Omelia nella festa liturgica di Santa Rita da Cascia

 

Cade una Spina dall’alto e un cespuglio fiorisce di rose

Omelia nella festa liturgica di Santa Rita da Cascia

 

Ringrazio di cuore il vostro Arcivescovo, che mi ha invitato a celebrare insieme con voi l’Eucaristia nella festa di questa santa – Santa Rita – così universalmente nota, amata e invocata. Ho voluto, preparandomi a questo incontro, prendere dall’Archivio del Dicastero delle Cause dei Santi il volume della Positio super virtutibus stampata nel 1897 per la sua canonizzazione. Vi ho trovato il testo latino dell’ufficio liturgico con l’Inno per i Vespri. Esso percorre in sintesi la storia della santa a cominciare dal richiamo alle api, che fin dall’inizio è presente nella tradizione ritiana: le api, ruotandole sulla bocca preannunciano che le sue parole sarebbero state dolci come il miele. Subito dopo l’Inno richiama come ella sia entrata, esemplarmente, nei diversi stati di vita cristiana: coniugale, vedovile e di vita consacrata. C’è quindi il ricordo del miracolo della stigmatizzazione: Dum cruci affixum Dominum precatur – dice il verso poetico – Caeditur spina… Il Crocifisso risponde alla sua preghiera donandole una delle spine della sua corona.

Questo fenomeno mistico fu doverosamente richiamato nella Informatio preparata in vista del processo per la canonizzazione: «avendo inteso la predica della Passione fatta qui in Cascia dal Beato Giacomo della Marca – disse un testimone – concepì un vero desiderio di essere a parte di quelle pene che Gesù ha voluto soffrire per amore nostro…» (Positio, p. 37 n. 89). Quando poi San Giovanni Paolo II ricordò il VI centenario della nascita, scrisse che il segno della spina, al di là della sofferenza fisica che le procurava, fu in Santa Rita come il sigillo delle sue pene interiori; più ancora, però, fu la prova della sua diretta partecipazione alla Passione del Cristo (cf. Lettera del 10 febbraio 1982 all’arcivescovo Alberti).

Nell’Udienza successivamente concessa il 20 maggio 2000 ai devoti di Santa Rita, ancora San Giovanni Paolo II mise in evidenza un altro aspetto. Disse: «La stigmata che brilla sulla sua fronte è l’autenticazione della sua maturità cristiana. Sulla Croce con Gesù, ella si è in certo modo laureata in quell’amore, che aveva già conosciuto ed espresso in modo eroico tra le mura di casa e nella partecipazione alle vicende della sua città». Laureata nell’amore! L’immagine è davvero efficace. Riecheggia per alcuni aspetti l’antica preghiera colletta: in corde et fronte charitatis et passionis tuae signa portaret, il Signore ha conferito a Santa Rita la grazia «di portare nel cuore e sulla fronte i segno dell’amore e della passione di Cristo». Sono elementi che arricchiscono il richiamo dell’attuale orazione liturgica, nella quale poco fa abbiamo richiamato la sapienza della croce e la virtù della fortezza.

Ed è quello che molti anni or sono – giungendo per più anni consecutivi a Roccaporena per dei corsi estivi di teologia che negli anni ’80 lì si tenevano e per i quali ero chiamato come docente – vidi in un denso quaderno pubblicato in quegli anni dal padre agostiniano Agostino Trapè. L’ho cercato fra i miei libri per questa occasione. La stigmatizzazione – egli scriveva – fu il vertice della vita mistica di Santa Rita e la sua contemplazione ci introduce «nell’aspetto più sublime e insieme più difficile del suo messaggio, quello della sofferenza: la sofferenza chiesta ed ottenuta per amore di “compassione”» (Santa Rita e il suo messaggio, Terni 1981, p. 43).

Abbiamo tutti insieme ascoltato un passo del Vangelo in cui Gesù ci ricorda che dobbiamo essere uniti a lui come il tralcio alla vite. «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,4-5). L’immagine ci giunge dal mondo dell’agricoltura, ma vuol dirci qualcosa di essenziale per un discepolo di Gesù. Sant’Agostino (e con Santa Rita siamo senz’altro in un contesto agostiniano) predicava che «noi tutti insieme, uniti al nostro Capo, siamo il Cristo; senza il nostro Capo non valiamo nulla. Perché? Perché con il nostro Capo siamo la vite; senza il nostro capo – il che non sia mai – siamo tralci spezzati, destinati non a qualche opera dell’agricoltore, ma soltanto al fuoco. Per questo anche Egli nel Vangelo dice: Io sono la vite, voi siete i tralci, il Padre mio è l'agricoltore; e aggiunge: senza di me non potete far nulla». Concludeva con questa invocazione: «Sì, o Signore, nulla senza di te, ma tutto in te. Poiché tutto quello ch’Egli fa per mezzo nostro, sembra che siamo noi a farlo. In verità Egli può molto, tutto, anche senza di noi: noi niente senza di Lui» (Enarrat. in Psalmos, XXX, II/1, 4: PL 36, 232).

Quello che diceva Sant’Agostino dobbiamo applicarlo a tutti noi e per questo Santa Rita ci è di modello. Un teste del processo per la canonizzazione disse che «Essa attingeva la carità verso il prossimo dal cuore di Gesù, cui voleva assomigliarsi in tutto» (Positio, p. 44 n. 103). In un’altra testimonianza si legge: «L’amore di Dio della nostra Beata non era ozioso, ma operativo e modellato sulla carità di Gesù Cristo» (Ibid., p. 105). Una testimonianza unanime, poi, è che la nostra Santa, «avendo veduto una volta d’inverno un povero che per mancanza di panni tremava. Tosto si tolse una veste di dosso e gliela diede in elemosina» (Ibid. p. 105). È l’antico segno di carità. «A chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro…», dice Gesù (Lc 6,29-30).

Dalla proclamazione del Vangelo abbiamo ascoltato pure un’altra parola: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Il richiamo alla gioia per molto tempo è stato tagliato fuori della predicazione cristiana. Alla gioia, però, nel corso dell’Anno Santo 1975 San Paolo VI dedicò una esortazione apostolica, la Gaudete in Domino, ed è questo un tema che spesso è stato ripreso da Papa Francesco, fin dalla sua prima esortazione apostolica, che si inaugura con queste parole: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (Evangelii gaudium, n. 1).

Nonostante l’aspra sofferenza provocatole dalla stigmatizzazione ella fu sempre piena di gioia. Non parlo solo della sofferenza fisica, ma pure di altre umiliazioni legate al segno della ferita della passione. Nella Positio che ho già altre volte citato, si legge «che la ferita si convertì in piaga nauseante per cui la Beata divenne il disprezzo delle altre Monache, che col linguaggio dei Contadini la chiamavano Rita lercia che vuol dire sudicia e sporca e la schifavano. Ma la Beata tutta accesa da amore di Dio, e desiderosa di essere simile a Gesù Crocifisso, non solo soffriva tutto con pazienza, ma amava ancora i patimenti e i disprezzi» (Summ. Num. X, 71, p. 101).

Spina spes gloriae. Per il p. Agostino Trapè è la frase che sintetizza la vita di Santa Rita. Non per nulla l’Inno per le Lodi dell’antica ufficiatura in suo onore collega il tema della spina della stigmatizzazione a un altro prodigio occorso quando la nostra Santa era ormai negli ultimi giorni di vita e chiese a una sua cugina venuta a visitarla da Roccaporena di portarle dall’orto della casa paterna due fichi e una rosa. Come fare? Si era in inverno! La cugina, però, volle accontentarla e con sua sorpresa, tornata a casa, trovò in mezzo alla neve una rosa e due fichi sicché, stupefatta, subito tornò a Cascia per portarli a Rita. Il canto liturgico collega questi due segni di sofferenza e di gioia e dice: Spina superne caeditur, Rosis viretum purpurat, «dall’alto si spezza una spina e [sulla terra] un cespuglio ancora verde rosseggia di rose»!

Spina spes gloriae. Nonostante i drammi e i dolori che accompagnarono le vicende della sua vita, ella «ebbe nel cuore la gioia e la diffuse intorno a sé… Diffuse, infatti, la gioia del perdono pronto e generoso, della pace amata e perseguita come bene supremo, dell’amore fraterno e sincero, della fiducia in Dio piena e filiale, della croce portata con Cristo e per Cristo» (Trapè, op. cit., p. 49).

Questa medesima gioia, per sua intercessione, noi oggi la invochiamo per noi, per le nostre famiglie, per questa Comunità diocesana e per tutta la Santa Chiesa.

 

Cascia, Sala della Pace, 22 maggio 2023

 

Marcello Card. Semeraro