Sale della terra, luce del mondo
Omelia nella memoria di san Tommaso d’Aquino nell’VII centenario della nascita
La memoria di san Tommaso d’Aquino coincide in questo 2025 con gli ottocento anni dalla sua nascita. Li ricordiamo con gratitudine al Signore, per questa ulteriore «luce» che Egli ha voluto accendere nella sua Chiesa e lo facciamo dopo avere celebrato, lo scorso anno, i 750 anni dal suo passaggio alla casa del Padre (1274) e, l’anno ancora precedente, i 700 anni dalla sua canonizzazione (1323).
Sull’anno di nascita del Dottore angelico c’è ormai, tra gli studiosi, una concordanza; come pure sul luogo dove avvenne, individuato nel castello di famiglia di Roccasecca. Per il resto, però, non sappiamo molto. È, comunque, certo che il padre, Landolfo aveva sposato in seconde nozze Teodora, una nobile napoletana da cui ebbe almeno nove figli: quattro maschi, di cui l’ultimo, appunto, Tommaso e cinque femmine, sulle quali abbiamo notizie più precise. Riguardo a una, ad esempio, di nome Teodora, sappiamo che, nella sua ultima infermità, Tommaso scelse di riposarsi presso la sua casa; dell’ultima, poi, sappiamo che morì da piccolina uccisa da un fulmine durante una terribile tempesta che si abbatté all’improvviso sulla torre dove dormiva con il piccolo Tommaso. Egli però ne rimase salvo e questo fu letto come il primo dei segni che permettevano di presagire il suo futuro (cf. Guglielmo da Tocco, Vita, 3).
La leggenda agiografica si dilunga pure su un altro episodio della vita di Tommaso quand’era piccolino: gli accadde di avere tra le mani un foglietto e di stringerlo senza rassegnarsi a lasciarlo; quando poi la mamma riuscì ad aprirgli la mano, vide che su quella carta era trascritta l’Ave Maria. Da quel momento – prosegue Guglielmo da Tocco – tutte le volte che per qualunque motivo avesse iniziato a piangere, la nutrice riusciva a calmarlo solo mettendogli tra le mani un foglietto, che il piccolo Tommaso afferrava e portava subito alla bocca….
Erano, per il suo biografo, i primi segni di quella abituale e silenziosa ruminatio – ossia meditazione – della Sacra Scrittura, che lo rese particolarmente esperto della Sacra Scrittura sicché saprà distinguere nell’Antico Testamento il senso spirituale dalla lettera scritta e, nel Nuovo, spiegare i divini misteri in modo talmente gustoso da suscitare il desiderio di nutrirsene (cf. Ibidem, cap. 4). E davvero, chi conosce e studia l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino riporta in sé questo effetto: l’amore per la Parola di Dio e il gusto nel leggerla.
Questo, fratelli carissimi, possiamo sperimentarlo commentando, ad esempio, questa sera la parola del Vangelo che è stata proclamata, ossia il passo in cui Gesù dice ai suoi discepoli: «Siete voi il sale della terra… siete voi la luce del mondo». Sono parole che seguono immediatamente la proclamazione delle Beatitudini: dopo averlo fatto Gesù avverte i suoi discepoli che proprio in esse devono trovare la propria vocazione e la missione da adempiere.
Dice, dunque, a loro (ed a noi) che debbono essere il sale della terra, ossia ciò che permette di non deteriorarsi, di conservare la genuinità, la purezza iniziale. E quante volte anche noi cristiani sentiamo la tentazione di mondanizzarci, di annacquare le esigenze della fede cristiana, di essere cristiani, come suole dirsi, «all’acqua di rose»! Dice pure che dobbiamo essere luce del mondo: aiutare, cioè, a osservare le cose, a non fraintenderle, a non prendere «lucciole per lanterne», a mostrare con le opere concrete cosa comporta l’essere cristiani.
Come san Tommaso ha spiegato queste parole di Gesù? Sale della terra – egli commenta – vuol dire che non siamo cristiani per il nostro vantaggio, ma per il bene di tutti. Nessun cristiano è un’isola, ma è sempre con gli altri e deve esserlo come testimone. Tommaso traduce così le parole di Gesù: «Quello che vi sto insegnando non lo dico soltanto perché voi vi salviate e neppure lo dico solo per un popolo, ma per tutte le genti» (cf. Catena in Mt., cap. 5, l. 10). Il cristianesimo non è una religione nazionale, ma universale! Luce del mondo, poi, per Tommaso vuol dire anzitutto che noi non brilliamo di luce propria. Il cristiano è lux illuminata. La luce unica e vera è Cristo: siamo luce perché siamo congiunti a Cristo sicché, se ci distacchiamo da Lui, diventiamo tenebra: a quo si quis recesserit, tenebratur (cf. Catena in Io., cap. 12, l. 7; cf. Super Io., cap. 12, l. 8).
Nella spiegazione di san Tommaso possiamo pure riconoscere lui stesso, ossia cosa pensava di se, come vedeva la sua missione nel mondo. Mi riferisco a un passo della Catena in Mt dove scrive: «Come i dottori sono sale con cui il popolo è condito a motivo della loro buona condotta, così pure sono luce che illumina chi è ignorante a causa della parola della dottrina. Tuttavia, è più necessario vivere bene che insegnare bene ed è per questo che Gesù esorta i suoi apostoli a essere luce soltanto dopo averli esortati ad essere sale» (cf. cap. 5, l.11). Penso che Tommaso abbia pure voluto comunicarci che la sua prima preoccupazione non è stata quella di essere un buon professore universitario, ma piuttosto quella di essere un buon cristiano, un fedele discepolo di Gesù. Per questo, andando verso il termine della vita considerò «paglia» tutto ciò che aveva scritto e smise di fare il professore.
È lo stesso ammaestramento che cogliamo dalle ultime sue parole, pronunciate prima di ricevere il Viatico nel momento della morte nell’abbazia di Fossanova: «Ti ricevo, prezzo della redenzione della mia anima, io ti ricevo viatico del mio pellegrinaggio, per il cui amore ho studiato, vegliato, sofferto: ho predicato te, ho insegnato te…» (Vita, 58).
Al Signore, dunque, ripetiamo la preghiera della Colletta: donaci di comprendere gli insegnamenti di san Tommaso, ma, più ancora, di imitare i suoi esempi.
Roma – Basilica di Santa Maria sopra Minerva, 28 gennaio 2025
Marcello Card. Semeraro