Omelia nel X ann. della morte della Venerabile Enrichetta Beltrame Quattrocchi

 

LA MISERICORDIA RENDE PROSSIMI

Omelia nel X ann. della morte della Venerabile Enrichetta Beltrame Quattrocchi

 

Siamo qui, carissimi, perché in questo giorno – il «giorno del Signore» – la famiglia di Dio si riunisce per ascoltare la sua Parola e partecipare all’Eucaristia, facendo così memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e rendendo, per questo, grazie a Dio (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 106). Questo ritrovarci non è un precetto, per noi, ma un bisogno. Sine Dominico non possumus , risposero i santi martiri africani al procosole che domandava loro di rinunciare alla messa domenicale (cf. Acta sanctorum martyrum Saturnini… XI: PL 8, 711). Per il cristiano, la partecipazione alla Messa domenicale e l’Eucaristia sono una necessità come Cristo stesso è una necessità! Omnia habemus in Christo, esclamava sant’Ambrogio e completava: Omnia Christus est nobis (De virginitate XVI, 99: PL 16, 291). Tutto abbiamo in Cristo e Cristo è tutto per noi.

C’è un’altra ragione per la quale noi siamo qui radunati ed è per ricordare il decimo anniversario della morte della Venerabile Serva di Dio Enrichetta Beltrame Quattrocchi, il cui corpo è deposto in questa splendida, antica basilica romana di santa Prassede. Anche iI nome di questa Venerabile ci fa tornare spontaneamente alla memoria la parola famiglia: ella, infatti, fu, come ben sapete, la figlia ultimogenita di due coniugi: Luigi e Maria, che furono beatificati da san Giovanni Paolo II il 21 ottobre 2001. Lei stessa visse gran parte della sua missione all’interno della famiglia e questo ci fa venire alla mente qualcosa di molto importante, oggi: ossia la consapevolezza che la famiglia non è soltanto luogo dove divenire santi, ma anche lo «strumento», il mezzo, la via per diventare santi; per la santificazione degli sposi e degli altri membri di una famiglia, come ha scritto Papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate: «ci sono molte coppie di sposi sante, in cui ognuno dei coniugi è stato strumento per la santificazione dell’altro» (n. 141). Poco più avanti il Papa indicava nella Santa Famiglia l’esempio più alto: la «comunità santa che formarono Gesù, Maria e Giuseppe, dove si è rispecchiata in modo paradigmatico la bellezza della comunione trinitaria» (n. 143). Ecco, allora, una prima riflessione che emerge da questa nostra Eucaristia domenicale: la famiglia come via di santità.

Una seconda riflessione mi viene da una simpatica auto-definizione della Venerabile Enrichetta che è riportata anche dal Decreto sulle virtù: «Con somma umiltà soleva definirsi “un mestolino” nelle mani di Dio, cioè un piccolo strumento con cui potesse essere attinto e distribuito l’amore smisurato di Dio». L’immagine ci dice qualcosa su come la nostra Venerabile vedeva se stessa e su come vedeva Dio: per sé la consapevolezza della pochezza e della povertà; per Dio la lode per la infinita misericordia. Il modello noi possiamo trovarlo in Maria, la quale nel suo Magnificat dichiara la sua piccolezza («ha guardato l’umiltà della sua serva») e confessato la grandezza di Dio («Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente»). È questa la storia della santità: la storia dell’opera di Dio. Ciò che di bello e di santo ci giunge dalla vita dei santi e delle sante del cielo è in ogni modo attinto dall’infinita fonte di grazia che è Cristo. I santi e le sante sono simili a cisterne, dove si raccoglie l’acqua; la sorgente, però, è sempre e solo da Cristo. In questo senso la nostra Venerabile era un «mestolino di Dio».

Adesso, però, è doveroso prestare la dovuta attenzione alla pagina del Santo Vangelo, che la Chiesa oggi ci ha dato da leggere. Si tratta della ben nota parabola del buon Samaritano. La risposta del dottore della Legge alla domanda di Gesù fu certamente una buona risposta. Aveva collegato, infatti, Deut 6,5, che è la grande preghiera Shema Israel recitata ogni giorno dal pio ebreo con Lev 19:18: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». L’amore verso Dio e l’amore per il prossimo risultano così strettamente associati, al punto di non potere più essere dissociati, sicché san Giovanni scriverà: «Chi non ama il proprio fratello, che vede, non può amare Dio, che non vede» (1 Gv 4,20). Capiamo, così, che la fede non ci isola dal mondo e dalle persone, ma, al contrario, ci spinge verso di loro; che la fede non si vive solo nei momenti di preghiera e che, anzi, si verifica nella carità.

Quanto alla domanda circa il «prossimo», però, Gesù opera un vero capovolgimento: prossimo non è affatto chi mi è vicino, ma colui al quale io mi rendo vicino! Si tratta, allora, di sapere e individuare di chi io sono il prossimo e di interrogarmi sulla misura della mia carità. Non è più l’altro che è il mio prossimo, ma sono io che devo diventare il prossimo dell’altro.

Pensiamo, poi, anche a cosa potesse significare sulle labbra di Gesù quel rovesciamento di prospettiva: il samaritano in quel momento era ritenuto un estraneo, un eretico; ma è proprio quello che Gesù ci dà come esempio! La parabola di Gesù diventa così una vera e propria provocazione sulle possibilità del cuore dell’uomo! Il bene può giungerci da chiunque, perfino da chi noi riteniamo un estraneo, un avversario! È la carità a renderci «buoni»; è la carità a renderci «prossimi». «Non il sangue, ma la misericordia rende prossimi», diceva sant’Ambrogio e sant’Agostino ripeteva: «Tuo prossimo è colui al quale tu fai misericordia», aggiungendo: «Se l’estraneo Samaritano, manifestando misericordia e soccorrendo, è divenuto prossimo, chiunque non ti soccorre nelle tribolazioni diventa tuo estraneo» (Exp. Ev. sec Lucam VII, 84: PL 15, 1720; Enarr. in Psalmos 48/1, 14: PL 36, 553). Ed è con grata sorpresa che, scoprendoci, a nostra volta, oggetto della misericordia di Dio, scopriamo che il nostro primo prossimo è proprio Lui, il Signore.

 

Basilica Santa Prassede – Roma, 10 luglio 2022

Marcello Card. Semeraro