San Giuseppe non si ascolta, si imita
Omelia alla redazione romana di «Avvenire» in preparazione al Natale del Signore
Dopo l’incontro di giovedì scorso a Milano per la Santa Messa in preparazione al Santo Natale, ecco questo secondo con voi, della redazione romana di «Avvenire», più abituale per me e, come quello, confidenziale e cordiale.
Dopo avere ascoltato la proclamazione della pagina del Vangelo secondo Matteo (cf. Mt 1,18-24), consideriamo insieme per qualche momento la figura di san Giuseppe fermandoci in particolare su tre suoi atteggiamenti. Il primo è quello suggeritoci dalle parole: Mentre stava considerando queste cose (v. 20). Giuseppe è un giovane, che medita e riflette sul senso degli eventi. Non si accontenta di osservarli nel loro svolgersi, ma ne considera attentamente il valore e valuta accuratamente le conseguenze delle sue risoluzioni. Haec cogitante, traduce la Vulgata, proponendoci un verbo, il cogito, che tanta parte avrà poi nella formazione del pensiero moderno. Chi, infatti, non ha sentito almeno una volta citare il cogito di Cartesio? Del «pensare» questo filosofo fece non soltanto un principio di conoscenza – come è da ritenere scontato (ma lo è?) –, bensì di consapevolezza di sé, di autocoscienza: cogito, ergo sum! Amiamo, allora, considerarlo così Giuseppe: non un ingenuo e inesperto manovale della Galilea, ma una persona matura, pronta a fare delle scelte importanti, non soltanto per sé. Per descrivere il suo atteggiamento il testo greco ricorre al verbo enthymeomai che, coinvolgendo il sostantivo thymos, non dice soltanto un riflettere e un considerare qualcosa, ma pure un movimento dello spirito e perfino un’agitazione del cuore.
Ed ecco che il vangelo ci disegna Giuseppe, lo sposo di Maria, come un giovane dall’animo pronto a cogliere segnali di senso e, per questo, disposto a essere meditativo e orante. Non è un bel modello per chi opera nel mondo della comunicazione? Giornalista non è chi si limita a descrivere quanto avviene, ma soprattutto chi riesce a cogliere il senso degli eventi; giornalista «cristiano», poi, è colui che cerca di cogliere quelli che san Giovanni XXIII, convocando il Concilio Ecumenico Vaticano II chiamava «segni dei tempi» (cf. Cost. Ap. Humanae salutis, n. 4) e che il Concilio stesso riprenderà, intendendoli pure come «segni della presenza o del disegno di Dio» (Gaudium et spes, n. 11; cf. n. 4). L’espressione, poi, ha avuto pure un uso sociologico, indicando le caratteristiche di un periodo storico che lo distinguono dagli altri. In questo senso la globalizzazione, l’idolatria del mercato, l’orizzonte planetario della storia sono spesso citati come segni del nostro tempo. Questo per fare un solo esempio, che però può avere per voi grande importanza. La Chiesa stessa, per la sua lettura teologica dei segni dei tempi, ha bisogno delle corrette letture che possono giungere dalle scienze umane.
Procediamo, però, nel considerare la figura di Giuseppe. Il racconto prosegue dicendo: Gli apparve in sogno un angelo del Signore (v. 20). Per noi pensare e sognare non possono stare insieme. Il primo è l’atteggiamento di chi è consapevole e sveglio; l’altro è immersione nel mondo dell’irreale e dell’evanescente. Se il pensiero è legato a un’idea chiara e distinta, il sogno ha i contorni incerti e sfumati, è ambiguo e sfuggente. Nello stile di Dio, al contrario, il sogno è una strada preferita per rivolgersi all’uomo e per comunicargli i «suoi sogni». Dio usa molto spesso i sogni degli uomini per sognare e per desiderare insieme con loro. Giuseppe è uno di quelli di cui un grande poeta statunitense ha scritto: «Coloro che sognano di giorno, sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte» (E.A. Poe). Forse ciò di cui è malata la nostra post-modernità è anche la scissione tra il pensare e il sognare; forse il nostro male oscuro è anche il divorzio tra una mente calcolante e quantificante e un cuore per il quale «fare due passi» significa stare insieme e rallegrarsi per un intero giorno e «scambiare due parole» vuol dire starsene vicini in silenzio per ore e ore: come due innamorati, o come un genitore accanto al suo bimbo ammalato…
Poi Giuseppe passò dal sogno al sonno. Il Signore gli fece dono di quanto noi imploriamo durante un inno dei Vespri: «Nel sonno rimargina le ferite dell’anima…». Nel sonno l’animo di Giuseppe si acquieta, i suoi pensieri trovano il riposo e le sue considerazioni maturano nella decisione e nella scelta: Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore (v. 24). Egli rimase nel sogno e nel sonno il tempo sufficiente per udire la volontà di Dio, per farla sedimentare nel suo animo e passare come linfa vitale in ogni cellula del suo corpo, per riprendere le energie e alzarsi dal sonno, come si dovrebbe tradurre letteralmente e ancora di più, se il verbo egeiro è scelto dal Nuovo Testamento pure come verbo di risurrezione: exsurgens a somno… fecit!
Giuseppe giunse alle scelte e operò come gli aveva ordinato l’angelo del Signore. Come la sua sposa, egli compie le cose secondo la Parola di Dio (cf. Lc 1,38). Giuseppe non parla: non ci sono parole di Giuseppe nei racconti evangelici! Tutto quanto aveva rimeditato al principio, tutti i suoi pensieri e i suoi sogni diventano fatti.
Giuseppe non è personaggio da ascoltare, ma da osservare. Per capirlo bisogna guardarlo nell’agire. Sulla Parola di Dio egli accetta di entrare nel mistero, ossia nei disegni di Dio. Giuseppe non si ascolta, si imita. Sia questo un nostro impegno per il Santo Natale.
Basilica del Sacro Cuore di Gesù – Roma, 18 dicembre 2024
Marcello Card. Semeraro