Omelia nella festa di san Giovanni Bosco

 

Una santità creativa nella ricerca dei giovani

 

Omelia nella festa di san Giovanni Bosco

 

    1. La festa liturgica di don Bosco riporta sempre nella mia memoria il ricordo degli inizi della mia vocazione al ministero sacerdotale. Anche per questo la celebro con intima gioia. Ero ragazzo di sette-otto anni quando cominciai a frequentare l’oratorio «San Giovanni Bosco» da poco tempo inaugurato nel mio paese di origine e voi non immaginate con quale ansia aspettavo il giorno della sua festa. Non attendetevi, per carità, che io allora percepissi le virtù di questo caro santo; era semplicemente perché, col fatto di dover servire le Sante Messe e poi accompagnare la Processione con l’immagine del Santo, il nostro prete otteneva dal Direttore della scuola elementare, per me e gli altri «chierichetti», il permesso di non frequentare le lezioni! Non erano delle soddisfazioni, queste? Per don Bosco ne valeva la pena! Ero un ragazzo.

    Chi era davvero don Bosco? Abbiamo ascoltato ieri le parole pronunciate dal Papa dopo la domenicale preghiera dell’Angelus. Ha detto: «Pensiamo a questo grande Santo, padre e maestro della gioventù. Non si è chiuso in sagrestia, non si è chiuso nelle sue cose. È uscito sulla strada a cercare i giovani, con quella creatività che è stata la sua caratteristica».

    Cercare i giovani è stato davvero l’inizio della sua vicenda di educatore e di santo. Il suo primo biografo, che fu pure suo fedele segretario e confidente, don G. B. Lemoyne, scrive che desideroso, sull’esempio di san Filippo Neri, di raccogliere la gioventù per avviarla alla vita cristiana e allontanarla dai pericoli, al mattino della domenica don Bosco usciva per la città per incontrarli, magari allettandoli con dei regalucci e con le buone maniere per riunirli ed è così che ebbe inizio l’Oratorio di s. Francesco di Sales a Torino-Valdocco.

    Creatività è stata la caratteristica che il Papa ha pure sottolineato riguardo a don Bosco. È una parola che egli ripete di frequente e il cui senso mi piace richiamare con le parole che lo stesso Francesco adoperò parlando alla Caritas italiana il 26 giugno scorso: la descrisse come interiore capacità di «coltivare sogni di fraternità ed essere segni di speranza» e docilità allo Spirito «che è creatore e creativo, e anche poeta» e che suggerisce «idee nuove, adatte ai tempi che viviamo». Sono parole che senza dubbio possono adattarsi a don Bosco. I suoi sogni profetici! A partire dal primo, che ebbe a nove anni, mi pare ne siano stati contati ben centocinquantatre. «Chiamateli sogni – diceva –, chiamateli parabole... faranno sempre del bene».

 

    2. Di lui il Martirologio ricorda che «dedicò tutte le sue forze all’educazione degli adolescenti». È, dunque, molto appropriato il passo evangelico che abbiamo appena ascoltato nella liturgia della parola. «Chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,2-3).

    Il termine greco qui è paidíon, che indica un ragazzo di età sotto i dodici anni e, nella cultura di quel tempo, senza stato sociale o importanza politica. Ma non è su questo aspetto cronologico e sociale che dobbiamo fermarci. Gesù non chiede di «tornare ad essere», ma di «diventare» bambini e così stare «in mezzo» agli altri; di più, «in mezzo» alla Chiesa, chiunque siamo e qualunque sia il nostro ufficio. Stare «in mezzo» con la postura del bambino, ossia con l’umiltà. Non è – diremmo – l’innocenza del bambino che Gesù ci esorta ad ottenere, bensì la «grandezza» evangelica, che è agli antipodi da quella mondana.

 

    C’è poi, affiancata, l’altra categoria del «piccolo», in greco mikrôs che è, nel nostro caso, colui che, a motivo dell’incuria degli altri e dell’infedeltà ai loro compiti, può essere messo in crisi, o nel rischio di perdersi. Ed è così che in don Bosco nacque la passione per la gioventù. All’inizio dei suoi Cenni storici intorno all’Oratorio di San Francesco di Sales [1862] possiamo leggere: «L’idea degli oratori nacque dalla frequenza delle carceri di questa città. In questi luoghi di miseria spirituale e temporale trovavansi molti giovanetti sull’età fiorente, d’ingegno svegliato, di cuore buono, capaci di formare la consolazione delle famiglie e l’onore della patria; e pure erano colà rinchiusi, avviliti, fatti l’obbrobrio della società...».

    Quella delle carceri fu, dunque, la prima esperienza sconvolgente di don Bosco ed è proprio in quel contesto così duro e complicato che poté sperimentare l’efficacia di quello che sarà poi chiamato «metodo preventivo», fondato sulla ragione, la religione e la ragionevolezza. Nel Vangelo Gesù ammonisce chi è motivo di scandalo per i «piccoli». Il quadro che si presentava agli occhi di don Bosco era triste: «Ne rimase sconvolto. I sobborghi erano zone di fermento e di rivolta, cinture di desolazione. Adolescenti vagabondavano per le strade, disoccupati, intristiti, pronti al peggio», annota don Teresio Bosco nella sua biografia. E don Bosco – come egli stesso annota nelle sue Memorie dell’Oratorio – cominciò a chiedersi: «Chi sa se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere?».

 

    3. La situazione trovata da don Bosco ai suoi tempi può avere una analogia con quella dei nostri tempi. Nella sua lettera scritta a tutti i vescovi per la festa dei Santi Innocenti del 2016, Papa Francesco parla di «un’innocenza spezzata sotto il peso del lavoro clandestino e schiavo, sotto il peso della prostituzione e dello sfruttamento. Innocenza distrutta dalle guerre e dall’emigrazione forzata con la perdita di tutto ciò che questo comporta. Migliaia di nostri bambini sono caduti nelle mani di banditi, di mafie, di mercanti di morte che l’unica cosa che fanno è fagocitare e sfruttare i loro bisogni». Del carisma di don Bosco abbiamo, dunque, ancora bisogno; abbiamo bisogno del suo «cercare i giovani» e della sua «creatività».

    A quell’esperienza – lo sottolineava egli stesso –fu iniziato da don Cafasso ed è singolare riscontrare nella vita della Chiesa, ieri e ancora ai nostri giorni, quanto efficace sia l’incontrarsi dei santi e con i santi. Ne nasce una sorta di contagio al positivo. E non fu per contagio che fiorì la santità di Domenico Savio? In Gaudete et exsultate Francesco ha scritto che il «supremo comandamento dell’amore» deve non soltanto contrassegnare il nostro stile di vita, ma deve essere pure trasformata «in una gioia contagiosa» (n. 55).

    È il senso della nostra festa, oggi, mentre celebriamo la festa di don Bosco. Dalla memoria di lui è importante che riceviamo il contagio della sua gioia. Nelle contingenze di questi nostri tempi, poi, è importante che lo riceviamo soprattutto nell’educazione.

    È quanto possiamo domandare nella preghiera ed è ciò che vogliamo affidare all’intercessione materna di Maria, che amiamo invocare col titolo di Ausiliatrice.

 

    Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice – Roma, 31 gennaio 2022

 

Marcello Card. Semeraro