Omelia nella festa di San Venanzio, martire – patrono di Camerino

 

Un giovane che dona la sua vita

Omelia nella festa di San Venanzio, martire – patrono di Camerino

 

Mi ha condotto qui l’amicizia del vostro Arcivescovo ed io ho volentieri corrisposto al suo invito per celebrare insieme con voi la solennità del martire San Venanzio, vostro patrono. È una figura che, alla luce della tradizione, desta simpatia e attenzione almeno per due elementi. Uno è per la sua età ancora adolescenziale (puer lo chiamano gli «Acta Sanctorum», la tradizione gli riconosce quindici anni).

L’adolescenza è una età sempre molto delicata. Oggi, poi, questa condizione di vita è ancora di più contrassegnata da insicurezze interiori. Appena domenica scorsa su un quotidiano nazionale è apparsa una nuova puntata di un’inchiesta intitolata «Amico fragile», questa volta dedicata sia alle ragazze con disturbi alimentari, autolesionismo e tentato suicidio, sia al fenomeno, questa volta quasi sempre maschile, negli ultimi dieci anni aumentato del 70% e chiamato «ritiro sociale prolungato», meglio noto per un termine giapponese: hikikomori. L’inchiesta è molto interessante: parla di stati di angoscia, di crisi d’ansia, di fenomeni di autolesionismo e di crisi depressive che assalgono i nostri ragazzi già attorno ai nove anni. Ed ecco che sono davvero molti (all’incirca cinque al giorno) quelli che arrivano al Pronto Soccorso assaliti da pensieri suicidari (cf. La Stampa 14 maggio 2023, p. 22). Anche su un altro quotidiano a tiratura nazionale, pubblicava domenica scorsa un brano del libro L’onda lunga scritto da due esperti dei disturbi dell’adolescenza. Qui si registra che «molti ragazzi di oggi si definiscono doomers, espressione che si riferisce all’incombere di un destino tragico (la crisi economica del 2009, lo smantellamento del welfare, il surriscaldamento globale, due anni di pandemia e la guerra in Ucraina): è come se si trovassero spaventati dall’ereditare un mondo difficilissimo» (cf. Il Fatto quotidiano 14 maggio 2023, p. 19).

Quanto distante, a confronto, ci appare la condizione del giovine Venanzio come ci è descritta dall’agiografia: un ragazzo che molto presto ha già fatto la sua scelta di vita e per questo ha lasciato tutto – famiglia e beni terreni – per servire il Signore. Proprio questa scelta radicale lo porterà sotto gli occhi di tutti e provocherà la sua denuncia al tiranno, che poi lo condannerà a morte.

Il secondo elemento da notare è la presenza, accanto a lui, di un adulto, Porfirio, che lo ammaestra ricordandogli la parola di Gesù: «sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 19,18-20). Nelle ore critiche, infine, lo conforta con queste altre parole del Signore: «venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,10). Anche questo elemento è provocatorio per noi. Le difficoltà di crescita e di maturazione dei nostri ragazzi sono enormemente accresciute se manca, accanto a loro, una presenza adulta. 

La tradizione agiografica ci dice pure che davanti alle lusinghe del tiranno e alle sue minacce il giovane Venanzio mostrò una singolare dote: quella della fortezza. Cosa intendiamo noi con questa parola? Cosa è la “fortezza” cristiana? Non di sicuro la volontà di potenza, che governa gli istinti di prevaricazione e di dominio. No! Noi parliamo, piuttosto di quel dono spirituale, che nella dottrina cattolica è indicata quale terza virtù cardinale; una di quelle, cioè, che costituiscono i cardini di una vita virtuosa. E difatti la dottrina cattolica definisce la fortezza come «la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene… rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa» (CCC n. 1808; cf. Compendio n. 382). Non si tratta, dunque, di mettere in campo la forza dei muscoli, quanto piuttosto la passione per la verità e l’amore per il bene. San Venanzio, dunque, fu certamente sostenuto dalla presenza incoraggiante dell’adulto Porfirio, ma fu soprattutto docile ad accogliere l’aiuto della grazia.

Nella proclamazione del Vangelo è stata letta per questo la pagina in cui Gesù dice ai suoi discepoli: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». È anzitutto Gesù questo chicco di grano. Sant’Ambrogio lo predicava dicendo: è lui il chicco di grano, che è morto per dare molti frutti in noi! Tutto quello che si è compiuto in Gesù e tutto quello che egli ha compiuto è vita per noi (cf. Enarrationes in XII psalm. davidicos, XXXVI: PL 14, 985).

«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se, invece, muore, dà molto frutto»: a sentirlo ripetere ci pare semplice: è una legge di natura, diciamo! Invece è un Vangelo difficile. Ci sono, difatti, due modi di considerare l’esistenza: uno è quello d’intenderla come qualcosa di esclusivamente proprio e, quindi, da regolare a proprio piacimento a tutti costi e perfino contro chiunque; la vita è in questo caso come un proprietà privata, che dipende unicamente da me e della quale posso disporre a piacimento. Non è forse così che oggi da tante parti si guarda alla vita? Se ne parla come di un diritto di cui si può disporre a seconda che se ne creino le possibilità: sia che si tratti degli inizi della vita, sia che si consideri il suo termine. Parole come “aborto”, “eutanasia”… fanno parte di questi diritti: non diritti alla vita, ma sulla vita.

Le parole di Gesù, al contrario, ci avvertono che aggrapparsi egoisticamente alla vita e ripiegarsi narcisisticamente su di essa è motivo di sofferenza per gli altri e di perdita per noi stessi. Spendersi per gli altri, donarsi agli altri, sacrificarsi per loro… Ecco l’alternativa che ci presenta il Vangelo. Ci domandiamo, allora: sono ancora valori per noi, questi? Analizzando la nostra società individualistica, qualcuno ha dovuto riconoscere che «la cultura sacrificale è morta» e lo ha spiegato dicendo che ormai «abbiamo smesso di riconoscerci nell’obbligo di vivere per altro che per noi stessi» (G. Lipovetsky).

Questo non significa affatto che siamo divenuti sordi alle disgrazie altrui e neppure che abbiamo smesso di far della beneficienza. Possiamo, anzi, dire che per molti aspetti è vero il contrario. Non lo abbiamo veduto con le nostre Caritas nei mesi difficili della pandemia? Il vero problema è che il più delle volte anche questi sprazzi di generosità sono, come si dice, bagliori di una «morale indolore». Intendo che spesso fra noi la sola idea di sacrificarsi per gli altri è divenuta fuor di luogo. In questo contesto anche le manifestazioni di solidarietà acquistano un tenore diverso: accade, così, che quando abbiamo dato la nostra offerta, quando abbiamo mandato qualcosa da mangiare, un po’ di abiti, un po’ di medicine… ci sentiamo liberi da ogni rimorso perché pensiamo di aver fatto la nostra opera. Niente, però, che prosegua sino al dono di sé, nulla che si spinga sino al sacrificio di sé! Se, però, è così e se tutto è commisurato unicamente a noi stessi e non, invece, all’Altro e pure agli altri da amare, cui donarsi e coi quali vivere, difficilmente riusciremo a capire la morte di quel chicco di grano che è Gesù.

In questo, invece, ci è da vero modello San Venanzio. Voglio allora concludere con la preghiera a lui rivolta scritta dal p. Prospero Guéranger, antico abate di Solesmes: «Prega per noi, santo martire, tu che fosti amato dagli angeli e da loro assistito nella lotta. Come te, noi siamo discepoli di Gesù risorto e siamo chiamati a rendergli testimonianza di fronte al mondo. Se questo medesimo mondo non è più armato di strumenti di tortura come ai giorni della tua prova, non è però meno temibile per le sue seduzioni. Vorrebbe, anche a noi, rapire la vita nuova donataci da Gesù; difendici dai suoi attacchi. La carne dell’Agnello ti aveva nutrito nei giorni della Pasqua e la forza che si è mostrata in te era tutta a gloria di quel celeste alimento. Noi siamo assisi alla stessa mensa eucaristica; veglia su tutti i convitati del banchetto pasquale. Abbiamo anche noi riconosciuto il Signore nella frazione del pane (cf. Lc 24,35): ottienici l’intelligenza del celeste mistero di cui, a Betlemme, ricevemmo le primizie e che si è sviluppato sotto i nostri occhi e in noi stessi per i meriti della Passione e della Risurrezione del nostro Emmanuele. Altre meraviglie ci attendono: noi non usciremo dal tempo pasquale senza essere stati iniziati alla pienezza dei doni del Figlio di Dio, che si è incarnato per noi. Ottienici, o santo martire, che i nostri cuori si aprano sempre più e conservino fedelmente tutti i tesori che le prossime feste dell’Ascensione e della Pentecoste devono ancora riversare in essi. Amen (cf. L’Anno liturgico, IV, Fede e Cultura, Verona 2018, p. 116).

 

Basilica di San Venanzio Martire, Camerino, 18 maggio 2023

 

Marcello Card. Semeraro