Omelia nella beatificazione di don Giuseppe Rossi, martire

 

Un parroco icona del Cristo sofferente

Omelia nella beatificazione di Giuseppe Rossi, sacerdote e martire

 

La Chiesa di Novara ha atteso questo giorno e oggi lo vive nella gioia di vedere glorificato come Beato un suo figlio, un suo «umile prete, esemplare per la vita di preghiera e per il suo generoso servizio… icona di un parroco martire… modello per tutto il popolo di Dio, e in particolare per noi sacerdoti e per i laici che svolgono un ministero a servizio della Chiesa». Sono le parole con le quali il vostro Vescovo, il mio carissimo fratello Franco Giulio Brambilla, ha annunciato, nel dicembre scorso, la decisione del Papa di fare promulgare il Decreto di martirio del Servo di Dio Giuseppe Rossi, il quale «non esitò a immolare la sua giovane vita» per il gregge a lui affidato.

C’è, in questa «immolazione», la sua propria e personale imitazione di Cristo, al quale già era stato incorporato con il Santo Battesimo e poi configurato con il sacramento dell’Ordine Sacro. Una volta papa Francesco ha detto che i santi sono «persone attraversate da Dio» alla maniera delle «vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria “tonalità”» (Angelus del 1° novembre 2017). Il beato Giuseppe Rossi lo ha fatto come trasparenza del Christus patiens.

Oggi, solennità della Santissima Trinità, la Chiesa ci ha fatto riascoltare un passo dalla lettera ai Romani dove l’apostolo san Paolo ci rassicura: con il dono dello Spirito siamo divenuti figli di Dio! È la grazia, questa, che ci permette di rivolgerci a Dio chiamandolo: «Abbà! Padre!». Con la medesima espressione usata da Gesù. Davanti a questo mistero dovremmo sostare in silenzio adorante. L’Apostolo aggiunge che questa figliolanza ci rende eredi e conclude: «Siamo eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,17). Origene commentava: «È questa infatti la via che Cristo ha aperto ai suoi coeredi, affinché siano esaltati non per la forza né per la sapienza, ma per l’umiltà, e ottengano la gloria dell’eredità eterna mediante la pazienza nelle tribolazioni» (Comm. in Epist. ad Romanos VII, 1: PG 11, 1107). Sant’Ambrogio esortava a sua volta: «Fai bene attenzione, perché laddove c’è l’eredità di Cristo c’è necessariamente una partecipazione alla sua sofferenza» (Ambrogio, Expositio in psalmum David CXVIII, 8, 13: PL 15, 1298-99).

Il nostro somigliare a Cristo donatoci nel Battesimo non può, dunque, essere qualcosa di parziale o di provvisorio, ma deve essere totale: come lui, anche noi! Nel martire, poi, questa imitazione diventa perfino corporale. Ma è proprio l’accettazione delle sofferenze per amore di Cristo, al fine di somigliargli in tutto che fa il martire. San Tommaso d’Aquino insegna che, inverando le parole di Gesù: «Nessuno ha amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13), il martirio è nel suo genere il più perfetto tra gli atti umani ed è il segno della più ardente carità (cf. STh II-II, q. 124, a. 3; De veritate, q. 26 a. 6 ad 3).

«Ciò che ha sofferto Cristo, soffre anche la Chiesa; ciò che ha sofferto il Capo, soffrono anche le membra», predicava sant’Agostino (Enarr. in Psalm. XL, 8: PL 36, 459) e a questo don Giuseppe si è preparato fin dal principio del suo ministero. Nel giorno della sua ordinazione sacerdotale, il 29 giugno 1937, egli si sentì ripetere dal vescovo il classico binomio di «sacerdote e vittima»: «Non sarai mai un prete senza essere anche vittima per il sacrificio eucaristico». Questione non facile da comprendere.

Mi sovvengono alcune considerazioni di san Paolo VI, formulate nel corso di una udienza. Inizierà – come altre volte nel suo stile – con delle domande: «il punto-vertice della grandezza cristiana non è il sacrificio? Dov’è la gioia? Come mettere d’accordo queste due opposte espressioni della vita cristiana, la sofferenza e la gioia? La domanda è spontanea e la risposta non è facile» esclamava, ma aggiungeva: «[La risposta] cerchiamola dapprima nel dramma dello stesso mistero pasquale, cioè della redenzione, che realizza in Cristo la sintesi della giustizia e della misericordia, dell’espiazione e del riscatto, della morte e della vita. Dolore e gioia non sono più irriducibili nemici. La legge sovrana del morire per vivere è la chiave per comprendere Cristo sacerdote e vittima, cioè nella sua essenziale definizione di Salvatore» (Udienza del 19 aprile 1972).

Nella luce di Cristo, anche del sacerdote si potrà dire che è sacerdos et hostia, sacerdote e vittima. Nella lettera inviata ai sacerdoti da Gerusalemme per il giovedì santo 2000 san Giovanni Paolo II scriveva: «Questo aspetto sacrificale segna profondamente l’Eucaristia, ed è insieme dimensione costitutiva del sacerdozio di Cristo e, in conseguenza, del nostro sacerdozio. Rileggiamo in questa luce le parole che ogni giorno pronunciamo, e che risuonarono per la prima volta proprio qui nel Cenacolo: “Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi [...] Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”» (Lettera del 23 marzo 2000).

C’è un passo dell’Agenda di don Giuseppe, scritto dopo cinque mesi di vita parrocchiale, dove leggiamo: «Mi getto disperatamente tra le braccia di Gesù, di cui devo seguire le orme verso la Croce, il Calvario. Si scatenano le bufere umane che paiono tutto travolgere: con Dio io sono oltre la grigia nuvolaglia delle passioni, nell’atmosfera serena dell’azzurro infinito, nella pace divina. Allora soffro con gioia perché unito al mio Dio sulla croce. Così io rivivo alla nuova vita che è nella morte del corpo. Comprendo le eroiche pazzie dei Santi nel cercare la croce, la sofferenza: erano anime assetate di vita, quella vita sgorgata dal sangue versato sul Golgota che è lavacro di tutte le colpe, che è un farmaco di tutte le ferite».

Sono parole da inquadrare, certo, nelle iniziali difficoltà d’impostare una azione pastorale nel nuovo contesto; al tempo stesso, però, esse ci rivelano una disposizione di fondo che maturerà fino alla notte del 26 febbraio 1945, facendo di lui, giorno dopo giorno, un parroco per tutti, un  parroco per ciascuno e un parroco per i poveri, come ha scritto il vostro Vescovo. Questa via lo ha condotto a essere un parroco martire.

 

Cattedrale di Novara, 26 maggio 2024

 

Marcello Card. Semeraro