Antonio di Padova: il messaggio della sua figura
Omelia nella memoria liturgica di sant’Antonio di Padova
Ho accolto subito e con gioia l’invito del vostro Vescovo a celebrare insieme con voi la festa di sant’Antonio di Padova e l’ho fatto per un duplice motivo: anzitutto per il legame di fraterna amicizia che mi lega a lui. Lo ringrazio di vero cuore e con lui saluto voi tutti, in particolare la Pia Unione sant’Antonio di Padova. La seconda ragione che mi ha incoraggiato a onorare il Santo insieme con tutti voi è legata al fatto che egli è il protettore anche del mio paese, in Puglia. Quante prediche ho ascoltato fin da ragazzo e quante «tredicine» ho celebrato in occasione delle sue feste! Guardo, allora, con grande devozione all’immagine, che tradizionalmente lo raffigura: una mano che regge un libro, dove è deposta l’immagine del Bambino Gesù, e l’altra che porta un giglio. Perché questi simboli, queste figure?
Consideriamo anzitutto quella di Gesù Bambino. Donde proviene questa raffigurazione? Si narra che prima di morire Antonio abbia espresso il desiderio di vivere in solitudine e per questo gli fu messo a disposizione un terreno vicino a Padova, più precisamente a Camposampiero, che il nobile Tiso aveva affidato ai francescani. Qui, tra i rami di un maestoso albero di noce, gli fu allestita una piccola dimora, dove potere trascorrere le sue giornate di contemplazione, rientrando nell’eremo solo la notte. È proprio qui che avviene un prodigio. Il conte Tiso decide di andare a trovare il suo amico Antonio, ma appena entra nella celletta vede che egli stringe fra le braccia il piccolo Gesù Bambino. I due sono circondati da una luce abbagliante. Quando Antonio si “risveglia” dall’estasi e vede Tiso commosso, lo prega di non parlare con nessuno dell’apparizione celeste. Dopo la morte del Santo, però, egli racconterà quello che aveva visto.
Al di là di questo episodio, c’è un sermone di sant’Antonio che desidero leggervi, perché ci dice tutto il suo amore per Gesù. Il tema richiamato è più noto a noi per l’inno liturgico Iesu dulcis memoria fatto risalire a san Bernardo da Chiaravalle (+1153), che dice così: «O dolce memoria di Gesù… nulla si può pensare di più dolce se non Gesù, figlio Dio». Anche sant’Anselmo d’Aosta (+1193), contemplando la passione di Cristo, dirà qualcosa di simile (cf. Meditatio X: PL 158, 276). Antonio canta come loro la dolcezza di Gesù, che fu «dolce nel grembo, dolce nel presepio… dolce sulla croce… e infinitamente dolce nella gloria del cielo». Così conclude: «O dolce Gesù, che cosa è più dolce di te? Dolce è il tuo ricordo (dulcis tua memoria), più del miele e di tutte le altre dolcezze: il tuo è nome di dolcezza, nome di salvezza. Che cosa significa Gesù, se non Salvatore? O Buon Gesù, proprio per te stesso sii Gesù anche per noi, affinché tu che ci hai dato l’inizio della dolcezza, cioè la fede, ci dia anche la speranza e la carità per meritare di arrivare fino a te» (Purificazione della B.V Maria/II, 10).
Nelle immagini del Santo di Padova c’è, poi, il libro, che, nell’interpretazione dello stesso Antonio, raffigura «l’abbondanza della predicazione». Antonio di Padova è ricordato nella Chiesa come un predicatore; fu, anzi, lo stesso san Francesco a dargli la responsabilità dell’istruzione dei frati. Con la preghiera liturgica noi stessi, poco fa, lo abbiamo invocato «insigne predicatore». In un suo discorso lo stesso Antonio, commentando l’Apocalisse dove una voce dice al veggente di Patmos: «Va’, prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo… e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele» (10,8-9), spiega che la Parola di Dio è certamente «amara» come una medicina che distrugge il male, ma poi diviene «dolce» perché apre alla guarigione e alla salvezza (cf. Sermone Domenica III dopo Pasqua, 1).
Da ultimo, nelle tradizionali immagini che raffigurano Antonio di Padova c’è quella del giglio. Di questa pianta lo stesso Santo descrive tre proprietà: il medicamento, che si trova nella sua radice, il candore e il profumo che sono nel fiore. Ed è proprio qui che il Santo, quando in una sua predica commenta l’espressione «gigli del campo» che si trova nel vangelo secondo Matteo (13,38), dice qualcosa d’interessante. Spiega che ci sono i gigli che crescono nel deserto e questi sono gli eremiti che, rifugiatisi nella solitudine, sono al riparo da tante (ma, ovviamente, non da tutte!) le tentazioni. Ci sono poi i gigli che fioriscono nei giardini recintati – e sono le persone consacrate e – diciamolo pure – anche noi sacerdoti, che l’istituzione pone al riparo da tanti problemi (anche in questo, però, non tutto è così facile!). I gigli del campo, però, sono i fedeli laici che vivono nel mondo «dove tanto facilmente si distrugge la duplice grazia del fiore, vale a dire la bellezza della vita santa e il profumo della buona fama» (Domenica XV dopo Pentecoste, 12). Tanto più meritevole è, dunque, il candore di questi «gigli»!
Carissimi fratelli e sorelle, permettete che vi faccia una confidenza. Nel mio attuale ministero alla guida del Dicastero per le Cause dei Santi rimango sempre ammirato quando incontro la figura di tanti beati e santi, fedeli laici e laiche, che hanno testimoniato Cristo pur nella complessità delle vicende terrene. Penso –per fare un solo nome – a Enrico Medi, che papa Francesco ha dichiarato «venerabile» il 23 maggio scorso. Egli fu allievo dello scienziato e premio Nobel Enrico Fermi, che diresse la sua tesi di laurea. Egli stesso ebbe ruolo di primo piano nella ricerca scientifica: dal 1958 al 1965, ad esempio, fu vicepresidente dell’Euratom e si impegnò per lo sfruttamento pacifico dell’energia atomica. Ebbe anche impegno politico: nel 1946 fu eletto all’Assemblea Costituente e, due anni dopo, deputato al Parlamento italiano. Se questa fu la vita pubblica, non meno intensa fu quella interiore e caritativa, facendosi carico, in maniera del tutto riservata e per lungo tempo, delle necessità economiche di alcune persone in difficoltà che a lui ricorrevano. Davvero un modello di laicità cristiana!
A questo punto mi torna alla mente l’altro titolo con il quale la Chiesa invoca sant’Antonio di Padova: «patrono dei poveri e dei sofferenti». Egli, infatti, ebbe davvero a cuore la sorte dei poveri, degli emarginati, dei deboli e dei sofferenti. In una sua predica, richiamando un passo dell’Apocalisse (cf. 3,20) egli dice che «adesso il Signore, nella persona dei suoi poveri, sta alla porta e bussa; gli si apre quando il povero viene ristorato. Ristoro del povero, riposo di Cristo» (La risurrezione del Signore II, 6). Quest’ultima frase – ristoro del povero, riposo di Cristo – la si potrebbe scrivere sulle porte delle nostre Caritas. Il vostro Vescovo è stato, oltre tutto, direttore di una Caritas diocesana.
In questa Santa Messa – così concludo – è stato proclamato il brano del Vangelo assegnato a questo giorno. Si tratta di Mt 5,20-26, che così comincia: «Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli». Antonio di Padova così commentava: «La giustizia dei farisei consisteva nel trattenere dal male la mano, non l’animo… [consisteva] nel lavarsi le mani e nel lavare i vasi, nella disposizione delle vesti… La giustizia dei discepoli di Gesù consiste nel tenere lontano dalle opere cattive non soltanto la mano, ma pure il cuore e coltivare l’amore fraterno» (Domenica VI dopo Pentecoste, 3). Del Santo di Padova conserviamo pure questo prezioso incoraggiamento alla coerenza. La nostra fede, se pure ha bisogno di manifestarsi in gesti esteriori e in pratiche di vita cristiana, è però anzitutto interiore. Se le nostre opere non scaturiscono dall’interiorità divengono ben presto delle paludi; se, invece, sono alimentate dal flusso di vita che scaturisce dall’intimo del cuore, dove abita Cristo mediante la fede (cf. Ef 3,17), allora sono come acqua che scorre ed è capace di irrigare anche fuori di noi. San Paolo VI diceva che la vita interiore è la «prima personale accoglienza dello Spirito, che ci fa cristiani» (Udienza del 16 agosto 1967). Sia così per ciascuno di noi.
Basilica di sant’Agostino – Rieti, 13 giugno 2024
Marcello Card. Semeraro