Coraggio, mettetevi in cammino
Omelia durante il Corso di Formazione per i nuovi Vescovi
Celebro volentieri con voi, carissimi fratelli, questa Santa Messa: siete qui per un ormai tradizionale convegno destinato ai «nuovi vescovi», che riprende dopo la sospensione motivata dalla pandemia. A voi, dunque, l’augurio fraterno da me, che non sono più «nuovo vescovo»; domani, poi, sarà un anno dacché ho lasciato la guida pastorale della Chiesa di Albano. È un atto importante, questo, come quello dell’iniziarla; lo è, anzi, di più poiché è il saper «lasciar andare», il gesto che davvero ti fa crescere nella paternità. Quante volte ci ho pensato, muovendomi verso i canonici 75 anni! Accade come ad una madre che, per far continuare a vivere e crescere la creatura che ha portato nel grembo per nove mesi, deve necessariamente distaccarsene. Ed ecco che a un vescovo accade paradossalmente di poter vivere la parola di Gesù: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21).
Ma io non sono qui per commentare questa frase del vangelo, bensì per riflettere con voi sulla pagina delle beatitudini, che oggi la Liturgia ci ha proposto nella versione di san Luca (cf. 6,20-26). Come leggerla? Considerato il mio ministero nel Dicastero delle Cause dei Santi, una possibilità sarebbe trarre qualche spunto dall’esortazione apostolica Gaudete et exsultate scritta da Francesco sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Non soltanto in essa si tratta delle beatitudini (cf. capitolo 3), ma nello stesso suo titolo coglie il tratto più originale delle beatitudini ricavandolo dall’ultima beatitudine e mostrandolo in quell’a causa sua richiamato dal papa proprio nella prima frase della sua esortazione. Ricorda che il «rallegratevi ed esultate» Gesù lo dice «a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua». La sua attenzione, dunque, non è rivolta a chiunque è perseguitato, o umiliato dall’altro, bensì a chi è tale «a causa mia» (Mt 5,11), o «del figlio dell’uomo» (Lc 6,22) come oggi abbiamo ascoltato.
Ciò che, allora, è messo in gioco è il nostro discepolato, sicché nel nostro ambiente sociale, culturale e religioso diventiamo testimoni di Cristo non certo per un nostro ruolo, o per il compimento di opere filantropiche, ma per la nostra personale relazione con Lui. Quello che ci rende credibili come cristiani (e anche come vescovi) è proprio il paradosso della gioia e dell’esultanza nella prova e nella sofferenza. Il Papa scrive: «accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità» (GE, 94).
Non è, del resto, «una beatitudine da quattro soldi» quella che Gesù promette, ma, come lessi da giovane sacerdote in un bel libro di M.-J. Le Guillou intitolato L’Innocente, è «una beatitudine provata nel crogiuolo, una beatitudine di uomini divenuti bambini, capaci di giudicare tutto alla luce dell’amore del Padre. Le Beatitudini sono l’intelligenza della nostra vita nella dolcezza di Dio e sono la gloria di Dio che penetra la nostra vita con le sue energie vivificanti».
Chiediamoci, allora: cosa vuol dire quel beati, che nel testo evangelico appena proclamato abbiamo udito ripetere? Rimasi sorpreso quando, un bel po’ di anni or sono, mi accadde di leggere la sua traduzione in lingua francese, fatta da André Chouraqui, un ebreo algerino conosciuto come «l’uomo delle tre religioni» per il suo forte impegnato nel dialogo interreligioso: il nostro «beati», egli lo rendeva con En marche! «Coraggio, mettetevi in cammino»!
Quel beati, dunque, non è né una rassegnata ratifica dell’esistente: i miti, gli affamati e gli assetati della giustizia, i misericordiosi e i pacificatori non sono «beati» perché se ne stanno inoperosi, ma perché rispondono all’agire divino con il loro sistema di pensiero e di vita.
Quel Beati non è neppure un banale conforto in vista di una soluzione escatologica. Infatti, «dilazionare le beatitudini di Gesù sul futuro significa impoverirne l’incidenza sul discepolo che le ascolta in qualsiasi condizione di afflizione».
Motivando la sua traduzione del beati con en marche, Chouraqui spiegava che il corrispondente termine ebraico ashréi (presente 45 volte nella Bibbia ebraica) deriva dalla radice ashar, che ha il senso fondamentale di una via che è stata liberata da tutti gli ostacoli che impediscono di giungere velocemente all’incontro con Dio. In altre parole, le Beatitudini sono l’indicazione di una vita cristiana dinamica, che si lascia attrarre dalla speranza liberante che si sprigiona dalla Croce del Risorto e diventa, per questo, «attraente».
Tornare a un cristianesimo attraente. Un’abbadessa benedettina, mentre si rifletteva insieme su tante criticità nella vita della Chiesa di oggi, fra cui anche la carenza di «vocazioni» (e non soltanto al sacro ministero e alla vita consacrata, ma pure alla testimonianza «laicale» … pensiamo alla testimonianza nell’agone politico), mi ha riferito la risposta che l’abate Ildefonso Schuster diede a un anziano monaco di San Paolo che si sfogava con lui, alla stessa maniera, un secolo fa. Con parole che potrebbero applicarsi alla beatitudini evangeliche, gli disse: «Vediamo di ripulire il nido e le rondini verranno».
Roma, 7 settembre 2022
Marcello Card. Semeraro