Da Maria impariamo ad aprire alla gioia
Omelia nel 150° anniversario dell’incoronazione della sacra immagine della Madonna dell’Arco
Saluto tutti con sincera fraternità, a cominciare dal Rev.mo P. Francesco Ricci, priore provinciale di questa Provincia di «San Tommaso d’Aquino» e dal P. Gianpaolo Pagano, priore e rettore di questo celebre e venerato Santuario con l’intera Comunità Domenicana. Dico subito la mia gratitudine al Santo Padre, che mi ha affidato l’incarico di suo Inviato Speciale per rivivere oggi con voi tutti il gesto di onore e di amore alla Vergine Maria, già voluto dal Beato Pio IX 150 anni or sono con l’incoronazione della santa Immagine.
C’è un aforisma che nel suo Trattato della vera devozione a Maria (1712ca) san Luigi Maria Grignion de Montfort trascrisse con caratteri tutti maiuscoli e dice così: de Maria numquam satis, «di Maria non si dice mai abbastanza» (cf. Introd., 10). Prima di lui, nei suoi Discorsi a tavola lo stesso Lutero, non aveva esitato a dichiarare che «la creatura Maria non può essere mai abbastanza lodata». Ma cosa può davvero significare questa espressione? Io penso che per capirla bisogna mettersi dalla parte di Gesù, che dice alla Mamma tutto il suo amore. Nell’immagine che qui veneriamo Maria ha il Bambino sulle ginocchia; egli, però, guarda a noi e sembra volerci dire: ama la mia Mamma, come io la amo! Noi, a nostra volta, invochiamo Maria con le parole di un’antica preghiera: «Amami come madre, proteggimi come regina, solleva i miei dolori, o Misericordiosa».
Mettiamoci, adesso, in meditazione sul racconto delle nozze di Cana, che abbiamo udito durante la proclamazione del Vangelo. Possiamo distinguervi tre momenti. Anzitutto quello della festa, quando arrivano gli amici invitati, sono celebrate le nozze e inizia il banchetto. Anche a tanti di noi è sicuramente accaduto di partecipare a simili momenti di amicizia e di gioia ed è bello osservare e la felicità che traspare dai volti di tutti: degli sposi, dei parenti, degli amici che si ritrovano.
C’è poi il secondo momento, ch’è quello della crisi: «non hanno vino» è la costatazione che la Madre comunica a Gesù. È crisi perché nella tradizione orientale e anche nella nostra mediterranea, il vino non è una semplice bevanda: «rallegra il cuore dell’uomo» dice un Salmo (104,15). Noi, considerando l’uso di Gesù nell’Ultima Cena, sappiamo pure che il vino è segno di «alleanza». Con la mancanza del vino, allora, sono a rischio la gioia, l’amicizia, la comunione: per questo ho parlato di crisi.
Il terzo momento, infine, è quello della gioia ridonata. Gesù muta in vino l’acqua contenuta nelle sei anfore di pietra e l’evangelista commenta: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Vuol dire che il momento della gioia restituita dà spazio alla prima espressione comunitaria della fede cristiana. La fede cristiana scaturisce, come fiore che si apre sotto i raggi del sole, davanti allo stupore della gioia ritrovata: «Tu hai conservato fino ad ora il vino buono!».
C’è stato chi, confrontando la fede ebraica con quella cristiana, ha sottolineato che mentre questa ha come punto di partenza il dramma di una morte sulla Croce, la fede ebraica ha per origine l’umorismo e il riso. Il riferimento è alla storia della nascita di Isacco. Il racconto si legge nel capitolo 18 del libro della Genesi: Abramo è ormai centenario e Sarah, sua moglie, sterile da sempre, è anche lei molto avanti negli anni. Giunge, però, una visita misteriosa e Abramo si apre all’ospitalità; ne riceve in cambio la promessa di un figlio il cui nome Isacco significa, appunto, «colui che rise».
A parte questo, non è proprio vero che la storia cristiana cominci con una storia di morte. Inizia, piuttosto, con l’accoglienza gioiosa di una donna che divenuta Madre canta: «L’anima mia magnifica il Signore» (Lc 1,46). È vero, però, che per troppo tempo noi abbiamo dato alla nostra fede un’impronta sacrificale e dolorifica. Anche alcune forme di spiritualità – non soltanto del passato – sembrano davvero troppo sbilanciate sulla dimensione della rinuncia, quasi della ricerca del dolore… Un filosofo tedesco dell’800, F. Nietzsche, ci ha lasciato una domanda molto provocatoria in proposito: «Se Cristo è risorto, perché siete così tristi? Voi cristiani non avete un volto da persone redente». Ancora oggi, però, Papa Francesco ci avverte: «Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte le tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto. Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie» (Evangelii gaudium, n. 6). Ecco perché è importante sottolineare la finale del racconto di Cana. La prima nostra risposta alla parola di Gesù e la nostra prima reazione per la vicinanza con lui dovrebbe essere la gioia.
C’è poi un altro aspetto che mi sembra utile sottolineare ed è che Gesù non sostituisce il vino che c’era prima; quel vino, anzi, lo ha gustato anch’egli nell’amicizia. Gesù interviene quando l’altro vino è finito ed è allora che egli ne dona uno «nuovo», che desta meraviglia e lode per il suo sapore. Vuol dire che per affermare la verità cristiana non è necessario denigrare le realtà terrene e misconoscere le semplici e vere gioie umane. Su questo punto la costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II ha lasciato sin dalle prime espressioni cose che sarà utile rileggere: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». L’intervento di Gesù, però, porta la gioia umana al suo vero e pieno compimento. «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena», dice il Signore (Gv 15,11).
Qual è, in tutto questo, il ruolo della Vergine Maria? Mi piace considerarlo alla luce di quanto scrive san Paolo di se stesso: «siamo collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24). È proprio questo che ha fatto Maria: a Cana ha cooperato al dono del vino nuovo e lo ha fatto in tre modi: con la sua materna intuizione dell’insorgente bisogno, con la sua intercessione presso il Figlio e col suo incoraggiamento ai servi: «fate quello che Egli vi dirà». Il ministero di Maria deve essere anche il nostro: cooperare alla gioia e non all’afflizione dei nostri fratelli!
Cosa fa, una mamma, se vede il suo bambino, o la sua bambina piangere? Si avvicina e asciuga le lacrime e, se il pianto continua, mette la mano sotto il meno per sollevarle il volto e invitare al sorriso. Questo vuol dire aprire alla gioia. Impariamolo dalla Madonna.
Santuario della Madonna dell’Arco - Sant’Anastasia (NA), 8 settembre 2024
Marcello Card. Semeraro