Omelia nella beatificazione di don Francesco Mottola

 

Un prete col bisogno di Cristo

Omelia nella beatificazione di don Francesco Mottola

 

    1. Il racconto del vangelo si apre con la scena di un «tale» che, correndo, raggiunge Gesù, gli si getta davanti, lo saluta in termini elogiativi e, senza mezzi termini, gli chiede cosa occorre fare per avere in eredità la vita eterna. C’è da rimanere stupiti. L’approccio è un po’ eccessivo e il suo gesto d’inginocchiarsi davanti a un «maestro» appare inusuale; in fin dei conti, però, anzi proprio per il suo carattere primario, istintivo e infervorato, si tratta di una figura che desta simpatia. San Benedetto troverebbe in lui l’entusiastico fervore del principiante (cf. Regula, I, 3). Lo stesso Gesù fissa lo sguardo su di lui e lo ama!

    C’è però qualcosa, nel suo modo di parlare, che svela qualche altro importante dettaglio e apre un importante spiraglio, questa volta, non verso il suo carattere, ma verso il suo cuore. Fare ed avere: sono i due verbi fondamentali cui questo anonimo personaggio ricorre; due verbi che per lui sono strettamente connessi, in stretta dipendenza l’uno dall’altro: fare per avere. Lo abbiamo ascoltato: anche della vita eterna egli parla come di una «eredità», parola questa che appartiene al linguaggio giuridico dei doveri e relativi diritti. Egli ha osservato i comandamenti e ora è opportuno che di tutto questo si dia atto e sia riconosciuto il suo merito. La vita eterna è concepita come un premio di produzione.

    Come già detto, tuttavia, «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò»! È uno dei passaggi più belli, anche letterariamente, del vangelo perché tiene insieme lo sguardo e l’amore. Gli sguardi d’amore (come, del resto, quelli di rimprovero e perfino di odio) sono facilmente percepibili. Sono «gesti» che anticipano la «parola», proprio come della divina rivelazione scrive il Concilio Vaticano II: «comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto» (Dei Verbum, n. 2). A quest’uomo, col suo sguardo Gesù anticipa le parole, la proposta che sta per fargli: passare dall’esteriore all’interiore, dalla prestazione alla gratuità, dall’osservanza per legge alla pratica per amore.

    Tutto questo con un primo passo, che è poi il più difficile fra tutti: lasciare. Ma non un abbandonare per liberarsi dagli impicci, bensì per donare; per donare ai poveri; a chi, cioè, non potrà mai ricambiare, restituire. «Non ho rubato», aveva detto quel tale, ma non rubare è più facile, rispetto al condividere. Quanti non rubano, ma ciò che posseggono lo tengono egoisticamente per sé. 

    L’arcata, però, non è ancora completata, perché il Signore aggiunge: vieni! Seguimi! È come un invito a liberarsi da ciò che appesantisce, per cominciare un viaggio nuovo. Un antico autore commentava: «Non serve a nulla lasciare le ricchezze, se poi non si segue Gesù. Ci sono tanti che lasciano, ma poi non seguono il Signore. E il Signore lo si segue imitandolo, mettendo i propri piedi sui suoi passi» (Beda, In evang. s. Lucae V, 18: PL 92, 554).

 

    2. Miei fratelli e sorelle, penso sia sufficiente questo per guardare ora alla persona del nuovo beato; di guardarlo, anzi, con gli occhi di Gesù: «fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”». A queste parole don Francesco Mottola non rattristò, come il protagonista della storia evangelica; c’è, anzi, una frase, che egli dice e manifesta la gioia della sua risposta al Signore: «eccomi tutto!».

    Il rito che stiamo celebrando è un evento che conforta e incoraggia: la Calabria con la sua gente, perché don Mottola è un figlio di questa bella terra da lui molto amata e che per secoli è stata feconda per la diffusione del Vangelo. La Calabria è terra di santi e permettete che ne faccia menzione almeno di due: di san Nilo insieme con san Bartolomeo il giovane, ambedue di Rossano: sono Amministratore Apostolico del Monastero di Grottaferrata; e poi san Francesco di Paola: sono della terra del Sud come voi e nel mio Salento non c’è chiesa che non abbia un altare dedicato a questo grande santo.

    La beatificazione di don Mottola conforta il clero, perché si tratta di un sacerdote ed oggi tutti noi sentiamo vivo il bisogno di preti che diffondono non il loro (che alla fine potrebbe risultare nauseante), ma «il buon profumo di Cristo» (2Cor 2,15). Egli è pure il primo ex-alunno del Pontificio Seminario Regionale di Catanzaro «Pio X» ad essere elevato agli onori dell’altare. Sia modello per tutti i nostri seminaristi.

    La beatificazione di don Mottola conforta la vita consacrata: egli fu fondatore degli Oblati, che chiamava i certosini della strada, e delle Oblate, che amava indicare come le carmelitane della strada. Tutti egli li mise alla ricerca e alla accoglienza di chi è emarginato; di quelli che, per usare il linguaggio di Papa Francesco, sono gli «scarti dell’umanità». Essere «scartati» è ben più doloroso dell’essere povero!

    Questa beatificazione conforta la stessa Chiesa, che è capace di portare la gioia del vangelo soltanto se è «madre di santi». Mi tornano alla memoria le parole con le quali Papa Francesco conclude la sua esortazione apostolica Gaudete et exsultate: «Spero che queste pagine siano utili perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità. Chiediamo che lo Spirito Santo infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio e incoraggiamoci a vicenda in questo proposito. Così condivideremo una felicità che il mondo non ci potrà togliere» (n. 177).

 

    3. Il nostro beato fu sacerdote che si consumò nella ricerca della gloria di Dio, mosso dal sincero desiderio di compiere in tutto la sua volontà. A suo riguardo vorrei ricordare le parole di Giorgio La Pira, oggi venerabile: «era davvero senza retorica, fonte mediatrice di acqua viva zampillante sino alla vita eterna; era un uomo di preghiera profonda: tempio di Dio, purezza senza ombra, sofferenza crocifissa!... Un’anima certosina nel mondo, sacerdotale, autentica: piena di carità, piena di luce, piena di speranza». Non gli mancarono le prove della vita, come fin da bambino la tragica morte della madre per suicidio, ma il terreno diventa fecondo soltanto se è scavato. Dal dolore, anche. Così è pure per la vita cristiana, che ha bisogno sempre di essere dissodata dalla parola di Dio.

    Don Mottola si è lasciato coltivare dalla parola di Dio. Non è nato santo. Lo è diventato, perché la santità è come l’essere cristiani: «non si nasce, ma si diventa», secondo la nota espressione di Tertulliano. Il nostro beato lo è diventato anche mediante la sofferenza provocatagli da una paralisi, che lo accompagnò per quasi trent’anni, sino alla morte. «Mio Dio, voglio farmi santo», egli scriveva, consapevole che non lo sarebbe mai diventato senza la sua grazia. Perciò sospirava: «Ho bisogno di te, Cristo Gesù…».

 

    È questo bisogno di Dio che oggi desidero raccogliere in particolare dalla testimonianza della sua vita santa. La Madre Chiesa ce la pone sotto gli occhi per sentircene incoraggiati, stimolati, ammaestrati. «Ho bisogno di te, Cristo Gesù…». Vorrei ripeterlo oggi qui, in questi tempi difficili per tutti. Vorrei ripeterlo anche con le ispirate parole di san Paolo VI, che troviamo nella sua prima lettera pastorale all’Arcidiocesi di Milano Omnia nobis est Christus, scritta per la quaresima 1955. Le ripeto anche come fraterno augurio per il vescovo Attilio Nostro, che da pochi giorni ha avviato il suo ministero in questa santa Chiesa di Mileto-Nicotera-Tropea. Lo saluto cordialmente, con tutti gli altri fratelli arcivescovi e vescovi presenti a questo Rito. Pregava san Paolo VI: «O Cristo, Tu ci sei necessario. Tu ci sei necessario, o solo vero maestro delle verità recondite e indispensabili della vita, per conoscere il nostro essere e il nostro destino, la via per conseguirlo. Tu ci sei necessario, o Redentore nostro, per scoprire la nostra miseria e per guarirla; per avere il concetto del bene e del male e la speranza della santità». Amen.

 

    Tropea – Concattedrale di Maria Santissima di Romania, 10 ottobre 2021

 

Marcello Card. Semeraro