Omelia nella Beatificazione di Benet de Santa Coloma de Gramenet e due compagni

 

I Martiri, primavera nella chiesa

Omelia nella beatificazione di Benet de Santa Coloma de Gramenet e due compagni martiri

 

    «Richiamate alla memoria quei primi giorni: dopo aver ricevuto la luce di Cristo, avete dovuto sopportare una lotta grande e penosa, ora esposti pubblicamente a insulti e persecuzioni, ora facendovi solidali con coloro che venivano trattati in questo modo»: in queste parole della Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato, possiamo senz’altro riconoscere la testimonianza dei tre nostri beati i quali, per vie diverse, ma tra loro congiunte dal proposito di seguire il Poverello di Assisi, giunsero qui a Manresa e avviarono un ministero esemplare e fecondo nella predicazione e nella guida spirituale. Quando scoppiò la Guerra Civile e il loro convento fu occupato, devastato e incendiato dai miliziani loro, in obbedienza alle indicazioni dei Superiori religiosi, cercarono un rifugio ospitale. Furono, però, ricercati e presto catturati; furono quindi sottoposti a percosse e umiliazioni. Al p. Benet fu anche chiesto di bestemmiare e di rinnegare la fede in Cristo. Tutti e tre furono messi a morte senza alcun processo, ma solo perché cristiani e così, come continua l’Autore della Lettera, hanno accettato con gioia di essere spogliati di tutto «sapendo di possedere beni migliori e duraturi» (Ebr 10,32-34).

    La loro storia somiglia a quella di tutti gli altri martiri; una storia che, però, per quanto ripetuta per secoli sino ad oggi nella storia della Chiesa, è sempre una storia singolare, perché ciascuno è, dinnanzi a Dio, unico e irripetibile e, in Gesù Cristo, chiamato sempre col proprio inconfondibile nome (cf. Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n. 28). Sicché nel volto di ogni martire troviamo un originale spiraglio da cui scrutare un tratto del volto di Cristo: è sempre lui, difatti, a concedere a ciascuno la fermezza della perseveranza e a donare nel combattimento la vittoria (cf. Prefazio II dei Santi Martiri). Il martire porta sempre e dovunque nel proprio corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel suo corpo (cf. 2Cor 4,10).

    Com’è paradossale, ma pure quanto è reale questo scambio tra la morte e la vita: «Siamo moribondi e invece viviamo» (2Cor 6,9), scrive san Paolo. È un principio di vita spirituale. San Gregorio Magno spiega che «quanto più esteriormente il giusto sopporta avversità, tanto più egli splende interiormente per la luce delle virtù e l’anima dei buoni, quanto più dure prove sopporta per la verità, tanto più spera con certezza i beni eterni» (Moralia in Iob, II, X, 35: PL 75, 941. A maggior ragione questo lo diremo per il martire, il quale non vive per morire, né è semplicemente un «essere per la morte», bensì muore per vivere. Nella sua morte egli sperimenta il passaggio dalla morte alla vita di Cristo in lui, al punto da poter dire: «non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).

    Possiamo aggiungere che la relazione del morire e vivere con Cristo è, nel martire, inseparabile del morire e vivere con la Chiesa e, più concretamente, con ogni Chiesa particolare ed ogni ecclesiola in Ecclesia (ossia con tutte le realtà ecclesiali) dove e per la quale il martire dona la vita. Sarebbe insufficiente, difatti, una relazione tra Cristo e il martire che non transiti per quella con la Chiesa. Se ogni martirio, da duemila anni a oggi, inaugura la primavera della Chiesa è perché il martire dà compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella propria carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa (cf. Col 1,24).

    Perfetto, il sacrificio di Cristo lo è certamente, né ha bisogno di alcuna aggiunta perché è compiuto una volta per sempre. Nel tempio della Chiesa, che è il suo corpo, però, manca qualcosa che è richiesto ad ogni credente ed è la martyria, ossia la testimonianza sino all’effusione del sangue. In questione – facciamo attenzione – non è il martirio a tutti i costi, da cui la Chiesa ha sempre cercato di evitare pericolose derive. Sappiamo che nel furore della tormenta anche i nostri beati martiri cercarono un rifugio presso persone amiche! In questione, piuttosto, è la testimonianza che dona fecondità alla vita della Chiesa; la rende capace di essere madre che dona la fede e, al tempo stesso, figlia generata dalla fedeltà della testimonianza.

    C’è un ultimo aspetto che desidero evidenziare, ch’è poi quello decisivo: il fatto che in ogni martirio non è uno spirito umano ad agire, ma lo Spirito Santo, dal quale hanno origine l’amore sincero e la parola della verità (cf. 2Cor 6,7). È lo Spirito che santifica il credente rendendolo testimone, o martire della verità. Il martirio – è importante sottolinearlo e sempre utile ripeterlo – non nasce da sé, dal disprezzo per la vita, o da una forma di eroismo estremo, bensì dall’azione vivificante dello Spirito di santità. Quando lo Spirito adombra la vita del discepolo, ecco che egli diventa testimone ovunque: a qualsiasi spazio e tempo appartenga. Ancor più quando si tratta di martirio. Per attraversare la morte in funzione della vita è necessario che sia lo Spirito ad agire sicché quanti hanno lo Spirito di santità rimangono lieti, anche quando sono afflitti; benché poveri, sono capaci di arricchire molti ed anche se non hanno nulla, possiedono tutto (cf. 2Cor 6,10).

    L’onore, dunque, che noi oggi rendiamo ai nostri tre beati martiri, capovolge in modo impensabile, ma vero il processo della vita e della morte. Pure le loro reliquie, oggi esposte alla nostra venerazione, non sono per nulla frammenti di morte, ma germi di vita. Ci ricordano, infatti, che il chicco di grano caduto in terra muore sì, ma produce molto frutto (cf. Gv 12,25). Quello, dunque, che si è verificato nel Capo, si rinnova in ogni membro del corpo di Cristo, la santa Chiesa.

 

    Manresa, Basilica di Santa Maria de la Seo, 6 novembre 2021

 

Marcello Card. Semeraro

 

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Traduzione in lingua spagnola

 

 

Los mártires, primavera de la Iglesia

Homilía en la beatificación de Benet de Santa Coloma de Gramenet y los dos compañeros mártires

 

    «Recordad aquellos primeros días: después de haber recibido la luz de Cristo, habéis tenido que soportar una lucha grande y penosa, sea expuestos públicamente a insultos y persecuciones, sea haciéndoos solidarios con aquellos que eran tratados de esta manera»: en estas palabras de la Carta a los Hebreos que hemos escuchado, podemos sin duda reconocer el testimonio de nuestros tres beatos, quienes, por caminos distintos pero relacionados entre ellos por el propósito de seguir al Poverello de Asís, llegaron aquí a Manresa, donde desarrollaron un ministerio ejemplar y fecundo en la predicación y en la guía espiritual.

    Cuando estalló la guerra civil y su convento fue ocupado, devastado, e incendiado por los milicianos, ellos, en obediencia a las indicaciones de los Superiores religiosos, buscaron refugio y de momento lo encontraron. Sin embargo, fueron buscados y pronto capturados; después fueron sometidos a golpes y humillaciones. Al padre Benet incluso lo incitaron a blasfemar y a renegar de la fe en Cristo, sin conseguirlo.

    Los tres fueron ejecutados sin ningún proceso, tan sólo porque eran cristianos y así, como continúa el Autor de la Carta a los Hebreos, aceptaron con alegría ser despojados de todo, «sabiendo que poseían unos bienes mejores y perennes» (Hb 10,32-34).

    Su historia se asemeja a la de todos los demás mártires; ahora bien, una historia que se ha repetido durante siglos hasta hoy en la historia de la Iglesia constituye siempre una historia singular, porque cada uno es ante Dios único e irrepetible y, en Jesucristo, es llamado siempre con el propio e inconfundible nombre (cf. Juan Pablo II, Christifideles laici, n. 28). De manera que en el rostro de cada mártir encontramos un original espejo en donde descubrir los rasgos del rostro de Cristo: en efecto, es siempre Él quien concede a cada uno la firmeza de la perseverancia y le da en el combate la victoria (cf. Prefacio II de los Santos Mártires). El mártir lleva siempre y en todas partes en el propio cuerpo la muerte de Jesús, para que también la vida de Jesús se manifieste en su cuerpo (cf. 2Co 4,10).

    Ciertamente es paradójico, mas también real, este intercambio entre la muerte y la vida: «Nos dan por muertos pero vivimos» (2Co 6,9), escribe San Pablo. Es un principio de vida espiritual.

    San Gregorio Magno explica que «cuanto más exteriormente el justo soporta adversidades, tanto más él resplandece interiormente por la luz de las virtudes, y el alma de los buenos, cuanto más duras pruebas soporta por la verdad, tanto más espera con certeza los bienes eternos» (Moralia in Iob, II, X, 35: PL 75, 941).

    Con mayor razón esto lo aplicaremos al mártir, el cual no vive para morir, ni es simplemente un «ser para la muerte», sino que muere para vivir. En su muerte él experimenta el paso de la muerte a la vida de Cristo en sí mismo, hasta el punto de que puede decir: «ya no vivo yo sino que Cristo vive en mí; y esta vida, que yo vivo en el cuerpo, la vivo en la fe del Hijo de Dios que me ha amado y se ha entregado a sí mismo por mí» (Ga 2,20).

    Podemos añadir que la relación del morir y vivir con Cristo es, en el mártir, inseparable del morir y vivir con la Iglesia y, más concretamente, con cualquier Iglesia particular y con toda ecclesiola in Ecclesia (es decir, con todas las “realidades eclesiales”) donde y por la cual el mártir da su vida. En efecto, sería insuficiente una relación entre Cristo y el mártir que no pasara por la relación con la Iglesia. Si todo martirio, desde hace dos mil años hasta hoy, inaugura la primavera de la Iglesia, es porque el mártir completa lo que, de los sufrimientos de Cristo, falta en la propia carne, a favor de su cuerpo que es la Iglesia (cf. Col 1,24).

    El sacrificio de Cristo es ciertamente perfecto y no tiene necesidad de ningún complemento porque se cumplió una vez para siempre. Sin embargo, en el tiempo de la Iglesia, que es su cuerpo, falta algo que se pide a cualquier creyente, y es la martyria, o sea, el testimonio hasta la efusión de la sangre. Fijémonos bien: no es el martirio a toda costa, a propósito del cual la Iglesia siempre ha buscado evitar peligrosas desviaciones.

    Sabemos que, en el furor de la tormenta, ¡también nuestros beatos mártires buscaron un refugio en casa de personas amigas! De hecho, más bien, es el testimonio el que confiere fecundidad a la vida de la Iglesia; la hace capaz de ser madre que da la fe y, al mismo tiempo, hija generosa de la fidelidad del testimonio.

    Hay un último aspecto que deseo subrayar, que además es el decisivo: el hecho de que en todo martirio no actúa un espíritu humano sino el Espíritu Santo, de quien proceden el amor sincero y la palabra de la verdad (cf. 2Co 6,7). Es el Espíritu quien santifica al creyente haciéndole testigo, o mártir, de la verdad. El martirio –es importante subrayarlo y siempre útil repetirlo– no nace de sí mismo, del desprecio de la vida, o de una forma de heroísmo extremo, sino de la acción vivificante del Espíritu de santidad. Cuando el Espíritu ilumina la vida del discípulo, he aquí que él se convierte en testigo en cualquier lugar, en cualquier espacio y tiempo en que se encuentre. Más todavía cuando se trata del martirio.

    Para atravesar la muerte en vista de la vida es necesario que sea el Espíritu el que actúe, de modo que quienes poseen el Espíritu de santidad permanecen alegres incluso cuando están afligidos; aunque sean pobres, son capaces de enriquecer a muchos y aunque no posean nada, lo poseen todo (cf. 2Co 6,10).

    Por lo tanto, el honor que hoy rendimos a nuestros tres beatos mártires invierte de modo impensable pero verdadero el proceso de la vida y de la muerte. Incluso sus reliquias, hoy expuestas a nuestra veneración, no son en ningún modo vestigios de muerte, sino semillas de vida. En efecto, nos recuerdan que el grano de trigo caído en tierra muere ciertamente, pero produce mucho fruto (cf. Jn 12,25). Por consiguiente, lo que se ha verificado en la Cabeza, se renueva en cada miembro del cuerpo de Cristo, la santa Iglesia.

 

    Manresa, Basílica de Santa María de la Seo, 6 de noviembre de 2021

 

Marcello Card. Semeraro