Omelia nell’ordinazione episcopale di Mons. Gualtiero Isacchi

 

Cristo è la gioia

Omelia nell’ordinazione episcopale di Mons. Gualtiero Isacchi

 

Abbiamo appena ascoltato la parola di Gesù: una parola bella, confortante, che ci apre il cuore: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Nella pagina del vangelo che è stata proclamata, questa parola – gioia – è collegata a temi diversi, ma convergenti: conoscere ed essere conosciuti, amare ed essere amati, ascoltare ed essere ascoltati, essere scelti come amici ed essere mandati per fruttificare.

«Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». È più che una promessa; è un dono e anche un incoraggiamento, poiché, poco più avanti, Gesù dice: «Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv 16,24).

È con questa certezza che tu, carissimo Gualtiero, ti sei avviato sulla nuova strada che la Santa Chiesa ti ha aperto, chiamandoti al ministero episcopale. Gaudium Christus est, è la frase che hai scelto come tuo motto. Essa ci giunge da sant’Ambrogio[1] ed è espressione bellissima perché fa della gioia non un sentimento, ma una persona: Cristo! Ambrogio era un vescovo innamorato di Cristo. Diceva: «Cristo è tutto per noi. Se hai bisogno di cura perché sei ferito, egli è il medico; se hai sete, egli è una sorgente d’acqua; se ti senti gravato dalla cattiveria, egli è la giustizia; se hai bisogno d’aiuto egli è la forza; se le tenebre ti circondano egli è la luce; se cerchi il cibo egli è il tuo alimento». Omnia Christus est nobis.[2]

Risentile, oggi, per tuo conforto, mio carissimo, nell’ora in cui inizi una nuova avventura cristiana... L’avventura di un povero cristiano![3] Ad applicarle esplicitamente a un vescovo c’è un antico testo medievale, che ti traduco: «Tu sei sacerdote in eterno e dunque la tua mensa sia Cristo, la tua gioia sia Cristo, il tuo pensiero sia Cristo, il tuo desiderio sia Cristo, la tua lectio sia Cristo, la tua quiete sia Cristo».[4]

Gaudium Christus est. La tua gioia sia quel Cristo, che ci guarda dall’alto dell’abside di questa meravigliosa Basilica cattedrale. Egli guarda tutti noi, guarda la Chiesa e l’abbraccia con la sua maestà regale. Abbi in te i medesimi sentimenti che, inaugurando il secondo periodo del Concilio Vaticano II, ebbe San Paolo VI, da qualcuno preconizzato «dottore del mistero di Cristo».[5] Disse: «quando davanti ai nostri occhi attoniti e trepidanti vediamo stagliarsi Gesù, imponente di quella grandiosa maestà di cui rifulge il Pantocratore, allora facciamo nostre le parole della Sacra Liturgia: “Riconosciamo solo te, o Cristo; – con mente pura e semplice – ti chiediamo piangendo e cantando: – Ascolta le nostre invocazioni!”» (cf. Allocuzione del 29 settembre 1963, n. 5). Fa’ così anche tu, carissimo Gualtiero: ogni volta che da qui solleverai lo sguardo verso il Pantrocratore che risplende nell’oro, guardalo con occhio supplice e umile. Te Christe solum novimus.

Gaudium Christus est. Tra le mani, Egli ha il libro dov’è scritto: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). Nel linguaggio del quarto evangelista luce è termine affine alla parola gioia e anche ad altre come pace e verità. Ciascuna di esse riflette un aspetto diverso dell’unico, grande dono che in Gesù il Padre ci offre.

Gaudium Christus est, così come Egli è la nostra pace, la verità, l’Amen di Dio (cf. Ef 2,14; Gv 14,6; Ap 3,14). Ce lo ricorda Papa Francesco fin dall’inizio del suo ministero petrino: «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (Ev. Gaud, 1). Da tutti noi vadano ora un pensiero e una preghiera per il Papa.

Ogni dono di Cristo è missione per noi. Sorge da qui il dovere di comunicare agli uomini la nostra gioia di essere cristiani, come Egli ha comunicato a noi la sua gioia. Facile a dirsi! Come è possibile conservare la gioia quando si è immersi nelle preoccupazioni, nelle ansietà, nell’accavallarsi dei problemi? Come può essere nella gioia un vescovo nell’esercizio del suo ministero ordinario? Quante volte non gli accade di sentirsi quasi accerchiato dai problemi, dalle preoccupazioni, dalle ansie? È stato così fin dal principio. Scriveva san Paolo ai Corinti: «Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2Cor 11,29).

C’è ancora chi, nelle sue piccole ambizioni, s’illude che l’essere vescovo consista nell’avere in capo una mitria, nell’indossare la talare paonazza, o una veste filettata… Tu, invece, carissimo Gualtiero, che per tanti anni mi sei stato fedele, intelligente e provvido collaboratore, sai che non è così. Insieme con gli altri collaboratori della Curia diocesana, cui va la mia gratitudine, mi sei stato accanto in tanti momenti di progettualità, di scelte, di decisione.

Un vescovo non può governare isolatamente. Più volte ho avuto modo di dire che il ministero episcopale somiglia alle funzioni di una mano. Essa ha il palmo, che può essere paragonato alla persona del vescovo; col solo palmo, però, una mano cosa può fare? Solo accarezzare, o schiaffeggiare, colpire! Con le sue dita, però, la mano può sollevare, indicare, afferrare… Ed è questa la missione dei collaboratori. E questo vale per tutti i presbiteri diocesani, che il Concilio Vaticano II chiama «necessari» collaboratori del Vescovo (cf. Presbyterorum ordinis, n. 7).

Ci sono scelte, però, che, alla fine, appartengono alla sua intima coscienza personale; che richiedono piena responsabilità dinanzi a Dio e alla Chiesa e che, perciò, non possono essere delegate! Ci sono scelte che un vescovo deve compiere solus cum Solo. Chissà che, d’ora in avanti, non succeda anche a te quel che Giovanni XXIII confidava ad alcuni suoi collaboratori: «Mi accade spesso di svegliami di notte e cominciare a pensare a una serie di gravi problemi e decidere di parlarne al Papa. Poi mi sveglio completamente e mi ricordo che il Papa sono io». E allora, cosa fare?

Ascolta, carissimo, cosa scriveva un maestro medievale: «Se desideri che egli ti riveli la soluzione di un qualche problema, allora cercati un riparo dove tu possa parlare con Gesù da solo a solo e, mentre gli rivolgi le tue domande, verrà accanto a te quel maestro che è il solo a insegnare agli uomini la scienza; sarà accanto a te col volto di un dottore dolcissimo per illuminarti con la conoscenza e per infiammarti con la carità».[6]

Solus cum solo! Fu questa l’aspirazione anche di san J. H. Newman, che nella luce gentile del mare di Sicilia trovò la guida per la sua «seconda conversione»: «In tutte le questioni tra l’uomo e il suo Dio c’è un confronto faccia a faccia, solus cum solo… la chiave per risolvere una difficoltà».[7]

Solus cum solo! Eccoti, dunque, un buon suggerimento di San Francesco di Sales: «Fa’ come i bambini che con una mano si aggrappano a quella del papà e con l’altra raccolgono le fragole e le more lungo le siepi; oppure come fanno coloro che navigano in mare i quali, per raggiungere il porto previsto, guardano più il cielo che la nave. Così pure tu, quando sarai in mezzo agli affari e alle preoccupazioni da’ uno sguardo a Dio. Così Dio lavorerà con te, in te e per te, e il tuo lavoro sarà accompagnato dalla gioia».[8]

Gaudium Christus est. L’amicizia di Gesù per te, carissimo Gualtiero, oggi è testimoniata da questa assemblea che prega per te, che guarda a te con simpatia e che attende, con fiducia, l’opera del tuo ministero. Abitualmente, in una famiglia cristiana si prega per ottenere da Dio il dono dei figli; ecco, però, che adesso sono i figli e le figlie di questa Chiesa a invocare per loro un segno sacramentale da quel Dio da cui ogni paternità prende nome (Ef 3,15). Anche la tua paternità. Possa, dunque, dirsi di te quel che Agostino disse di Ambrogio: «quell’uomo di Dio mi accolse come padre e mi amò come vescovo».[9]

Con la Chiesa di Monreale, ci sono qui i tuoi cari genitori; ci sono sacerdoti amici giunti da Albano col loro vescovo e altri, che da tempo ti conoscono e stimano. C’è il tuo immediato predecessore (mio amico di antica data) l’arcivescovo Michele Pennisi e, con lui, gli altri fratelli Vescovi che, alla mia, aggiungeranno la loro imposizione delle mani e insieme reciteremo la preghiera di consacrazione. A questa coralità, un testo che la patrologia latina attribuisce a san Gregorio Magno dà una spiegazione sponsale: avviene come quando si celebra una festa di nozze, dove accorrono tante altre coppie che mescolando la loro gioia a quella degli sposi novelli l’accrescono e la consolidano. Così accade nell’ordinazione di un vescovo quando, imponendo le proprie mani sul capo dell’eletto, gli altri vescovi lo confortano nell’inizio del suo cammino e chiedono al Signore di custodirlo.[10]

San Gregorio Magno è un papa che con questa terra di Sicilia ebbe non pochi legami; oltretutto egli era metropolita delle varie Chiese. Non sarà, dunque, fuor di luogo citarlo ancora e, questa volta, per quella sua Regola pastorale ch’è stata per molti (e anche per me, fin dall’inizio del mio ministero episcopale) punto di riferimento e guida sicura. Qual è, dunque, in sintesi, questa «regola»? Carissimo don Gualtiero, vorrei affidartela riassunta in una semplice frase: sospeso nell’amore di Dio e proteso nell’amore per il prossimo. Sono le due braccia della Croce! Nell’armonia sinodica di questi due amori, nella loro intima e reciproca connessione c’è il cuore della spiritualità gregoriana.

Nella prima lettura della Santa Messa abbiamo ascoltato un testo di Isaia (cf. Is 61,1-3a) dove, insieme con l’anno di grazia del Signore, è annunciato pure il giorno della sua vendetta. Sappiamo, però, che quando Gesù lesse questo medesimo testo nella sinagoga di Nazaret, dopo avere proclamato l’anno di grazia fece «punto e basta»! Con Gesù l’agire di Dio è ormai sotto il segno della misericordia, della compassione… È ciò che qui a Monreale è percepito dalla pietà popolare quando, guardando all’immagine del Cristo Crocifisso, si grida: Grazia, Patruzzu amurusu. Grazia!

Guardando a questo incrocio tra amore e fede san Gregorio scriveva che «quanto più un’anima si dilata nell’amore del prossimo tanto più s’innalza nella conoscenza di Dio… Siamo vicini al prossimo con amore compassionevole e saremo uniti a Dio mediante la conoscenza».[11] Qui Gregorio capovolge il classico assioma che nulla può essere amato, se prima non è conosciuto e afferma perentoriamente che l’amore è esso stesso inizio di conoscenza;[12] che solo mediante l’amore noi giungiamo a conoscere per davvero[13].

Perfino Dio, giungiamo a conoscerlo, soltanto se l’amiamo. Perfino Dio! Risentiamo Papa Francesco: «soltanto per la strada dell’amore tu puoi conoscere Dio».[14] Risentiamo soprattutto l’apostolo Giovanni: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Ne derivano delle priorità anche per l’agire episcopale. L’antico testo della Didascalia degli Apostoli, ad esempio, ripete più volte che caratteristica del vescovo è l’essere amante dei poveri. Leggiamo: «Se mentre tu, vescovo, stai spiegando la parola di Dio, dovesse venire una persona investita di un qualche onore del mondo, non curartene e non sospendere il ministero della Parola: saranno i fratelli ad accoglierlo. Se, però, dovesse giungere un povero o una povera, soprattutto se anziani, e non ci fosse posto per loro, allora tu, vescovo, con tutto il tuo cuore alzati e scegli per loro il posto migliore, quand’anche dovessi tu stesso sedere per terra».[15] San Gregorio pensava alla stessa maniera e diceva che, piegandosi sul povero, il giusto ottiene una sorta di concentrazione di energia che, come ad un atleta, gli fa spiccare il salto verso Dio. Diceva: «La carità che ci rende umili e compassionevoli, ci solleva poi ad un più alto grado di contemplazione».[16]

Sospeso nell’amore di Dio e proteso nell’amore per il prossimo. Sono, in fin dei conti, le due direzioni della Croce. Ricordalo, mio caro, almeno ogni volta che benedirai il popolo a te affidato: nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

E così sia, anzitutto per te.

 

Basilica Cattedrale di Monreale, 31 luglio 2022

 

Marcello Card. Semeraro

 

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[1] Cf. In psalm. 47 enarr., 10: PL 14, 1150.

[2] De virginibus, 100: PL 16, 291. Cf. G. B. Montini, Prima Lettera pastorale all’arcidiocesi di Milano (15 febbr. 1955).

[3] Cf. I. Silone (1968).

[4] Opusc. de septem ordin. Ecclesiae, 2: PL 30, 162.

[5] Cf. M.-J. Le Guillou, Il volto del Risorto, Cantagalli, Siena 2012, 51.

[6] Cf. Aelredo di Rievaulx, De Jesu puero duodenni, n. 24: PL 184, 864.

[7] Apologia IV, 2. Per la composizione «siciliana» della famosa lirica Lead, kindly light cf. Apologia I.

[8] Cf. Introd. alla vita devota, III, 10.

[9] Cf. Confess. V, 12, 23: PL 32, 71.

[10] Cf. Epist., XI, 64: PL 77, 1191-1192.

[11] Hom. in Ez. II, 40, 15: PL 76, 957.

[12] «Amor ipse notitia est»: Homiliae in Evangelia, XXVII, 4: PL 76, 1207.

[13] «Per amorem agnoscimus»: Moralia, X, 8,13: PL 75, 927.

[14] Omelia in Santa Marta, 8 gennaio 2015.

[15] Cf. 58, 4.6: X. Funk, 169.

[16] Moralia, VII, 18: PL 75, 775.