Omelia nella festa di sant’Antonio Abate, patrono dei monaci

L’abbraccio della carità: azione e contemplazione

Omelia nella festa di sant’Antonio Abate, patrono dei monaci

 

Sono lieto di celebrare con voi la memoria di sant’Antonio il grande e di essere partecipe della vostra festa. Nella tradizione religiosa la figura di questo santo è legata a forme devozionali e protezioni di vario genere. Egli, ad esempio, è invocato come protettore degli animali e appena ieri in piazza Pio XII, di fronte al Colonnato del Bernini, c’è stata la benedizione degli animali della «Stalla sotto il cielo», allestita per questa festa dalla Associazione Italiana Allevatori in collaborazione con la Coldiretti. Nella storia della Chiesa, però, l’importanza di sant’Antonio abate è particolarmente legata al fiorire della vita monastica.

Ciò detto, non si dimenticheranno però anche altri aspetti importanti della sua vita. L’attrattiva del deserto, ad esempio, tanto forte su di lui sì da farlo apparire come il primo fra i «padri del deserto», non riuscì a trattenerlo dal recarsi in Alessandria per incoraggiare i cristiani provati dalla persecuzioni e sostenerli nel martirio; come pure non gli impedì di tornarvi per sostenere la Chiesa nella lotta contro l’eresia ariana e incoraggiare nella fedeltà alla fede di quel Concilio, quello di Nicea, che ci apprestiamo a ricordare in questo anno giubilare che gli è diciassette volte centenario.

A tale proposito non si possono davvero dimenticare i vincoli che unirono Antonio ad Atanasio, dottore della Chiesa, sì da indurlo a ricordare l’amico scrivendone la Vita non come biografo, ma come testimone. È proprio lui a narrarci l’impulso che spinse il giovane Antonio a donare i suoi beni ai poveri dopo avere ascoltato la proclamazione di quella stessa pagina di vangelo che questa sera abbiamo insieme ascoltato: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!» (Mt 19,21: Vita di Antonio, 2.1).

Non è, tuttavia, per narrarvi la vicenda terrena del nostro Santo che io sono stato chiamato: voi, carissimi monaci e anche voi carissimi fedeli, la conoscete di già e tante volte l’avete sentita ripetere. Desidero, allora, riflettere insieme con voi su un qualche aspetto della spiritualità di sant’Antonio e cogliere con voi alcuni suoi ammaestramenti utili per il compimento dei nostri doveri e quotidiani. Se, infatti, è vero che i giorni cristiani si muovono tutti verso la Domenica, che è il «giorno ottavo», il Giorno del Signore e il Signore dei giorni, è pure vero che la Domenica cristiana è il «primo giorno», ossia quello da cui originano tutti gli altri: come dice un antico autore cristiano, è la memoria del giorno in cui il Signore cominciò le opere della creazione (cf. De libro Psalmorum : PL 93, 601). È proprio, allora, da questo aspetto della festa cristiana, di essere compimento e inizio, fine e principio che colgo un ammaestramento di sant’Antonio il Grande.

Il primo degli Apofetgmi a lui attribuiti nella Serie alfabetica ci narra che «un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto e da fitta tenebra di pensieri. E diceva a Dio: “O Signore! Io voglio salvarmi, ma i pensieri me lo impediscono. Che posso fare nella mia afflizione?”. Ora, sporgendosi un po’, Antonio vede un altro come lui, che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega, poi di nuovo si mette seduto a intrecciare corde, e poi ancora si alza e prega. Era un Angelo del Signore, mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’Angelo che diceva: “Fa’ così e sarai salvo”. All’udire quelle parole fu preso da grande gioia e coraggio: così fece e si salvò” (Serie alfab. Antonio 1). Antonio, dunque, scopre che può dare energia e slancio alla propria vita se le dà un ritmo, una cadenza regolare, una scansione: quello che nella tradizione della Chiesa in Occidente diverrà l’Ora et labora («prega e lavora») di san Benedetto.

Nella vita spirituale l’alternanza e il ritmo sono di fondamentale importanza così come lo sono, nella vita del cosmo, i giorni, con la luce e il buio, e le stagioni; come nella vita fisica lo sono i ritmi del respiro e i battiti del cuore. Questi ritmi ci aiutano a non farci scoraggiare dalla «monotonia» della vita, che è sempre una tentazione anche per la vita spirituale; sono, per di più, di grandissima importanza perché esprimono un qualcosa che è fondamentale nella struttura dell’essere umano, ossia l’essere organizzato in modo di ricevere e dare: nella vita riceviamo (e questo fin dal principio) non per accumulare e assommare, ma per potere e sapere a nostra volta donare. «Fare e lasciarsi fare» è una struttura basilare della nostra vita.

Così è pure nella vita spirituale. Nella preghiera ci lasciamo incontrare da Dio e gli rispondiamo ricambiando l’amore che egli ci manifesta e ci offre in tanti modi: pensiamo alla lectio divina, alla preghiera con le parole dei Salmi, alla celebrazione dei Sacramenti e specialmente dell’Eucaristia, dove noi offriamo e riceviamo. Preghiamo, ad esempio: «Il sacrificio di lode che ti abbiamo offerto, o Signore … orienti la nostra vita alla lode perenne del tuo nome» (Messale Romano, Memoria di sant’Ignazio di Loyola). D’altra parte, nel lavoro e nelle opere dei nostri doveri quotidiani noi siamo chiamati a scoprire la gioia del donarsi, del mettere a disposizione degli altri i nostri sforzi e le nostre fatiche, del dare per il bene comune un po’ del nostro tempo, delle nostre energie, della nostra creatività ed entusiasmo.

Uno dei santi maestri ai quali personalmente amo ispirarmi è san Paolo VI, il quale, in un testo che risale agli inizi degli anni ‘50 si chiede come apprendere l’arte di coltivare la vita interiore mentre si è costretti ad attendere ad un’intensa vita esteriore. Coniò, dunque, la formula del metodo della simultaneità dove premesse fondamentali sono sia la consapevolezza del valore della vita interiore e dell’obbligo di coltivarla per non inaridirsi, sia la necessità, imposta dal dovere o da altre circostanze, d’impegnarsi in lavori che costringono a limitare e regolare il proprio tempo.

Si tratta, in fin dei conti, d’imparare a trasformare in preghiera i propri doveri quotidiani, ma pure a non trovare nella preghiera la scusa per non farli (che è poi il vizio dell’accidia). Mi torna alla memoria ciò che scriveva san Vincenzo de’ Paoli e leggiamo nella seconda lettura della Liturgia delle Ore il giorno della sua memoria, il 27 settembre: «Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi. Se nell’ora dell’orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente. Offrite a Dio la vostra azione, unendovi l’intenzione dell’orazione. Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l’orazione. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia un’opera di Dio per farne un’altra. Se lasciate l'orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. È una grande signora: bisogna fare ciò che comanda».

La riflessione in proposito, carissimi, potrebbe certo dilungarsi ma chiudo citando un autore medievale – Guglielmo di Saint-Thierry – che così commentava il passo del Cantico dei Cantici dove si legge che la Sposa abbraccia con le sue due braccia lo Sposo (cf. Cant 2,6). Scrive infatti: «Con la sinistra e la destra, la sposa si stringe al cuore dello sposo, quando tutto coopera per lei all’amore di Dio; e l’uso buono delle realtà temporali e il godimento devoto di quelle eterne... Questo è l’abbraccio della carità: quello di una destra laboriosa e di una sinistra amica della quiete, cioè da una parte l’esercizio della vita attiva, che si dà da fare per i molti servizi, e dall’altra la tensione alla contemplazione, che offre un dolce sollievo al capo della sposa. Così, la sposa amata si stringe al cuore dello sposo con due braccia o con due mani, cioè con quella dell’azione buona e quella della santa contemplazione» (Commento al Cantico dei Cantici nn. 131-132: ed. Paoline, Milano 2008, pp. 237-238). È, in fin dei conti, lo stesso insegnamento, che ci viene dall’esperienza spirituale di sant’Antonio abate.

Roma - Collegio Maronita Mariamita di Sant’Antonio abate, 18 gennaio 2025

Marcello Card. Semeraro