Con Gesù tra le braccia
Omelia nella Consacrazione Monastica di sr. Rita Teresa Calfapietra, O.S.B.
Con questa santa Liturgia, carissimi, noi stiamo non anticipando, ma pregustando la festa della Presentazione al tempio di Gesù, a quaranta giorni dalla sua nascita. Ascoltando l’eco delle parole del Vangelo che è stato appena proclamato, noi vediamo Cristo, «il Signore del tempio che avanza nel tempio del Signore Padre» cf. Bernardo, Sermo in purificatione B.M. I, 1: PL 183, 366). Lo portano Maria, la vergine madre, e Giuseppe, l’ombra dell’eterno Padre; lo accolgono Simeone e Anna, due persone grandi e umili. In tale quadro spirituale, di offerta e di accoglienza, noi questa sera celebriamo la Consacrazione Monastica di sr. Rita Teresa Calfapietra, del Monastero benedettino di Lecce. Ed è un contesto davvero opportuno perché, come diceva san Paolo VI, in questa festa la Chiesa celebra Cristo, il Consacrato del Padre, «il modello, il tipo, l’ispiratore di ogni consacrazione» (Paolo VI, Omelia del 2 febbraio 1974).
La nostra preghiera, dunque, è specialmente per lei, ma pure per la Comunità monastica di cui fa parte: è – come ben sappiamo – un monastero benedettino ch’è parte integrante – per la sua storia e per il suo presente – non soltanto della Chiesa di Lecce, ma pure della Città che – oserei dire – non sarebbero spiritualmente le stesse senza questa feconda e antica presenza.
È una comunità che nella sua attuale composizione ci ripropone quella disegnata dal racconto evangelico. Qui, difatti, ci sono due giovani sposi, Maria e Giuseppe e pure due persone anziane, Simeone ed Anna ed anche nel Monastero è così. Fu ciò che della scena evangelica mise in evidenza papa Francesco, la prima volta che presiedette in San Pietro la celebrazione di questa festa. Parlando della vita comunitaria la descrisse come «un incontro tra i giovani pieni di gioia nell’osservare la Legge del Signore e gli anziani pieni di gioia per l’azione dello Spirito Santo. È un singolare incontro tra osservanza e profezia, dove i giovani sono gli osservanti e gli anziani sono i profetici». Aggiunse: «anche nella vita consacrata si vive l’incontro tra i giovani e gli anziani, tra osservanza e profezia. Non vediamole come due realtà contrapposte! Lasciamo piuttosto che lo Spirito Santo le animi entrambe, e il segno di questo è la gioia: la gioia di osservare, di camminare in una regola di vita; e la gioia di essere guidati dallo Spirito, mai rigidi, mai chiusi, sempre aperti alla voce di Dio che parla, che apre, che conduce, che ci invita ad andare verso l’orizzonte» (Omelia del 2 febbraio 2014).
In questa ottica desidero rileggere insieme con tutti voi le due figure che in qualche maniera tipicizzano questa festa: i santi Simeone e Anna. Di Anna, in particolare, il racconto del Vangelo afferma che era molto avanti negli anni e vedova fino a ottantaquattro anni. È figura di quanti, in forma simbolica, o reale, hanno perduto lo sposo e vivono nel desiderio di ritrovarlo. Anche di Simeone s’immagina che sia un anziano. La sua preghiera, la sua lode, il suo cantico Nunc dimittis sono, infatti, rimasti, benché a mio parere in una forma impropria, espressione del momento in cui ci si congeda dalla vita. Ma era davvero così per Simeone? Io amo pensare che il suo Nunc dimittis sia piuttosto l’espressione della gioia di chi può, finalmente, intraprendere il desiderato cammino. Simeone aveva, in ogni caso, conservato nel cuore la promessa che non sarebbe morto senza avere veduto la salvezza del Signore. Per questo egli «aspettava la consolazione d’Israele».
Ecco cosa fanno questi due anziani: aspettano. Aspettare e desiderare sono in reciproco rapporto: l’attesa fa crescere i desideri e i desideri hanno come base la capacità di attendere. Diversa, invece, è la compulsione, che implica invece uno slancio irrefrenabile ad agire. Aspettare e desiderare, invece, esigono la quiete del cuore, la serenità dell’animo. Oggi, poi, l’esperienza dell’attesa sembra essere davvero una sconosciuta. Siamo nell’epoca dei diritti, per di più fatti coincidere con i desideri; e siamo in una cultura in cui il minimo soffio di volontà è appagato ancora prima di essere manifestato. Sapere attendere, dunque: quale necessaria virtù! Ecco, allora, Simeone che aspetta! Un vecchio «aspetta»: non la morte, ma la vita!
Ed Anna, cosa fa? Quando si avanza negli anni, in genere si ama parlare del passato e si comincia a ripetere le stesse cose. È questo un effetto dell’età anziana nella nostra mente ed ecco che pure Anna «parlava del Bambino» a tutti quelli che incontrava. Parlava, non chiacchierava; parlava, ossia annunciava. Oh se le nostre parole fossero sempre dei lieti annunci!
Simeone e Anna, allora, sono due anziani dal cuore giovane. Se pure sono vecchi nell’età, hanno il cuore pieno di speranza. Vogliono ricominciare, parlano di «bambini», sono attenti alla vita che germoglia e non se ne stanno a rimpiangere i vecchi bei tempi. Simeone e Anna si accorgono che è nato un bambino: lo aspettano e parlano di lui.
Ma cosa è che «compie» gli anni del vecchio Simeone e dell’anziana Anna? Cos’è che dà senso alla vita e la rende piena? L’avere tra le braccia Gesù. È un po’ quello che aveva in mente san Benedetto, quando nella sua Regola scrive: «I giovani onorino quelli che sono più anziani e gli anziani amino i giovani…» (63, 10). Qui la giovinezza e l’anzianità non sono dettate dall’età, ma dal giorno in cui si è abbracciato Cristo. Nel Monastero l’essere giovane e l’essere anziano è anzi tutto fissato dalla professione monastica. Chi entra nel Monastero non cerca «un posto»! Glielo assegna la data della chiamata ricevuta da Dio e della risposta. È questo che fissa il posto; non le proprie doti, non la propria bravura né, ancor meno, le proprie ambizioni. Nel mondo (e purtroppo ciò accade pure in quello ecclesiastico) spesso si combatte per ottenere un posto; lo si ambisce e per conservarlo si fanno spesso carte false. Basta leggere le cronache per rendersene conto. La regola benedettina, invece, ci avverte che è Gesù a dare pienezza e compimento alla vita.
Una vita, qualsivoglia sia la sua età, è «piena» quando ha Cristo. Chi ha Lui, non manca di nulla (cf. Sal 22, 1). Mi commuove sempre risentire ciò che scriveva Origene: «Fino a tanto che io non possedevo il Cristo, fino a tanto che non lo stringevo fra le braccia, ero imprigionato e non potevo liberarmi dai miei legami. Se qualcuno lascia il mondo, se qualcuno è liberato dalla dimora dei prigionieri per ottenere di appartenere al regno, allora prenda Gesù con le sue mani e lo cinga con le sue braccia, lo tenga tutto intero dentro il suo cuore, e allora, saltando di gioia, potrà recarsi dove desidera» (Omelie su Luca XV, 1-5: PG 13, 1838).
Così possiamo essere tutti, carissimi: con Cristo fra le braccia non riusciremo ad avere altri beni, proprio come accade a una mamma e a un papà: quando hanno in braccio il loro figlio, o la loro figlia non possono avere nient’altro. E noi, con Cristo tra le braccia avremo soltanto i piedi per danzare nella lode, come diceva Origene. E anche per portare il Bambino ai fratelli nel gesto della missione.
A te, poi, sorella carissima, che oggi fai la tua consacrazione monastica ed hai acceso poco fa la tua lampada dal cero pasquale, dico queste parole di san Paolo VI (amo citarlo ancora una volta): «Fai di questa luce il simbolo della tua stessa persona. Sia per la sua dirittura e la sua soavità, l’immagine della tua purità; per la sua funzione d’ardere e d’illuminare sia come la definizione della tua vita, destinata ad un amore unico, ardente e totale; per la sua sorte, infine, questa luce sia segno del tuo consumare la vita nell’ormai irrevocabile dramma del tuo cuore consacrato (cf. Paolo VI, Omelia del 2 febbraio 1973). Amen.
Cattedrale di Lecce, 1° febbraio 2025
Marcello Card. Semeraro