La santità incoraggia a incontrarsi
Omelia nella beatificazione del Servo di Dio José Torres Padilla
C’è un testo, carissimi, di Isidoro Siviglia, dove si commenta il testo che abbiamo insieme ascoltato dal libro del profeta Ezechiele: da sotto la soglia del tempio usciva un corso d’acqua… Quest’acqua, egli spiegava, indica il Battesimo, che è l’acqua che disseta e ristora tutti quelli che hanno sete. A questa, però, Isidoro aggiunge un’altra e più profonda simbologia: considerato che la visione profetica parla un’acqua che scaturisce dal lato destro del tempio, si tratta, egli spiega, del costato aperto di Cristo crocifisso da cui, come narra il quarto evangelista, «uscì sangue ed acqua» (Gv 19,34; cf. De fide catholica XXIV, 5: PL 83, 5319). In questo rimando alla morte e risurrezione del Signore comprendiamo pure il senso del racconto del vangelo, che è stato proclamato: «In tre giorni lo farai risorgere?», ribattono i Giudei a Gesù. Egli, però, «parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,21).
In questo giorno noi celebriamo con tutta la Chiesa l’anniversario della dedicazione della Basilica Lateranense, tradizionalmente chiamata «chiesa-madre» di Roma e di tutto il mondo cattolico; lo facciamo pure come segno di amore e di unione per la cattedra di Pietro. Ci domandiamo, però: «È un tempio fatto di pietre, che noi onoriamo, benché monumentale e bello?». La risposta è no! Ogni liturgia di dedicazione di una chiesa ci ricorda l’affermazione di san Paolo: il tempio di Dio siete voi (1Cor 3,16-17). Lo siamo tutti insieme come Chiesa e lo siamo pure singolarmente come battezzati.
Questa immagine del tempio, da cui esce un torrente di acqua che vivifica, rinnova e produce molto frutto a me piace riferirla al nuovo beato José Torres Padilla. Egli fu un sacerdote sempre fedele, che visse il suo ministero in profonda unione con il Signore, che era la sua forza interiore, ma fu pure un sacerdote pronto a donarsi, a uscire da sé per andare con la carità verso gli altri, simile alle acque che sgorgano dal Tempio e fanno crescere ogni sorta di alberi da frutto. È stato così anche il nostro Beato. Ciò considerando, a me pare di poter dire che in lui risalta in modo particolare l’unità della vita, o, se vogliamo ricorrere ad una formula ignaziana, l’essere contemplativo nell’azione.
Una testimonianza al processo per la beatificazione e canonizzazione faceva notare, ad esempio, che il beato José riusciva a unire preghiera e studio: «passava due ore a studiare e tre ore a meditare su ciò che aveva studiato e così riusciva a dare profondità alla sua vita». Un’altra diceva che, severo con se stesso, egli era, però, pieno di dolcezza, verso gli altri, specialmente verso le persone più povere. Questo mi ricorda ciò che scrive Papa Francesco nell’esortazione Gaudete et exsultate: «Essere santi non significa lustrarsi gli occhi in una presunta estasi. Diceva san Giovanni Paolo II che “se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi”… In questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi» (n. 96).
Così è stato per il nostro Beato. In molti, infatti, hanno parlato della sua attenzione verso gli altri e della sua carità: così pagava gli studi a quelli che desideravano diventare sacerdoti e non avevano i mezzi per sostenersi mentre egli stesso aveva una sola talare rattoppata; pagava la dote per le giovani donne con una vocazione e se erano in pericolo cercava una famiglia che le accogliesse... I testimoni hanno pure dichiarato che quand’era professore nel Seminario, egli non solo viveva in povertà, ma instancabilmente correva nei quartieri della città, specialmente a Triana, per prendersi cura dei poveri e degli ammalti. All’epoca, per la povertà, la delinquenza e l’atmosfera popolare che vi si respirava, quel quartiere era considerato il “lato sbagliato” del fiume Guadalquivir, ma il beato José non aveva timore di andarvi. Entrava nelle case dei più poveri, li puliva, sistemava il loro letto… Si diceva di lui, che era «una especie de prestamista a fondo perdido»; «un canónigo extraño que tiene por amigos a vagabundos y vendedores ambulantes».
Tra i suoi impegni principali, però, ci fu la direzione spirituale e fu soprattutto questa missione a diffondere la sua fama di santità. Proprio per questo, difatti, egli era denominato «el Santero», poiché riusciva quasi a contagiare gli altri con la propria santità. Fra coloro che beneficiarono della sua guida ci fu santa Angela de la Cruz, che egli sostenne nella missione di fondare l’Istituto delle Sorelle della Croce. Al riguardo, una teste ha dichiarato che il capolavoro del nostro Beato fu proprio la direzione spirituale di questa santa fondatrice. Per questo egli è considerato Cofondatore dell’Istituto. È vero, anche in questo caso, che i santi sono come un detector della santità delle persone con le quali anche solo occasionalmente vengono in contatto.
Questo, carissimi, mi permette di fare un’ultima riflessione: la santità incoraggia a incontrarsi. La preghiera di Gesù: «Tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi…» (Gv 17,21) è, come disse una volta papa Francesco, «la “matrice” del legame tra noi cristiani: se siamo intimamente inseriti in questa “matrice”, in questa fornace ardente di amore, allora possiamo diventare veramente un cuore solo e un’anima sola tra di noi, perché l’amore di Dio brucia i nostri egoismi, i nostri pregiudizi, le nostre divisioni interiori ed esterne». Subito, però, aggiunse che questo movimento che porta da Dio ai fratelli è completato dall’altro che va dai fratelli a Dio: «l’esperienza della comunione fraterna mi conduce alla comunione con Dio. Essere uniti fra noi ci conduce ad essere uniti con Dio, ci conduce a questo legame con Dio che è nostro Padre» (Udienza del 30 ottobre 2013).
Sia questa certezza, carissimi fratelli e sorelle, il dono che tutti – specialmente la Chiesa di Siviglia – riceviamo dalla grazia di questa Beatificazione.
Cattedrale di Siviglia, 9 novembre 2024
Marcello Card. Semeraro
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Hay un texto, queridos amigos, de Isidoro de Sevilla, que comenta el texto que hemos escuchado juntos del libro del profeta Ezequiel: de debajo del umbral del templo salía un torrente de agua... Esta agua, explica, indica el Bautismo, que es el agua que sacia la sed y restaura a todos los sedientos. A esto, sin embargo, Isidoro añade otro simbolismo más profundo: dado que la visión profética habla de un agua que mana del lado derecho del templo, se trata, explica, del costado abierto de Cristo crucificado del que, como narra el cuarto evangelista, "salió sangre y agua" (Jn 19,34; cf. De fide catholica XXIV, 5: PL 83, 5319). En esta referencia a la muerte y resurrección del Señor se comprende también el sentido del relato evangélico, que ha sido proclamado: "¿En tres días lo resucitarás?", respondieron los judíos a Jesús. Él, sin embargo, "hablaba del templo de su cuerpo" (Jn 2,21).
En este día celebramos con toda la Iglesia el aniversario de la dedicación de la basílica de Letrán, tradicionalmente llamada "iglesia madre" de Roma y de todo el mundo católico; lo hacemos como signo de amor y unión a la Cátedra de Pedro. Sin embargo, nos preguntamos: "¿Es un templo hecho de piedras, al que honramos, aunque monumental y bello?". La respuesta es ¡no! Toda liturgia de dedicación de una iglesia nos recuerda la afirmación de San Pablo: el templo de Dios sois vosotros (1 Cor 3,16-17). Somos todos juntos como Iglesia y también individualmente como bautizados.
Esta imagen del templo, del que brota un torrente de agua que vivifica, renueva y produce mucho fruto, me gusta referirla al nuevo Beato José Torres Padilla. Fue un sacerdote siempre fiel, que vivió su ministerio en profunda unión con el Señor, que era su fuerza interior, pero también fue un sacerdote dispuesto a darse, a salir de sí mismo para ir en caridad a los demás, semejante a las aguas que manan del Templo y hacen crecer toda clase de árboles frutales. Así era también nuestro Beato. Considerando esto, creo poder decir que en él destaca de modo particular la unidad de vida o, si queremos usar una fórmula ignaciana, el ser contemplativo en acción.
Un testigo en el proceso de beatificación y canonización señaló, por ejemplo, que el Beato José conseguía compaginar oración y estudio: "pasaba dos horas estudiando y tres meditando sobre lo estudiado y así conseguía dar profundidad a su vida". Otro decía que, estricto consigo mismo, estaba, sin embargo, lleno de dulzura, hacia los demás, especialmente hacia los más pobres. Esto me recuerda lo que escribe el Papa Francisco en la exhortación Gaudete et exsultate: "Ser santo no significa hacer brillar los ojos en un supuesto éxtasis". San Juan Pablo II decía que 'si verdaderamente nos hemos alejado de la contemplación de Cristo, deberíamos saber verlo sobre todo en el rostro de aquellos con los que Él mismo quiso identificarse'... En esta llamada a reconocerlo en los pobres y en los que sufren, se revela el corazón mismo de Cristo, sus sentimientos y sus opciones más profundas, con las que todo santo busca conformarse" (n. 96).
Tal fue el caso de nuestro Beato. Muchos, en efecto, hablan de su preocupación por los demás y de su caridad: así, pagaba los estudios de quienes deseaban ser sacerdotes y no tenían medios para mantenerse, mientras él mismo sólo tenía una sotana remendada; pagaba la dote de las jóvenes con vocación y, si estaban en peligro, buscaba una familia que las acogiera... Los testigos también declararon que, cuando era profesor en el seminario, no sólo vivía en la pobreza, sino que recorría incansablemente los barrios de la ciudad, especialmente Triana, para atender a los pobres e indigentes. En aquella época, debido a la pobreza, la delincuencia y el ambiente popular, ese barrio era considerado el "lado malo" del río Guadalquivir, pero el Beato José no tenía miedo de ir allí. Entraba en las casas de los más pobres, las limpiaba, les hacía la cama... Se decía de él que era 'una especie de prestamista a fondo perdido'; 'un canónigo extraño que tiene por amigos a vagabundos y vendedores ambulantes'.
Entre sus principales compromisos, sin embargo, estaba la dirección espiritual, y fue sobre todo esta misión la que extendió su fama de santidad. Por esta razón, de hecho, se le llamaba "el Santero", ya que casi podía contagiar a los demás con su santidad. Entre los que se beneficiaron de su guía estuvo Santa Ángela de la Cruz, a quien apoyó en la misión de fundar el Instituto de las Hermanas de la Cruz. A este respecto, un testigo afirmó que la obra maestra de nuestro Beato fue precisamente la dirección espiritual de esta santa fundadora. Por eso se le considera cofundador del Instituto. Es cierto, una vez más, que los santos son como un detector de la santidad de las personas con las que entran en contacto, aunque sea ocasionalmente.
Esto, queridos amigos, me permite hacer una última reflexión: la santidad nos anima a encontrarnos. La oración de Jesús: "Que todos sean uno; como tú, Padre, estás en mí y yo en ti, que también ellos estén en nosotros..." (Jn 17, 21) es, como dijo una vez el Papa Francisco, "la 'matriz' del vínculo entre nosotros, los cristianos: si estamos íntimamente insertados en esta 'matriz', en este horno ardiente de amor, entonces podemos llegar a ser verdaderamente un solo corazón y una sola alma entre nosotros, porque el amor de Dios quema nuestros egoísmos, nuestros prejuicios, nuestras divisiones interiores y exteriores". Inmediatamente, sin embargo, añadió que este movimiento que va de Dios a los hermanos se complementa con el otro que va de los hermanos a Dios: "la experiencia de la comunión fraterna me lleva a la comunión con Dios. Estar unidos entre nosotros nos lleva a estar unidos con Dios, nos lleva a este vínculo con Dios que es nuestro Padre" (Audiencia del 30 de octubre de 2013).
Que esta certeza, queridos hermanos y hermanas, sea el don que todos -especialmente la Iglesia de Sevilla- recibamos de la gracia de esta Beatificación.