Omelia nella Messa in coena Domini 2023

 

Per convincerci del suo amore

Omelia nella Messa in coena Domini 2023

 

I richiami di questa Messa nella Cena del Signore sono molteplici. La rubrica del Messale romano ne ricorda soprattutto tre: «l’istituzione della santa Eucaristia e dell’ordine sacerdotale, come pure il mandato del Signore riguardante la carità fraterna». Li teniamo ben fermi nella nostra memoria per farne motivo di lode al Signore, di riconoscenza e di impegno. Risuonano ancora, però, in questa chiesa, le parole del santo vangelo col racconto della lavanda dei piedi ed è su quel gesto che intendo fermarmi, per cercare di comprenderne un po’ di più il significato, il valore, l’importanza.

Da bambino, tante volte, nello stesso giorno, mi sono sentito dire dalla mamma: «lavati le mani»! Lavarsi i piedi, però, è un’operazione un po’ più complicata, che perlomeno ha bisogno di un po’ più di tempo.

Ma poi, perché Gesù lava i piedi? Certo, nel mondo antico lavare i piedi era un gesto di accoglienza e di ospitalità. Ma è strano davvero che questo gesto Gesù lo abbia fatto non all’inizio, ma «durante la cena». Quale mistero nasconde questo gesto? È il Figlio dell’Altissimo che per salvarci scende, si umilia e si abbassa. Forse che Dio, i cui nemici, come dice un salmo, sono «lo sgabello dei suoi piedi» (Sl. 110,1), ora, nel suo Figlio, Egli li innalza, li perdona e li salva?

Abbiamo ascoltato proprio questo: «cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto». Alcuni padri della Chiesa, i quali nella spiegazione del testo biblico cercavano di non lasciar cadere alcuna parola, hanno spiegato così il particolare di Gesù che lavava i piedi e li asciugava: per risanarci dalle nostre ferite, egli avvolge i nostri piedi col lenzuolo e pure il suo corpo deposto nel sepolcro fu avvolto in un lenzuolo. Ma egli lo lasciò lì, come segno della sua risurrezione.

Altri autori sacri vi hanno riconosciuto l’annuncio dell’acqua e del sangue che sarebbero sgorgati dal suo costato aperto come dono dello Spirito. Fra questi c’è un teologo medievale il quale ha scritto che «nel ministero della lavanda dei piedi, il Signore si è umiliato per tre ragioni specifiche: per darci l’esempio dell’umiltà,

per convincerci del suo amore per noi e per donarcene un sacramento» (Pietro Comestore, Sermo XVII in coena Domini: PL 198,1768). Vediamo un po’.

 

La lavanda dei piedi è esempio di umiltà. Ora, paradossalmente, abbiamo l’occasione cedere all’antica tentazione: essere come Dio (cf. Gen 33,5). Se ci abbassiamo nell’amore per i fratelli, possiamo davvero essere «come Dio», essere imitatori di Dio. Per imitare Dio non dobbiamo essere superuomini. Dobbiamo abbandonarci all’amore, abbassarci nell’amore.

Per convincerci del suo amore per noi, diceva quell’antico teologo. L’amore è domanda, non comando. L’amore si dona, non si prende. Mi vuoi bene? Lo sentiamo dire dai genitori ai propri figli. Anche Gesù lo ha chiesto a Pietro (cf. Gv 21,15-16) e lo domanda a ciascuno di noi. Ha accettato la morte sulla croce, perché ci convincessimo che ci vuole bene. Mi hanno lasciato molto pensoso le parole dette dal Papa nell’Omelia di domenica scorsa, domenica delle palme, sull’abbandono sperimentato da Gesù sulla croce: «Ognuno, ascoltando l’abbandono di Gesù, ognuno di noi si dica: per me… Quando mi sento sbagliato e perso, quando non ce la faccio più, Lui è con me; nei miei tanti perché senza risposta, Lui è lì».

Per donarcene un sacramento: l’attenzione, a questo punto, si sposta sull’Eucaristia. «Prese il pane, che è il cibo più comune per l’uomo e che ne conforta il cuore, per farne il sacramento del suo amore», scrive un altro teologo medievale (cf. Druthmar d’Aquitania, Expositio in Matthaeum, 56: PL 106, 1476).

Richiamando il testo del Cantico dove si legge che forte come la morte è l’amore (cf. 8,6), San Tommaso affermava che fra tutte le passioni la più forte è l’amore (cf. Super Sent., lib. 3 d. 27 q. 1 a. 3 s. c. 3). Se è così, l’Eucaristia, «memoria della sua passione», è davvero memoria del suo amore per noi, appassionato sino alla morte di croce. Bello davvero il commento che faceva il Beato card. Schuster: «Egli prima di morire sfoga la piena del suo cuore, e, pur avendoci sempre amato da tutta l’eternità, in finem dilexit, giungendo oggi sino a finir la vita per noi» (Liber Sacramentorum, III, Marietti, Torino-Roma 1933, 18).

In questa Santa Messa, carissimi, tutto il mistero pasquale, che ci sarà dispiegato nei sacri riti di questi giorni, è in qualche modo annunciato e anticipato. Viviamola, dunque, con quell’intimità, con quel raccoglimento e con quel silenzio che la Liturgia stessa ci suggerisce. Oggi, infatti, come pure domani nella celebrazione della Passione del Signore, il sacro rito si chiuderà, diversamente da tutte le altre volte, nel silenzio. Sarà, questa sera, il silenzio nella «Reposizione del Santissimo Sacramento»; domani, la meditazione sulla morte del Signore. Nessun diacono dirà che «La Messa è finita». Ci vien chiesto, invece, di prolungare il rito nel silenzio.

In effetti, «la sfera della fede e la sfera del silenzio sono connesse. Il silenzio è la base naturale sulla quale si realizza il soprannaturale della fede… Normalmente, all’infuori della preghiera, il silenzio nell’uomo serve alla parola dell’uomo, ma ora, nella preghiera, la parola della preghiera serve al silenzio che è nell’uomo: la parola porta il silenzio umano sino al silenzio divino» (Max Picard, Il mondo del silenzio, Servitium ed., Sotto il Monte 1996, 181.184).

 

Roma, diaconia di Santa Maria in Domnica, 6 aprile 2023

 

Marcello Card. SEMERARO