Omelia nella beatificazione di Léonar Melki e Thomas Saleh ofmcap, martiri

 

Cercare la giustizia per i poveri e gli indifesi è santità

Omelia nella beatificazione di Léonar Melki e Thomas Saleh ofmcap, martiri

 

«Se qualcuno ha sete, venga a me» (Gv 7,37). Sono le prime parole di Gesù ascoltate dalla proclamazione del Santo Vangelo e già bastano a coinvolgerci, a consolarci. Venga a me, egli dice, ma a chi lo dice? Ai più bravi? A chi è senza peccato? A chi è in regola con la legge, anche ecclesiastica e, perfino, con la legge di Dio? No! Gesù dice semplicemente: chi ha sete! Ecco a chi si rivolge!

Aver sete vuol dire molte cose. Il vangelo parla, ad esempio, di «sete della giustizia» ed è, questa, una sete sempre umanamente molto sentita. Ancora oggi e in tante parti del mondo l’ingiustizia ferisce l’umanità e provoca sofferenze grandi. Nella sua beatitudine Gesù elogia questa sete, ma – come spiega papa Francesco – è necessario capire che la giustizia di cui egli parla incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti nelle proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri, i deboli e gli indifesi e questo è santità. (cf. Gaudete et exsultate, n. 78).

Nel nostro linguaggio umano, però, la parola sete dice pure qualcos’altro. Dice, ad esempio, desiderio. Noi tutti siamo nati da un desiderio: quello di Dio, certamente, ed è la ragione per la quale ciascuno di noi è colmo di desideri e in tutti è riconoscibile la nostra storia: gioie e dolori, successi e fallimenti, speranze e delusioni… Abbiamo, però, sempre bisogno di discernerli, questi desideri, perché nessuno di noi è così trasparente a se stesso da sapere dov’è fissato il suo cuore.

Ecco, allora, che Gesù invita: vieni a me! San Tommaso d’Aquino commenta: lo dice in impletione desideriorum, ossia per dare compimento ad ogni buon desiderio (cf. Super Io. cap. 7, lect. 5). Per aiutarci a capire tutto questo, l’evangelista ha spiegato che Gesù lo disse dello Spirito. È, dunque, in tale contesto che noi, questa sera, vogliamo considerare anche la figura dei due frati cappuccini libanesi, p. Léonard Melki e p. Thomas Saleh, che or ora sono stati beatificati come martiri.

Chi sono i martiri? Per dare una risposta, sant’Ambrogio considerava la Chiesa che, ogniqualvolta proclama la morte del suo Salvatore (e questo noi facciamo quando celebriamo la Santa Eucaristia), riceve una ferita d’amore. Spiega, quindi: «Non tutti possono dire di essere stati feriti da questo amore, ma possono dirlo i martiri, che sono feriti a causa di Cristo e, proprio perché hanno ottenuto di essere feriti a causa del suo nome, lo amano ancora di più» (cf. Expositio in psalmum David CXVIII: Sermo V, 17: PL 15, 1256). Consideriamo, allora, la vita terrena dei nostri beati.

Umanamente sono delle vittime; vittime di un’ondata di odio che a più riprese percorse la fine dell’Impero Ottomano e si intrecciò coi tragici eventi della persecuzione contro l’intero popolo armeno e contro la fede cristiana. Quando, infatti, i nostri due Beati scelsero di andare in missione erano proprio quegli anni. Il racconto degli eventi che condussero al loro martirio, l’abbiamo udito all’inizio del Rito. Li riassumerò, dunque, brevemente. Nel dicembre 1914, mentre tutti gli altri Cappuccini cercarono rifugio in luogo più sicuro, il beato Léonard scelse di restare nel convento di Mardine per continuare a prendersi cura di un anziano confratello. Il 5 giugno 1915 il nostro Beato fu arrestato e successivamente sottoposto a violenze e torture finché, insieme con altri compagni, non fu ucciso a colpi di pietra e poi di pugnale e scimitarra. Il beato Thomas, nel dicembre 1914 fu accolto, insieme con altri confratelli nel convento di Orfa. Imprigionato insieme con gli altri confratelli, fu rinchiuso in varie carceri e subì diverse marce della morte e tremende torture procurategli anche al fine di farlo apostatare. Nonostante ciò, nella Chiesa libanese si tramandano la sua serenità e la sua fortezza.

Se umanamente, dicevo, sono stati delle vittime, nella prospettiva della fede cristiana sono stati dei vincitori. Ma, cosa è la «fortezza» di cui parliamo? Non di sicuro la volontà di potenza, che governa quegli istinti di prevaricazione e di dominio, cui tanto dolorosamente assistiamo nei livelli sia personale, sia comunitario e sociale. No! Parliamo, piuttosto del dono spirituale della fortezza, che nella dottrina cattolica è indicata quale terza virtù cardinale; una di quelle, cioè, che costituiscono i cardini di una vita virtuosa. Non si tratta, dunque, di mettere in campo la forza dei muscoli, quanto piuttosto la passione per la verità e l’amore per il bene fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1808). Compito della Chiesa è anche testimoniare questa fortezza.

Benedetto XVI, il nostro Papa emerito, nell’enciclica Spe salvi ha scritto che nelle prove veramente gravi della vita, specialmente quando ci accade di dovere far nostra la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, proprio allora noi «abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare, giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità, sapendo che proprio così viviamo veramente la vita» (Spe salvi, n. 39).

C’è un’altra domanda: chi dà al martire il coraggio di essere testimone? È lo Spirito Santo, che dona il coraggio. Questa è la risposta. Lo abbiamo ascoltato dall’apostolo Paolo: «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8,26). Gli antichi padri ci dicono che i martiri sono come degli atleti che, liberatisi dalle vesti che impediscono la corsa, infervorati dallo Spirito Santo (Spiritu sancto ferventes) corrono allo stadio per conquistare la corona della vittoria (cf. Gaudenzio da Brescia, Sermo XVII: PL 20, 968).

Preghiamo, allora, con queste parole, prese in prestito da san Gregorio di Narek: « I beati martiri, resi perfetti dalla loro sofferenza ora danzano felici in una festa senza fine. Per la loro intercessione e la loro preghiera, che sono gradite ai tuoi occhi perché colorate dall’offerta del loro sangue, accetta anche noi, Signore, e conservaci saldamente ancorati a Te perché possiamo giungere alla salvezza eterna. Amen» (cf. Paroles à Dieu, Peeters 2007, 378-379).

 

Ja El Dib (Libano), 4 giugno 2022

Marcello Card. Semeraro

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RECHERCHER LA JUSTICE POUR LES PAUVRES ET FAIBLES C’EST LA SAINTETÉ

Homélie pour la béatification de Léonard Melki et Thomas Saleh, ofmcap, martyrs

 

« Si quelqu’un a soif, qu’il vienne à moi » (Jn 7, 37). Ce sont les premières paroles de Jésus que nous venons d’entendre proclamées dans le Saint Évangile, et elles suffisent déjà à nous toucher, à nous consoler. Qu’il vienne à moi, dit-il, mais à qui le dit-il ? aux meilleurs ? à ceux qui sont sans péché ? à ceux qui sont en régle avec la loi, même ecclésiastique et, finalement, avec la loi de Dieu ? Non ! Jésus dit simplement : celui qui a soif ! Voilà à qui il s’adresse !

Avoir soif veut dire beaucoup de choses. L’Évangile parle, par exemple, de « soif de la justice » et ceci est une soif toujours humainement très ressentie. Aujourd’hui encore et dans tant de parties du monde l’injustice blesse l’humanité et provoque de grandes souffrances. Dans sa béatitude, Jésus fait l’éloge de cette soif, mais – comme l’explique le pape François – il est nécessaire de comprendre que la justice dont il parle commence à devenir réalité dans la vie de chacun lorsque l’on est juste dans ses propres décisions, et elle se manifeste ensuite, quand on recherche la justice pour les pauvres et les faibles et cela c’est la sainteté (cf. Gaudete et exsultate, n.79).

Dans notre langage humain, cependant, la parole soif dit aussi autre chose. Elle dit, par exemple, désir. Nous sommes tous nés d’un désir : celui de Dieu, certainement, et c’est la raison pour laquelle chacun de nous est comblé de désirs et en tous se reconnait notre histoire : joies et douleurs, succès et échecs, espérances et désillusions… Nous avons cependant toujours besoin de les discerner, ces désirs, parce qu’aucun d’entre nous est assez transparent à lui-même pour savoir où est fixé son cœur.

Voilà, alors, que Jésus invite : viens à moi ! Saint Thomas d’Aquin commente : il le dit in impletione desideriorum, c’est-à-dire pour accomplir tout bon désir (cf. Super Io. cap.7, lect.5). Pour nous aider à comprendre tout cela, l’évangéliste exlique que Jésus parlait de l’Esprit. C’est donc dans ce contexte que, ce soir, nous voulons envisager aussi la figure des deux frères capucins libanais, p. Léonard Melki et p. Thomas Saleh, qui viennent d’être béatifiés comme martyrs.

Qui sont les martyrs ? Pour donner une réponse, Saint Ambroise considérait que chaque fois que l’Église proclame la mort de son Sauveur (et c’est ce que nous faisons quand nous célébrons la Sainte Eucharistie), elle reçoit une blessure d’amour. Il explique, alors : « Tout le monde ne peut pas dire qu’il a été blessé par cet amour, mais les martyrs peuvent le dire, eux qui sont blessés à cause du Christ et, justement parce qu’ils ont obtenus d’être blessés à cause de son nom, ils l’aiment encore plus » (cf. Expositio in psalmum David CXVIII : Sermo V, 17 : PL 15, 1256). Considérons, donc, la vie terrestre de nos bienheureux.

Humainement ce sont des victimes ; victimes d’une vague de haine qui à plusieurs reprises a parcouru la fin de l’Empire Ottoman et se mêla aux événements tragiques  de la persécution contre tout le peuple arménien et contre la foi chrétienne. En effet, quand nos deux Bienheureux choisirent de partir en mission, c’était justement en ces années là. Nous avons entendu au début du Rite le récit des événements qui ont conduit à leur martyre. Je les résumerais donc brièvement. En décembre 1914, alors que tous les autres Capucins cherchaient refuge dans des lieux plus sûrs, le bienheureux Léonard chosit de rester dans le couvent de Mardine pour continuer à prendre soin d’un confrère âgé. Le 5 juin 1915 notre Bienheureux fut arrêté et soumis par la suite à des violences et des tortures jusqu’à être tué, avec d’autres compagnons, à coup de pierres, puis de poignards et de cimeterres. Le bienheureux Thomas fut accueilli en décembre 1914 avec d’autres confrères dans le couvent d’Orfa. Emprisonné avec ses autres confrères il fut enfermé dans différents cachots et subit plusieurs marches de la mort et des tortures terribles destinées à le faire apostasier. Malgré cela, dans l’Église libanaise se perpétue le souvenir de sa sérénité et de sa force.

Si humainement, disais-je, ils ont été des victimes, dans la perspective de la foi chrétienne ils ont été des vainqueurs.  Mais de quelle « force » parlons-nous ? Certainement pas de la volonté de puissance, qui gouverne les instincts de prévarication et de domination, à laquelle nous assistons si douloureusement tant au niveau personnel que communautaire et social. Non ! Nous parlons plutôt du don spirituel de force qui dans la doctrine catholique est la troisième vertu cardinale, c’est-à-dire une de celles qui constituent les fondements d’une vie vertueuse. Il ne s’agit donc pas de mettre en œuvre la force des muscles, mais plutôt la passion pour la vérité et l’amour pour le bien jusqu’au renoncement et au sacrifice de sa vie  (cf. Catéchisme de l’Église Catholique,n. 1808). Le but de l’Église est aussi de témoigner de cette force.

Benoît XVI, notre Pape émérite, dans l’encyclique Spe salvi a écrit que dans les épreuves vraiment lourdes de la vie, spécialement quand il nous arrive de devoir prendre la décision définitive de faire passer la vérité avant le bien-être, la carrière, la possession, « nous avons besoin de témoins, de martyrs, qui se sont totalement donnés, pour qu'ils puissent nous le montrer – jour après jour. Nous en avons besoin pour préférer, même dans les petits choix de la vie quotidienne, le bien à la commodité – sachant que c'est justement ainsi que nous vivons vraiment notre vie »  (Spe salvi, n. 39).

Il y a une autre question : Qui donne au martyr le courage d’être témoin ? C’est l’Esprit Saint qui donne le courage. Voilà la réponse. Nous l’avons entendu de l’apôtre Paul : « L’Esprit vient au secours de notre faiblesse » (Rm 8, 26). Les anciens pères nous disent que les martyrs sont comme des athlètes qui, libérés des vêtements qui gênent la course, enflammés par l’Esprit Saint (Spriritu sancto ferventes) courent dans le stade pour remporter la couronne du vainqueur (cf. Gaudence de Brescia, Sermo XVII : PL 20,968).

Prions donc avec ces paroles empruntées à saint Grégoire de Narek : « Les bienheureux martyrs, rendus parfaits par leur souffrance dansent maintenant heureux dans une fête sans fin. Par leur intercession et leur prières, qui sont agréables à tes yeux parce qu’elles sont teintées par l’offrande de leur sang, accepte-nous aussi, Seigneur, et garde-nous fermement attachés à Toi, afin que nous puissions parvenir au salut éternel. Amen » (cf. Paroles à Dieu, Peeters 2007, 378-379).

 

Ja El Dib (Liban), 4 juin 2022