Omelia nella professione monastica di Sr. Elisa Bernadette Palazzo O.S.B.

Ascolta o figlia

Omelia nella professione monastica di Sr. Elisa Bernadette Palazzo O.S.B.

 

1. Celebreremo fra poco il rito della professione monastica di Sr. Elisa Bernadette Palazzo O.S.B. Lo facciamo in una Domenica di Pasqua che vede celebrare, oramai da 59 anni, la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. La coincidenza temporale tra le due celebrazioni è bella e significativa. Per questa Giornata il Papa ha inviato un Messaggio nel quale rievoca lo sguardo amorevole e creativo di Dio per ciascuno di noi. «La nostra vita cambia quando accogliamo questo sguardo – scrive –. Tutto diventa un dialogo vocazionale, tra noi e il Signore, ma anche tra noi e gli altri. Un dialogo che, vissuto in profondità, ci fa diventare sempre più quello che siamo».

Anche tu, cara Sr. Elisa Bernadette, se ti lasci guardare dal Signore vedrai sviluppare tutte le tue potenzialità, umane e cristiane. Sappi che la tua vita cresce per davvero, quando accogli lo sguardo del Signore. Quando Dio sceglie, non distrugge l’opera della sue mani per farne tutt’altra cosa. Egli, piuttosto, che ha dato forma alla nostra vita umana, col suo sguardo misericordioso la tras-forma, ossia la innalza, la sublima tutta intera. È uno sguardo, il suo, che ti farà crescere come un fiore sotto i raggi del sole e ti farà fruttificare.

Questa quarta Domenica pasquale, poi, a motivo del passo evangelico che in essa viene proclamato è pure chiamata del «Buon Pastore». È una figura, questa del pastore, ampiamente documentata nella Sacra Scrittura. Lo è anche nei vangeli: pensiamo alla parabola della pecora smarrita nei racconti secondo Matteo (cf. 18,12-14) e secondo Luca (cf. 15,3-7). In estrema sintesi, ma originalmente, la stessa parabola la troviamo anche nell’apocrifo vangelo secondo Tommaso. È bella ed io amo spesso riferirla. Dice così: «Il Regno è come un pastore che aveva cento pecore. Una di loro, la più grande, si smarrì. Lui lasciò le altre novantanove e la cercò fino a trovarla. Dopo avere faticato tanto le disse: “Mi sei più cara di tutte le altre novantanove”» (n. 107).

 

2. Anche nella pagina del vangelo che è stata proclamata poco fa c’è un pastore che parla ed è sempre Gesù. Dice: «Le mie pecore ascoltano la mia voce…». Soffermiamoci, allora, su questa parola del Signore; a motivo, però, del rito che stiamo per celebrare, colleghiamola con le prime parole del Prologo della Regola di San Benedetto: «Ascolta, o figlio…». Cerchiamo di fare una lettura sinottica di queste due espressioni: «Le mie pecore ascoltano…» e «Ascolta, o figlio…».

Un commentatore medievale della Regola benedettina – si tratta di Paolo Diacono, un letterato longobardo poi divenuto monaco a Monte Cassino (per quel che segue in proposito, cf. Expositio Prologi Regulae santi Benedicti: PL 95, 1581) – annota che nei codici il verbo «ascoltare» è presente in due forme latine: ausculta e obsculta. I due verbi non sono molto differenti tra loro, giacché l’uno e l’altro si riferiscono all’atto dell’udire. Indicano, però, due differenti modalità dell’ascolto. Ausculta, difatti, mette in maggiore evidenza un ascolto personale, fatto con attenzione, con devozione; obsculta sottolinea, a sua volta, l’ascolto in comune.

Ausculta, dunque: con quale attenzione ascoltare? Quella che un figlio deve prestare alle parole del padre. Benedetto scrive per questo: Ascolta, o figlio. A questo punto, però, il nostro antico commentatore rimane sorpreso e con lui anche noi. A san Benedetto, infatti, sarebbe bastato dire: «Ascolta, figlio…». È pur sempre una esortazione paterna. A san Benedetto, però, non è bastato. Egli ha voluto aggiungervi una interiezione. Così ha scritto: «Ascolta, o figlio…»! Quella «o» è un’aggiunta di tenerezza, lo svelamento di un amore grande.

Anche il pastore evangelico parla alla stessa maniera. Dopo, infatti, aver detto che le pecore ascoltano egli aggiunge: «io le conosco». Nel linguaggio della Bibbia «conoscere» è un verbo che molte volte indica addirittura un rapporto d’amore. «Le mie pecore ascoltano e io le conosco...», dice.

Ma cosa c’è prima? Il conoscere o l’amare? Nel sentire filosofico c’è senz’altro prima il conoscere. Nihil volitum quin praecognitum, dice un assioma medievale, che significa: «Nulla può essere voluto, che non sia stato prima conosciuto». Il poeta latino Ovidio scriveva: Ignoti, nulla cupido (Ars amatoria III, 397). È un verso famoso, che significa: «Non si desidera ciò che non si conosce». Diciamocelo pure: è anche il principio su cui si basa tanta pubblicità!

La teologia spirituale, però, segue un principio inverso: quello che dice: amor notitiam generat, è l’amore che ti fa conoscere. Questo principio vale specialmente nelle relazioni personali e specialmente nell’incontro con Cristo. Scrive Guglielmo di Saint-Thierry: «È l’amore a dare conoscenza. Se Dio non lo ami, non lo conosci, Se Cristo non lo ami, non lo conosci. È lo Spirito che Egli ti dona a fartelo conoscere» (Disputatio adv. Abaelard., VII, 4: PL 180, 272). Così pure Riccardo di San Vittore: «È l’amore che ti fa conoscere, sicché mentre tu ami il tuo Salvatore sempre di più conosci il suo amore per te e qual è stato il prezzo della sua immensa carità» (Explicatio in Cant., XXVII: 196, 442).

Applichiamo questo principio alle parole di Gesù: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco…». Ascoltano perché sanno di essere amate? Penso di sì. C’è sempre al primo posto l’amore di Gesù, il buon pastore. Per san Benedetto è la stessa cosa: ecco perché in quella parola «figlio» vuole riversare tutto l’affetto di un padre: «Ascolta, o figlio…». La vita spirituale, intende San Benedetto, è una relazione. Se ti chiudi in te stesso e rifiuti l’amore, non cresci, non vivi.

«Ascolta, o figlio…». Nella vita spirituale (come nella vita fisica, d’altronde) non si cresce da soli. Si cresce soltanto se c’è la cura, la premura, la guida, il sostegno di una figura paterna/materna. Su questo punto, la tradizione dei padri del deserto è unanime. Antonio il Grande lo diceva con tono molto realistico: «Conosco dei monaci che dopo molte fatiche sono caduti e usciti di senno perché avevano confidato nelle loro opere e trascurato quel precetto che dice “interroga tuo padre ed egli te lo comunicherà» (Serie Alfab., Antonio, 37; cf. Deut 32,7).

In epoca più recente san Giovanni d’Avila, grande maestro spirituale che ha accompagnato santi come Ignazio di Loyola e Teresa d’Avila, nel suo Audi filia raccomandava: «Chiedi con insistenza al Signore che con le sue mano metta sul tuo cammino una buona guida spirituale e quando lo avrà fatto aprigli con sicurezza il tuo cuore e non nascondergli nulla, né il bene, né il male: il bene perché lo orienti, il male perché lo corregga… La vita dei santi padri testimonia che l’essere sottomesso all’anziano era considerato il grande segno che uno era arrivato alla perfezione» (cf. ed. BAC Maior, Madrid 2015, 491-492). Facendogli eco, dice la stessa cosa san Francesco di Sales, il quale nella sua Filotea scrive: «Vuoi metterti in cammino verso la perfezione? Trova qualcuno che ti sia di guida e ti accompagni: è la raccomandazione delle raccomandazioni» (I, 4: ed. Paoline, Milano 1984, 28-29).

 

3. Se questo è l’ausculta – riprendo a seguire il commento di Paolo Diacono – l’obsculta indica un ascolto fatto «in comune», attuato nella comunità. È un ascolto che, rispetto al primo, contiene un di più, che comprende solo chi lo ha sperimentato. Fu così per san Gregorio magno, il quale ammetteva con umile sincerità: «So che per lo più molte cose nella Sacra Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli. Attraverso questa scoperta ho cercato di capire anche questo: mi sono reso conto che l’intelligenza mi era concessa per merito loro. Ne consegue, per dono di Dio, che il senso cresce e l’orgoglio diminuisce, quando per voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno; perché – è la verità – per lo più ascolto con voi ciò che dico» (Hom. in Ez. II, II, 1: PL 76, 949).

È una testimonianza fondamentale a favore della lectio fatta in comune e dell’ascolto nell’assemblea liturgica. Come insieme stiamo facendo adesso. «Le mie pecore ascoltano…». È in fondo il medesimo criterio-guida per il discernimento in comune; quello che dev’essere il primo impegno per una Chiesa in «cammino sinodale», come si ripete da un po’ di mesi anche nelle Chiese in Italia.

«Ascolta, o figlio…». Il servo di Dio don Divo Barsotti, nel suo commento al Prologo della Regola di san Benedetto spiegava che ,

«ascolta è parola assoluta. Non vi è tempo, non ci è luogo in cui questa parola non risuoni per te» (Divo Barsotti,“ascolta o figlio…”. Commento spirituale al prologo della Regola di san Benedetto, Fondazione Divo Barsotti-Paccagnella ed., San Lazzaro di Savena 1998, 25).

La voce dal cielo dice: ««Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». (Mc 9,7; cf. Mt 17,5; Lc 9,35). Essere cristiano – diceva un grande teologo contemporaneo: Karl Rahner S.J. – vuol dire essere uditore della Parola. E san Giovanni evangelista ci rassicura: «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). Vuol dire che è nell’ascolto che si diventa figli. Ricordiamolo soprattutto ogni volta che la Chiesa ci invita a pregare il Pater: «Obbedienti alla parola del Salvatore … osiamo dire: Padre nostro».

«Le mie pecore ascoltano…».

«Ascolta, o figlio…». La vita spirituale è qui. La vita monastica è qui. La via della santità è qui.

Concludo ripetendo per Sr. Elisa Bernadette ed anche come augurio per lei e l’intera comunità monastica di Lecce alcuni pensieri di santa Teresa d’Avila. Non è una monaca benedettina, lo so bene, ma è pur sempre una grande santa e un dottore della Chiesa. Per il giorno in cui vestì l’abito monastico ella dichiarò tutta la sua gioia. Scrive: «Subito fui così felice d’avere abbracciato la vita monastica, che tale gioia non mi è mai venuta meno fino ad oggi, perché Dio mutò l’aridità della mia anima in grandissima tenerezza». Non era la tappa finale del suo cammino spirituale che anzi dovette scoprire faticosamente giorno dopo giorno, il dono della infinita misericordia divina. Pregava: «Dal momento che non meritai tanta fortuna, mi giovi ora, o Signore, la vostra misericordia» (Il libro della vita, Paoline, Milano 1988, 77). Più avanti raccomanda: «Quando pensiamo a Cristo, dobbiamo sempre ricordarci dell’amore con il quale ci ha fatto tante grazie… Amore chiama amore…» (Ivi, 154).

Amor saca amor! È uno dei grandi temi della spiritualità carmelitana. «Dove non v’è amore, metta amore e ne ricaverà amore», scriveva san Giovanni della Croce a una monaca (Lettere, n. 25: Postulazione Generale Carmelitani Scalzi, Roma 1998, 1135). Ricordalo anche tu, cara Sr. Elisa Bernadette: amore chiama amore; metti amore e ne ricaverai amore.

«Ascolta, o figlia…» gli insegnamenti del Maestro, che è Cristo Gesù, cui sia lode e onore nei secoli dei secoli. Amen.

 

Monastero San Giovanni Evangelista – Lecce, 7 maggio 2022

 

Marcello Card. Semeraro