Omelia in preparazione alla beatificazione della Venerabile Maria Carola Cecchin

 

Maternità di Maria, della Chiesa e nostra

Omelia in preparazione alla beatificazione della Venerabile Maria Carola Cecchin

 

1. Desidero anzitutto ringraziare per le parole introduttive di saluto rivoltemi e, a mia volta, salutare il Padre don Carmine Arice. C’è tra di noi un’amicizia vecchia no, ma antica sì! In lui desidero anche ringraziare l’intera Opera: per la specificità del carisma, certo, ma personalmente anche per il servizio che rende alla formazione dei futuri sacerdoti. Sono stato per oltre 22 anni Vescovo diocesano (23, aggiungendo l’anno di amministrazione apostolica) e so bene che i nostri seminaristi abitualmente, durante il percorso formativo, giungono qui per trascorrere una esperienza (estiva, magari, e anche lunga) di preparazione. È un’esperienza importante, perché la cura animarum, la «cura d’anime» alla quale si preparano, comincia fondamentalmente con la cura del povero, dell’ammalato, del vulnerabile. E chi di noi non è vulnerabile? La vulnerabilità è connaturale alla nostra condizione umana, per questo l’antica tradizione ha sempre chiamato Gesù: il medico!

Desidero ringraziare per questo invito la Superiora Generale, Madre Elda Pezzuto; la Postulatrice Generale, Suor Antonietta Bosetti e, con loro, tutte le Suore di San Giuseppe Benedetto Cottolengo: quelle qui presenti e le altre collegate attraverso Internet. Vi ringrazio per avermi dato l’opportunità di stare con voi in questa fase di immediata preparazione alla beatificazione, il prossimo 5 novembre, della Venerabile Serva di Dio Maria Carola Cecchin. Questo nostro incontro si inserisce in un percorso più ampio, che voi state compiendo, di preparazione a quel momento, importante per la famiglia cottolenghina. Accanto al Fondatore, ormai, come mi faceva notare don Carmine, ci sono tre esponenti nella santità riconosciuta dalla Chiesa.

Permettetemi poi, anche se non è presente, ma avrò la gioia di abbracciarlo di persona fra non molto, di salutare il nuovo Arcivescovo della Diocesi di Torino, mons. Roberto Repole, che è stato ordinato vescovo appena da una settimana. In comunione con lui, Padre di questa Chiesa, celebro questa Santa Eucarestia.

 

2. Per questa celebrazione si è scelto di utilizzare i testi della Messa votiva della Vergine Maria, Madre della Chiesa. Il tempo pasquale, che dal giorno della Risurrezione di Cristo ci fa implorare unanimi ed attendere insieme lo Spirito del Signore, è quanto mai propizio per invocare la presenza di Maria.

Come abbiamo sentito dal brano degli Atti degli Apostoli, nel gruppo degli Undici nel giorno della Pentecoste era assente l’apostolo Mattia che oggi, però, la Chiesa festeggia. Oggi è la festa di questo apostolo, aggiunto dalla misericordia del Signore. Erano due, quelli che furono presentati agli apostoli: uno aveva un soprannome che è tutta una raccomandazione: il Giusto, ma il Signore scelse l’altro. Così è il Signore. Lo sapeva bene Maria: Dio guarda gli umili. Ha guardato l’umiltà della sua serva.

L’immagine della Madre del Signore insieme ai discepoli è l’icona più bella di quell’unità fra Maria e la comunità dei credenti, che il titolo di Madre della Chiesa vuole esprimere. È un titolo mariano, questo, che dobbiamo al cuore di san Paolo VI: quando proclamò questa sua scelta personale ci furono delle critiche, perché sembrava che questo titolo potesse in qualche maniera compromettere il percorso del cammino ecumenico… Sapete che le comunità evangeliche hanno una teologia un po’ diversa da quella dalla Chiesa Cattolica e da quella ortodossa nei riguardi della santa Madre di Dio.

Anche noi siamo innamorati di questo titolo e Madre della Chiesa la invochiamo, Maria, nelle litanie lauretane, insieme ad altri titoli come: Aiuto dei Cristiani, Salute degli infermi. Gesù ce l’ha lasciata come Madre. Lo abbiamo sentito nella proclamazione del Vangelo e il Prefazio del Messale ripete: «ai piedi della croce, per il testamento d’amore del suo Figlio, estese la sua maternità a tutti gli uomini, generati dalla morte di Cristo per una vita che non avrà mai fine». E questo che canta la liturgia è testamento d’amore di Gesù. «Ecco la Madre tua».

 

3. Io oso pensare un’altra cosa: che dalla Croce Gesù l’ha lasciata, sì, come Madre al discepolo amato (ed in lui possiamo ritrovarci tutti noi); gli ha lasciato come madre la sua Madre! Gesù, però, questo lo ha fatto (forse è un po’ ardito quello che sto per dire, ma mi è passato come un baleno nella mente mentre insieme con voi ascoltavo la proclamazione del Vangelo) … Gesù ce l’ha lasciata come madre perché proprio Lui stava per diventare madre! Dal suo costato aperto – abbiamo ascoltato – uscì sangue ed acqua. I Padri diranno che sono simbolo dei sacramenti della Chiesa: Battesimo ed Eucarestia. Così diranno tutti i Padri, dall’Oriente all’Occidente. Ma più che simbolo dei Sacramenti, quell’acqua e quel sangue sono la Chiesa. È un mistero: è Gesù la Madre della Chiesa! È un mistero, questo, dove non esiste quella sessualità, che è al servizio della nostra crescita umana. Questo, però, ci è difficile comprenderlo. Perché, allora, lo potessimo capire, Gesù ci ha lasciato la sua Madre. Ce l’ha lasciata anche perché capissimo che la madre è Lui: noi siamo nati dal suo costato aperto!

Sant’Agostino – che pure non si è allargato molto nella devozione mariana – nella sua tipologia ha messo bene in evidenza il rapporto che c’è fra Maria Santissima e la Chiesa e questo ci aiuta a cogliere meglio il motivo della scelta di questi testi per la celebrazione di oggi. S. Agostino dice che la Chiesa, dal momento che «partorisce membra di Cristo, è somigliantissima a Maria». Simillima, dice la parola latina. Perché partorisce la Chiesa, noi. E la Chiesa somiglia a Maria.

Ecco che questa immagine della maternità si trasferisce da Cristo a Maria e poi da Maria alla Chiesa. E perché non può passare anche a ciascuno di noi? Ce l’ha detto Gesù: chiunque ascolta la mia parola, mi è padre, mi è madre, fratello, sorella. Il Concilio Vaticano II, nel capitolo VIII di Lumen gentium, afferma che «la Chiesa contemplando la santità misteriosa della Vergine, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio» (n. 64). Questo numero è l’esegesi della parola di Gesù. Tutti quelli che da Dio sono nati, conclude il Prologo di san Giovanni. E siamo noi!

Nella comune vocazione alla maternità che salva, che dona novità e speranza al genere umano, Maria e la Chiesa sono l’una all’altra unite. Come ha detto Papa Francesco: «La maternità della Chiesa si pone proprio in continuità con quella di Maria, come un suo prolungamento nella storia. (…) Guardando a Maria, scopriamo il volto più bello e più tenero della Chiesa; e guardando alla Chiesa, riconosciamo i lineamenti sublimi di Maria» (Udienza generale, 3 settembre 2014). In una Chiesa che si curva per sollevare il povero, come fa una mamma quando si curva per sollevare il bambino; come fa un papà quando prende in braccio il suo bambino.

 

4. Il carisma spirituale della maternità si è espresso in modo peculiare nella testimonianza di carità della famiglia cottolenghina. Rivolgendosi ai più poveri ed abbandonati, san Giuseppe Benedetto Cottolengo ha voluto trasmettere proprio questo volto materno della Chiesa. È stato scritto: «È proprio di una madre infatti donare amore, e farlo nella misura del bisogno, arrivando dove altri si fermerebbero. È proprio di una madre, al di là del limite umano, non dimenticare nessuno dei suoi figli, non fare distinzioni, perché tutti sono suoi, tutti sono amati da lei» (A. Nora, Caritas Christi urget nos. Il carisma e la spiritualità cottolenghina: aspetti ecclesiologici, Effatà Editrice, Torino 2008, 380).

Anche la Venerabile Serva di Dio, futura Beata, Maria Carola Cecchin è un’interprete privilegiata di questa maternità della Chiesa. Come messo in evidenza anche nella commemorazione che avete fatto di lei qualche anno fa, lo spirito materno è forse tra gli elementi più particolari che hanno caratterizzato l’eroicità della carità di Maria Carola Cecchin. Durante il processo, i testimoni hanno ripetutamente raccontato il suo «cuore di madre» (Positio, p. 46). Era «la mamma giusta e buona che, a tempo e luogo, sapeva rimproverare e premiare, sapeva consolare e istruire, comandare e farsi obbedire senza ricorrere al castigo, trattando tutti con molta carità» (Positio, p. 226).

Dall’esempio della futura Beata, vorrei raccogliere qualche spunto per noi, attirati dalla Vergine Maria a mostrare il volto materno della Chiesa. La maternità di Madre Maria Carola fu prima di tutto mettere umanità in ogni azione quotidiana. Mettere umanità: ce ne rendiamo conto soprattutto in questo tempo, uscendo, come ci auguriamo, dalla dolorosa pandemia. È l’umanità che aiuta a superare le difficoltà. La macchina aiuta a respirare, certamente, ma è l’umanità che aiuta ad andare avanti. In tanta intelligenza artificiale, sentiamo maggiormente il bisogno di un’intelligenza umana, pur con i suoi limiti. Mettere umanità.

In un tempo come il nostro, segnato profondamente dalla liquidità dei legami fra le persone, un rischio reale è quello di dimenticarsi di mettere umanità in tutto quello che facciamo. Ho letto qualche tempo fa la testimonianza di un ammalato: i primi giorni in Ospedale, i medici, gli infermieri, per indiarmi dicevano il numero della stanza, del letto…  Poi finalmente, piano piano, anche loro hanno cominciato a dire il mio nome.

Mettere umanità anche nelle piccole cose: non è la malattia che conta; più della malattia conta la persona. Ce lo fanno vedere le immagini della pandemia, così come ce lo dimostrano oggi le scene di guerra cui assistiamo quotidianamente. E ce ne sono tante altre, forse peggiori, alle quali i telegiornali non ci fanno assistere. Non c’è nulla di più tragico per l’uomo che dimenticarsi di usare umanità. Quell’umanità che nella Venerabile Serva di Dio era «tanta delicatezza, precauzione e disinvoltura» (Positio, p. 285).

 

5. Per lei maternità fu anteporre a se stessa il bene degli altri. Perché questo è il tratto tipico dell’amore materno: saper guardare la realtà nella prospettiva dell’altro, dei suoi bisogni e della possibilità che trovino risposta. Un po’ di questo ho potuto vederlo poco fa, quando mi han fatto vedere un filmato: una madre che lascia qualsiasi cosa per accogliere, aiutare, perdonare...

La maternità della Venerabile Serva di Dio, infine, fu un modo di stare, prima ancora che un modo di fare. Oggi sembra che tutto dipenda da ciò che si dice, o si fa. Madre Maria Carola, alla sera, amava sedersi fra i suoi neri e, benché non potessero dirsi molto, la sua sola presenza era già piena di significato (cf. Positio, p. 47). Il mondo ci domanda una presenza che, prima ancora di insegnare o proporre gesti, sia capace di infondere fiducia.

L’altro giorno stavo per recarmi da casa in Congregazione e ho visto scendere dalla scala del palazzo del Sant’Uffizio, dove abito, tre sacerdoti. Vedendo che uno di loro mi salutava con particolare calore mi sono fermato, ma ricordavo chi fosse. Mi ha detto: «tanti anni fa io ero diacono e lei mi ha predicato il corso di esercizi spirituali a…». Gli ho risposto: «Non posso ricordarti dopo oltre vent’anni; ricordo, però, che in quegli esercizi spirituali dalla testimonianza di uno di voi imparai la raccomandazione che san Francesco d’Assisi, nella sua Regola non bollata, diede ai suoi missionari che andavano a predicare tra gli infedeli. Scrisse: «I frati che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio a e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio…». Francesco intendeva dire che il mondo ci domanda anzitutto una presenza. Prima ancora di insegnare, prima ancora di fare qualcosa, ci domanda una presenza. Avrei dovuto saperlo da prima, ma almeno quel giorno lo capii.

 

Care sorelle, cari fratelli: la famiglia cottolenghina si prepara a raccogliere un frutto bellissimo della sua storia. La testimonianza della Venerabile Maria Carola è indissolubilmente connessa a quella del Santo Fondatore, così come la maternità della Chiesa è indissolubilmente connessa a quella di Maria.

Alla Vergine Santa rivolgiamo, allora, la nostra preghiera, dal momento che, come ebbe a dire il Cottolengo, «se non ci fosse questa buona Madre, che cosa ne sarebbe di noi poveretti?» (cf. Nora cit., 317). Nella prospettiva della prossima beatificazione di Maria Carola Cecchin, ripetiamo la supplica che San Giuseppe Benedetto Cottolengo raccomandava: «Vergine Maria, Madre di Gesù, fateci santi!» (Nora cit.,  232).

 

Cottolengo - Piccola Casa della Divina Provvidenza, Torino 14 maggio 2022

 

Marcello Card. Semeraro