ad Eph. XV, 1: Funk I, 224). Anche ciò che tacendo han fatto gli Ottocento è degno del Padre! Non si è trattato, infatti, di non avere avuto voce, ma di aver fatto parlare la vita.

    Solo i santi possono, per una sintonia spirituale e per il senso della fede che sostiene la vita del popolo di Dio, spiegarci la fecondità di ciò che avvenne qui ad Otranto 14 agosto del 1480. Riesce a farcelo comprendere una donna, che il 9 agosto 1942 fu condotta nelle camere a gas di Auschwitz, dove morì ed è martire anche lei. La Chiesa ne ha fatto memoria lunedì scorso: si tratta di Edith Stein-santa Teresa Benedetta della Croce. Meditando sull’Epifania del Signore, un po’ per incidens scrisse: «Quanto più profondamente un’epoca è immersa nella notte del peccato e nella lontananza di Dio, tanto più ha bisogno di anime che sono intimamente unite a Lui. E Dio non permette che in tali situazioni vengano meno. I più grandi profeti e i santi sorgono proprio nella notte più oscura. La corrente vivificante della vita mistica rimane certo invisibile, ma è certo che gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato» («Verborgenes Leben und Epiphanie», in Gesammelte Werke XI, 145 [242-243], parzialmente cit. in Gaudete et Exsultate, n. 8).

    Anche noi, per la nostra fede di oggi dobbiamo ringraziare gli Ottocento martiri del Colle della Minerva.

 

    Basilica Cattedrale di Otranto, 14 agosto 2021

                                                                    Marcello Card. Semeraro