Sale della terra, luce del mondo
Omelia nella memoria del beato Giovanni Duns Scoto
Nel corso di una solenne liturgia celebrata il 20 marzo 1993 san Giovanni Paolo II dichiarò ufficialmente il riconoscimento del Culto Liturgico di Giovanni Duns Scoto, ossia l’evento che con il vostro Convegno di studi voi state ricordano a distanza di trent’anni. Nell’omelia tenuta in quella circostanza il Papa sottolineò in particolare la consonanza fra l’acutezza dell’ ingegno e la straordinaria capacità di penetrazione nel mistero di Dio propri del nostro Beato e la forza persuasiva della sua santità di vita. Aggiunse che è proprio questo a renderlo, per la Chiesa e per l’intera umanità, maestro di pensiero e di vita. Al beato Duns Scoto, in effetti, stava molto a cuore – e la praticava – la consonanza tra la verità contemplata e la praxis, che si esprime nella vita vissuta attraverso l’esercizio delle virtù, sotto il primato della carità che le unifica. Di lui, nella lettera apost. Alma parens (14 luglio 1966) san Paolo VI citò la frase: «L’amore è veramente prassi» (n. 14; cf. Ord. prol., pars 5, q. 1-2).
Io vi ringrazio per avermi invitato a presiedere questa Liturgia Eucaristica in memoria del Beato. È ben noto, peraltro, quanto Duns Scoto amasse l’Eucaristia e le fosse devoto. Una sua affermazione mi ha sempre fortemente impressionato, anche per il forte legame che esprime con la realtà della Chiesa. Essendo molto conosciuta potrei esimermi dal citarla; almeno a me, però, fa bene ripeterla poiché richiama il permanere della promessa di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Nel sacramento dell’Eucaristia, infatti, Gesù è realmente e per sempre con noi; che se, per un paradosso, egli non fosse presente in questo Sacramento – egli diceva – tutti gli altri sacramenti perderebbero d’importanza, diverrebbe inutile ogni forma di devozione nella Chiesa e andrebbe perduto lo stesso culto a Dio (cf. Report. Paris. IV, d. 8, q. 1).
È stata appena proclamata una pagina di vangelo durante la quale abbiamo ascoltato queste parole del Signore: «Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13-14). Portiamo allora su di esse la nostra attenzione. Poco prima Gesù aveva proclamato le Beatitudini (ho veduto dal programma che domani vi sarà una relazione su La beatitudine secondo Giovanni Duns Scoto). Le si potrebbero considerare un po’ come l’appello fatto da Gesù a quanti si erano iscritti alla sua scuola. Per essere suoi discepoli, però, non è sufficiente l’iscrizione. Occorre di più. Nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla comune e universale chiamata alla santità Francesco ha scritto che possiamo vivere le Beatitudini «solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio» (n. 65). Per questo, dopo averle proclamate Gesù comincia a dirci quello che ci è necessario per poterci dire davvero suoi discepoli e lo fa ricorrendo all’esempio di due elementi naturali: il sale e la luce.
Sul significato di questa metafora si potrebbe parlare a lungo; noi, però, ci fermiamo all’essenziale e ci domandiamo: a cosa servono il sale e la luce? Il sale serve a dare il sapore e la luce per illuminare. Non c’è gusto nel mangiare una vivanda, se è senza sapore; ugualmente, una lampada che non illumina ha perduto il suo scopo. Cosa fanno, dunque, il sale e la luce? Operano un cambiamento nella realtà in modo che tutti possano goderne. Ora, Gesù ci chiede qualcosa di simile. Voi siete miei discepoli, dice, ma questo non è per avere un titolo di cui vantarsi: io vengo dal tale liceo, mi sono laureato nella tale università … No! Gesù ci dice piuttosto che la ragione per la quale vogliamo essere suoi discepoli deve essere il dare sapore, gioia, gusto, senso, ragione al mondo e questo vivendo per gli altri! Sale della terra, dice e luce del mondo. Non un nostro ornamento, ma in vista del nostro essere-per. In fondo, Gesù è stato sale della terra e luce del mondo nel mistero della Croce. Sappiamo che per Duns Scoto il Crocifisso rappresenta il culmine dell’amore di Dio per noi (cf. Ord. III, d. 20, q. un, n. 11).
Torniamo, allora, per qualche momento, alla funzione gaudiosa ed espansiva del sale e della luce. Questa funzione Duns Scoto l’ha intuita presente fin nell’opera creatrice di Dio. Dio è il primo amante. L’Io sono chi sono di Es 3,14 è, per Scoto uguale al Deus caritas est (1Gv 4,16). Il prefazio di questa memoria ci farà dire: «Con la potenza delicata del tuo Amore hai infiammato il beato Giovanni Duns Scoto, del mistero del tuo Essere-Carità».
C’è un testo di Duns Scoto nel quale si può leggere questa espansività amorosa di Dio, simile a luce che si diffonde. Dice: «Dio ama in primo luogo se stesso; in secondo luogo ama se stesso negli altri, e questo è puro amore; in terzo luogo vuole essere amato da qualcuno che lo possa amare al massimo grado possibile per un essere estrinseco a se stesso; finalmente, prevede e quindi decide l’unione ipostatica di quella natura ossia della natura umana di Cristo che deve amarlo al massimo grado possibile, indipendentemente dal fatto che l’uomo sia caduto» (Report. Paris. III, d. 7, q. 4). Per il p. Giovanni Lauriola ofm – grande studioso del nostro Beato – in questo brano c’è la chiave ermeneutica della sua mistica. Duns Scoto, dice, «osa umilmente penetrare con la sua potente speculazione amorosa direttamente nel cuore dell’agire divino e, sempre con umiltà del saggio, balbetta l’ordine logico e ontologico intravisto nel silenzio sublime di Dio. È la più grande conquista mistica della storia (cf. testo in http://incamminoverso.unblog.fr/2013/11/07/la-mistica-di-duns-scoto/).
Benedetto XVI commenterebbe: «come quest’amore, questa carità, fu l’inizio di tutto, così anche nell’amore e nella carità soltanto sarà la nostra beatitudine» (Lett. apost. Rallegrati, città di Colonia del 8 ottobre 2008). Con questa speranza proseguiamo la nostra Santa Messa.
Basilica di sant’Antonio al Laterano – Roma, 7 novembre 2023
Marcello Card. Semeraro