Omelia nell’adorazione eucaristica “Rivestiti di Cristo” – XVIII Assemblea Nazionale ACI

 

Quale santità per l’uomo di oggi

Omelia nell’adorazione eucaristica “Rivestiti di Cristo” – XVIII Assemblea Nazionale ACI

 

1. Concludendo il discorso rivolto ieri a tutti voi, radunati in circa sessantamila in p.za san Pietro per l’Udienza a voi riservata, papa Francesco ha accennato al tema della sinodalità. Ha detto che «c’è bisogno di uomini e donne sinodali, che sappiano dialogare, interloquire, cercare insieme». Per il nostro incontro, poi, di questa sera è stato ricordato in principio che la nostra preghiera «si arricchisce della compagnia dei santi, donne e uomini che con le parole e l’esempio ci aiutano a indossare la nostra dignità battesimale».

È proprio questo, che san Giovanni Crisostomo intendeva quando predicava a che nome della Chiesa è «sistema e sinodo». Alludeva a un’assemblea non casuale, né disomogenea e disordinata, ma ad un coro in cui alla voce degli angeli e dei santi si unisce quella della Chiesa sulla terra per formare un tutt’uno a lode di Dio. Lo diceva commentando il Salmo 149, che inizia: «Cantate al Signore un canto nuovo; la sua lode nell’assemblea dei fedeli» (v.1).

Il canto, spiegava il Crisostomo, deve anzitutto essere «nuovo», perché il rendimento di grazie prima che nelle parole deve essere espresso nei fatti. Come, difatti, nell’arte della musica si richiede che si abbia una voce buona intonata prima di far parte di un coro, così nella lode di Dio non bastano le sole parole, ma è necessaria una vita virtuosa. La Chiesa poi non è un canto a una sola voce, ma un concerto dove ci sono molte voci che cantano in forma armonica (Cf. Exp. in Ps. 149, 1: PG 55, 493).

È quanto noi ci impegniamo a fare in ogni celebrazione dell’Eucaristia quando, come conclude ogni Prefazio, «il cielo e la terra si uniscono in un cantico nuovo di adorazione e di lode» e noi «uniti agli angeli e ai santi, cantiamo a una sola voce» la gloria di Dio. È quello che ci ricorda il Papa nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate di cui abbiamo ascoltato insieme alcuni passaggi. «Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza…». Riflettiamo per qualche momento. Possiamo tradurre che la santità è un «coro»; in essa ciascuno ha una propria voce, ma tutti siamo chiamati a essere santi!

L’universale vocazione alla santità fu la riscoperta del Concilio Vaticano II (cf. Lumen gentium, cap. 5). L’affermazione è antica. Già sant’Ambrogio paragonava la Chiesa a un giardino dove fioriscono molte specie di piante: le viole dei confessori, i gigli delle vergini, le rose dei martiri (cf. In Cant. Cantic. II, 3: PL 15, 1871). Più noto, penso, è ciò che scriveva san Francesco di Sales ne l’Introduzione alla vita devota, ossia che sarebbe una eresia «pretendere di eliminare la vita devota dalla caserma del soldato, dalla bottega dell’artigiano, dalla corte del principe, dall’intimità degli sposi» (I, 3). Certe cose, però, si dimenticano ed allora è necessario. In Gaudete et exsultate nelle righe scritte immediatamente prima di quelle che sono state lette Francesco dice: «Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così…».

2. Nel mio servizio di Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi mi accade spesso di chiedermi: «Di quale tipo di santi ha oggi bisogno la Chiesa?». Me lo chiedo spesso, perché sempre più spesso mi torna alla memoria la distinzione che faceva H. U. v. Balthasar tra santità abituale e santità rappresentativa. Ci sono, diceva, santi e sante che sono come fiori che lo Spirito fa sbocciare e che la Chiesa presenta a Dio come le proprie primizie e questa è la santità abituale, vie di santità che dal corpo di Cristo salgono verso il Capo. Ci sono, poi, missioni di santità che «piombano sulla Chiesa come dei fulmini celesti, in quanto devono farle conoscere una volontà unica e irripetibile di Dio nei suoi confronti». Conclude: «poiché è più importante che la Chiesa assecondi i desideri di Dio e non viceversa, per essa è anche più importante cercare attentamente e accogliere quei santi che egli chiaramente senza ombra di dubbio le invia…» (Sorelle nello Spirito, Milano 1991, p. 26-27). Ecco il senso della mia domanda! Certo, come abbiamo ascoltato dalle parole del Papa, «ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (n. 19). Qui, però, si tratta di rispondere alla domanda: questo momento determinato della storia che noi stiamo vivendo, di cosa particolarmente ha bisogno?

In un’intervista rilasciata a La Civiltà Cattolica il Card. Matteo Zuppi, arciv. di Bologna e Presidente della CEI, ha detto: «Dobbiamo chiederci perché la Chiesa riesce a comunicare troppo poco, tanto che è identificata con un sistema di regole morali del quale però non spieghiamo il contenuto: insistiamo sulla lettera, ma non sappiamo spiegarne lo spirito. Insomma, una Chiesa poco attrattiva e poco vicina alle scelte delle persone, in un contesto individualista e nichilista». E poco più avanti: «Facciamo fatica a essere creativi. Forse non dobbiamo nemmeno esserlo, ma certamente almeno dobbiamo credere di più che il Vangelo genera vita e la cambia molto più di quello che noi immaginiamo! Ma dobbiamo viverlo e comunicarlo!» (La Civiltà Cattolica 2024/ I [quad. 4167], 280.281).

Anche il nostro quotidiano Avvenire ha avviato un dibattito sulla questione. Fra gli intervenuti, ad esempio, Agostino Giovagnoli parla di una inadeguatezza dei cattolici in Italia nel tradurre in riflessioni scientifiche, produzioni letterarie, creazioni artistiche ecc. capaci di entrare in dialogo con le culture le sollecitazioni che giungono da papa Francesco, quando parla di guerra o di emigrazioni, di attenzione ai poveri e di orientamento alla carità (cf. Avvenire del 14 aprile 2024, p. 19). Si tratta di provocazioni che hanno certamente a che fare con la santità, se è vero, che «la speranza escatologica non diminuisce l’importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell’attuazione di essi» (Gaudium et spes, n. 21).

3. Carissimi amici dell’ACI, la vostra è una associazione laicale e tra voi ci sono santi che in questo vi sono di stimolo. Farò solo alcuni nomi; nomi – cito ancora il Papa nel discorso di ieri – «di gente forgiata dallo Spirito, di “pellegrini di speranza”, come dice il tema del Giubileo ormai vicino, uomini e donne capaci di tracciare e percorrere sentieri nuovi e impegnativi».

Ecco, allora Armida Barelli. Il 30 aprile del 2022, presiedendo a Milano il rito per la sua beatificazione, citai queste parole del Messaggio della CEI: «… agendo anche sul piano sociale per la valorizzazione femminile, Armida fu promotrice di un cattolicesimo inclusivo, accogliente e universale. Nella stagione del ritorno alla democrazia nel nostro Paese dopo la devastazione della guerra, spronava le donne, per la prima volta chiamate al voto, a “capire quali sono i principi sociali della Chiesa per esercitare il nostro dovere di cittadine” perché “siamo una forza, in Italia, noi donne”».

Il 29 aprile di dieci anni prima era stato proclamato beato Giuseppe Toniolo, chiamato l’economista di Dio. Quella domenica, nella preghiera del Regina caeli il papa Benedetto XVI disse che il suo messaggio «è di grande attualità, specialmente in questo tempo: il Beato Toniolo indica la via del primato della persona umana e della solidarietà. Egli scriveva: “Al di sopra degli stessi legittimi beni ed interessi delle singole nazioni e degli Stati, vi è una nota inscindibile che tutti li coordina ad unità, vale a dire il dovere della solidarietà umana”».

Questa sera, da ultimo, vorrei ricordare in particolare il beato Piergiorgio Frassati, la cui canonizzazione ormai si profila per il prossimo anno giubilare. Nell’Omelia per il rito della sua beatificazione, avvenuta il 20 maggio 1990, san Giovanni Paolo II lo chiamò uomo delle Beatitudini; disse pure che «nell’Azione Cattolica egli visse la vocazione cristiana con letizia e fierezza e s’impegnò ad amare Gesù e a scorgere in lui i fratelli che incontrava nel suo sentiero o che cercava nei luoghi della sofferenza, dell’emarginazione e dell’abbandono per far sentire loro il calore della sua umana solidarietà e il conforto soprannaturale della fede in Cristo».

Al termine il Papa riassunse così la giornata terrena del beato Piergiorgio: «Tutta immersa nel mistero di Dio e tutta dedita al costante servizio del prossimo». In queste parole mi pare di risentire quelle con le quali san Gregorio magno descrive il compito del pastore nella Chiesa, ch’è poi anche il dovere di ogni cristiano: singulis compassione proximus, prae cunctis contemplatione suspensus…, «vicino a ciascuno nella condivisione del dolore, ma più di ogni altro dedito alla contemplazione per essere capace di farsi carico con sentimenti di misericordia delle sofferenze di tutti…» (Reg. Past. II, 5: PL 77, 32).

Che meraviglioso modello di vita cristiana! Ieri, nel suo discorso a voi rivolto, papa Francesco ha sottolineato che «la vostra vita associativa, che è multiforme e trova il denominatore comune proprio nell’abbraccio della carità». E non è stata così la vita terrena di Piergiorgio? C’è una domanda che in una sua opera intitolata Nuovi ritratti di santi.2 (Milano 2016) Antonio Sicari si pone proprio riguardo a lui ed è questa: come mai la terra ove egli visse, che pur sul finire dell’800 fu così ricca di «santi sociali» (fra i quali è annoverato oggi lo stesso Piergiorgio) è oggi così scristianizzata? Cosa è accaduto? La domanda vale per tutto il nostro Paese. Vi accennavo prima.

Sicari ritiene che una risposta la si possa trovare in Piergiorgio Frassati. Nella sua santità, dice, c’è un valore di continuità con la tradizione della sua terra: egli, infatti, si è innestato nel lavoro di difesa della fede, attraverso la carità profusa nel campo dell’emarginazione, prodotta dall’allora nascente contesto industriale. C’è pure, tuttavia, un elemento di novità ed è il fatto di avere cercato di confrontare il valore della fede con tutto l’arco dell’esperienza umana, operando caritatevolmente in ogni ambito: negli ambienti dell’università, del lavoro, della stampa (Pier Giorgio raccoglieva abbonamenti non per il quotidiano di suo padre, ma per quello cattolico), dell’impegno politico e partitico, e dovunque era necessario difendere le libertà sociali, cercando sempre di concepire e fomentare l’associazionismo, come amicizia cristiana destinata alla nascita di un cattolicesimo sociale.

È questa la risposta giusta? Ieri, concludendo la sua allocuzione e alludendo pure alle ragioni della vostra XVIII Assemblea Nazionale, richiamando Rm 12,10 il Papa vi ha augurato di vivere queste esperienze «come momenti di comunione, momenti di corresponsabilità, momenti ecclesiali, in cui contagiarsi a vicenda con abbracci di affetto e di stima fraterna».

Nella sua opera Chi crede non è un essere borghese, Jean de Saint-Cheron riferisce questo aneddoto: a Gerard Manley Hopkins, un gesuita e poeta inglese vissuto nel 1800, fu chiesto: come fare per credere in Dio? Hopkins si limitò a rispondere: faccia l’elemosina! (ed. LEV, 2023, p. 186).

 

Fraterna Domus – Sacrofano (RM), 26 aprile 2024

 

Marcello Card. Semeraro