Omelia nel 50° anniversario della rinascita del beato Giacomo Alberione

Cristo, via, verità e vita

Omelia nel 50° anniversario della morte del beato Giacomo Alberione

 

    1. A cinquant’anni dal suo transito da questo mondo al Cielo torniamo oggi a celebrare la memoria liturgica del beato Giacomo Alberione con un rito che, anche nella persona del Superiore generale e delle Superiore generali, vede simbolicamente raccolta attorno a lui la Famiglia che in lui riconosce il fondatore, il padre, l’ispiratore. L’avere voluto e realizzato il trasferimento dell’urna del Beato – una scelta cui volentieri la Congregazione delle Cause dei Santi ha dato il suo assenso – è in qualche modo gesto che esprime il presente momento «giubilare» (è stato celebrato, infatti, uno speciale «anno biblico») e mette in luce la ragione per cui la Chiesa porta all’onore degli altari alcuni suoi figli e figlie: perché tutti i fedeli, guardando alla loro esemplare testimonianza, si sentano incoraggiati all’imitazione di Cristo (cf. Francesco, Gaudete et exsultate, n.5). Ed io sono ben lieto di essere oggi presente in questo Santuario, con voi raccolto attorno alla mensa del Signore.

    Due, in particolare, sono le ragioni che sottendono alla mia gioia interiore. La possibilità, anzitutto, di testimoniare, in quanto vescovo emerito di Albano, la mia gratitudine alla Famiglia paolina. La Diocesi Suburbicaria di Albano, pur non essendo stata la Chiesa d’origine del nostro Beato, è fra quelle che con più abbondanza, per la presenza di persone ed opere, ha fruito e gode del suo carisma di Fondatore. Espressione potrebbe esserne la contiguità architettonica tra il Seminario Diocesano, la Casa della Società San Paolo, oggi centro di formazione, e l’Ospedale Regina Apostolorum delle Figlie di San Paolo. Ciò senza parlare – giacché lungo davvero sarebbe – della feconda collaborazione pastorale coi diversi Istituti di cui sono stato testimone diretto negli anni belli intensi che lì vissuto.

    C’è, però, un altro elemento che desidero esprimere e questo è più intimo e personale: si tratta della vocazione al ministero sacerdotale, che mi è sorta ed è cresciuta pian piano negli anni ’50 del secolo passato anche trotterellando accanto a un prete che, passando da una porta all’altra del mio paese, diffondeva Famiglia Cristiana. Il «pacco» del settimanale, ovviamente, lo trasportavo io! Allora non capivo, ma oggi so che don Alberione intendeva la propaganda a domicilio come «la più efficace e molto spesso la più meritoria». Diceva: «Si è qui come nel campo delle missioni. Se il missionario non va lui stesso in cerca delle anime per portarle a Cristo, esse generalmente non lo cercano. Così, se l’apostolo non portasse direttamente il buon libro, il buon giornale, moltissimi non lo riceverebbero, perché non lo cercano».

 

    2. I motti cristologici di don Alberiore: quante volte li ho veduti nelle cappelle delle vostre Case! Il più importante, però, anzi il fondamentale è l’Io sono la via, la verità e la vita pronunciato da Gesù. Qui per il beato Giacomo Alberione c’è «l’anima della pietà paolina». Essa, pertanto, dovrà sempre essere «nutrita con lo studio di Gesù Cristo Divino Maestro, che è «Via, Verità e Vita». Anzi, proprio perché innestato su Cristo, l’uomo «deve elevare e portare a nuovi frutti la sua mente, il sentimento, la volontà». Sono citazioni – come le altre che farò in seguito – da testi di don Alberione.

    Questa sequenza: Via, Verità e Vita noi l’abbiamo ascoltata dalla proclamazione del Santo Vangelo il cui contesto, lo sappiamo, è il primo discorso di commiato del Signore nell’ultima cena. Così Gesù sintetizza la sua funzione di mediazione, ossia di via al Padre. Egli lo è in quanto verità, cioè sua rivelazione sicché, quando gli uomini giungono alla conoscenza di Cristo, conoscono il Padre e quando vedono lui vedono il Padre; lo è in quanto vita, perché egli vive nel Padre e il Padre vive in lui ed è attraverso di lui che agli uomini giunge la vita del Padre. Verità e vita, dunque, non sono autonome da Gesù, né sono semplici aggiunte al suo essere la via, il mediatore unico verso il Padre. Gesù non è un maestro dal quale possiamo allontanarci dopo avere imparato qualcosa, né una sorgente di vita cui ci abbeveriamo soltanto quando ne sentiamo il bisogno. Sempre abbiamo bisogno di Cristo; sempre egli ci è necessario. Nella tradizione della Chiesa, poi, la sequenza via, Verità e Vita sarà variamente spiegata. Un bel commento che ci giunge da san Beda, ricorda che Cristo è via quaerentibus, veritas invenientibus, vita permanentibus: per chi è in ricerca è una via sicura; per chi lo trova è la verità ed è sorgente di vita per chi stabilisce in lui la sua dimora (In Evangelium S. Ioannis XII: PL 92, 800).

 

    3. Secondo don Alberione nell’affermarsi via, verità e vita Gesù «sintetizzò tutto ciò che Egli è per noi» e in questa frase c’è la sintesi di tutta la religione, di tutto l'amore, di tutto ciò che l’uomo deve a Dio «con la mente, con la volontà, con il cuore». Questo egli lo scriveva il 30 giugno 1933 come prefazione a un libro di don Costa. Mi torna, allora, alla memoria una famosa espressione di sant’Ambrogio: Omnis anima accedat ad eum … «Ognuno si avvicini a Cristo, per quanto afflitta da colpe materiali, oppure bloccata dalla cupidigia del mondo, ed anche imperfetta, oppure desiderosa di progredire ed anche già perfetta nelle virtù: omnis in Domini potestate est, et omnia Christus est nobis. Ciascuno di noi appartiene a Cristo e Cristo è tutto per noi! (De virginitate XVI, 99. PL 16, 291). Questa frase ambrosiana diede spunto a G.B. Montini per la sua prima lettera pastorale alla Chiesa di Milano e ispirò una sua stupenda preghiera: O Cristo, Tu ci sei necessario!

    Ho citato volutamente san Paolo VI perché è noto l’elogio che egli tenne del nostro Beato in un incontro durante il quale paragonò la Famiglia paolina ad un «albero fiorente con otto rami». Indicando don Alberione, lo descrisse «sempre intento a scrutare “i segni dei tempi”, cioè le più geniali forme di arrivare alle anime», disse. Ed è sul valore di questa testimonianza che vorrei aggiungere qualche annotazione. Paolo VI sceglieva le parole con attenzione finissima. Laddove, però, il Vaticano II parlava di lettura dei segni dei tempi il Papa usò il verbo scrutare che indica qualcosa di più. Scrutare dice un esame attento, fatto con uno sguardo accurato; scrutare vuol dire riuscire a vedere ciò che a prima vista non appare. Significa anche sapere guardare e vedere lontano. Mi sorge, allora, una domanda: è possibile vedere nella sequenza Via, verità e vita qualcosa d’importante per il nostro tempo? Per questo nostro cambiamento d’epoca, come lo indica Papa Francesco? È possibile, nella luce di Cristo via, verità e vita, scrutare il nostro tempo per scorgevi una vocazione rinnovata, una chiamata ancora più radicale?

    Io non sono in grado di dare risposte perché, come direbbe il profeta Amos, «non sono profeta, né figlio di profeta…» ( 7,14). Ricordo, però, ciò che in un’intervista disse il p. Adolfo Nicolás Pachón, che dal 2008 al 2016 fu preposito generale della Compagnia di Gesù. Riassumo: «Cercando di rispondere alla domanda sul perché così pochi giapponesi si facessero cristiani, un vescovo giapponese era solito dire: “Gesù ha detto: Io sono la Via, la Verità e la Vita. La maggior parte delle religioni asiatiche sono religioni o spiritualità della Via: scintoismo, confucianesimo, buddismo, kendo, aikido, eccetera, ma la maggior parte dei missionari occidentali sono venuti a predicare e a parlare della Verità». In sostanza non c’è stato vero incontro con il Giappone. Quanto più viaggio in giro per il mondo, tanto più penso che quel vescovo avesse ragione: l’Asia è la Via; l’Europa e gli Usa si preoccupano della Verità; l’Africa e l’America Latina sono Vita e mantengono vivi i valori (amicizia, famiglia, bambini ecc.) che in altre parti del mondo abbiamo dimenticato … La sfida, per noi cristiani, è che abbiamo bisogno di tutti, di tutte le sensibilità di tutti i Continenti, per raggiungere la pienezza di Cristo, che è anche la pienezza della nostra umanità ...» (ne La Civiltà Cattolica, quaderno 3989 pag. 379).

    Ecco, in don G. Alberione ci fu, a motivo di Cristo, proprio quest’ansia di raggiungere l’uomo e proprio la sua scelta della «comunicazione» ne fu l’espressione tangibile, e questo – magari per ripetere un filosofo contemporaneo – fu per lui il tradurre l’ego sum di cartesiana memoria con l’ego cum, ossia col sapersi, pensarsi e volersi in relazione con gli altri: cosa che è ben più dell’essere «connessi», come oggi si dice, perché consiste nel volersi coinvolti in un dono reciproco e tutto questo a partire dall’essere viandanti su quell’unica Via che è Cristo.

    «Cristo vive in me» è il grande insegnamento di Paolo, che il beato Giacomo Alberione ha appreso e voluto trasmettere sicché l’autoaffermazione di Gesù via verità e vita fu per lui il riconoscimento dell’influsso di Cristo sull’uomo, su ogni uomo e su tutto l’uomo. Descrivendo l’anima della pietà paolina egli scriveva: «Gesù Verità opera sulla mente e conferisce la fede; Gesù Cristo è Via ed opera nella volontà, che si conforma alla volontà di Dio; Gesù Cristo è Vita ed opera sul sentimento portando una vita soprannaturale. Che se questo innesto è assecondato pienamente dal cristiano, questi potrà dire: vivit vero in me Christus (Gal 2,20)».

 

    Santuario Santa Maria Regina degli apostoli – Roma 26 novembre 2021

 

Marcello Card. Semeraro