Omelia nella Tredicina per la festa di Sant’Antonio di Padova

 

Credere vuole dire “dare il cuore”

Omelia nella Tredicina per la festa di Sant’Antonio di Padova

 

Sono grato per la possibilità che mi è offerta di celebrare la Santa Messa qui a Padova, presso i resti mortali di Sant’Antonio e in questa splendida Basilica a lui dedicata. La mia devozione al «Santo» di Padova è radicata nella mia infanzia, poiché mia comunità di origine, nel Salento, ha proprio Sant’Antonio come suo protettore e di lui possiede una statua in argento che risale al 1778: opera molto bella e molto venerata, dove il Santo è riprodotto ad altezza d’uomo e con caratteri giovanili. Quanto volte mi è accaduto di ascoltare le prediche in suo onore e i panegirici nella sua festa, che sempre sottolineavano la sua vocazione, i suoi miracoli e la sua santità. Io ne rimanevo davvero incantato. «Si quaeris miracula», cantavamo unanimi. «O dei miracoli inclito Santo…», continuavamo.

Tra questi i miracoli non poteva ovviamente mancare la predica ai pesci, di cui si ricorda l’ottavo centenario. Il Rettore Fr. Antonio Ramina, che fraternamente ringrazio, facendomi visitare  la Basilica mi ha mostrato il bellissimo affresco posto vicino alla sacrestia, che lo riproduce. L’evento è noto. Poiché gli eretici, ai quali predicava, lo ignoravano del tutto, Antonio, rattristato per questo atteggiamento si rivolse ai pesci del vicino fiume dicendo: «allora la Parola del Signore ascoltatela voi, o pesci». Ed ecco che i pesci accorsero numerosi. L’episodio dipinge il francescano cantico a Dio anche di queste creature e ricorda le parole con le quali Tertulliano concludeva una sua opera sulla preghiera: «Tutte le creature pregano. Gli animali domestici e feroci pregano e piegano le ginocchia e, uscendo dalle stalle o dalle tane, guardano il cielo non a fauci chiuse, ma facendo vibrare l’aria di grida nel modo che a loro è proprio. Anche gli uccelli quando si destano, si levano verso il cielo, e al posto delle mani aprono le ali in forma di croce e cinguettano qualcosa che può sembrare una preghiera» (De Oratione, cap. 29: PL 1,1196).

Il miracolo ci mostra pure plasticamente la forza convincente della predicazione del nostro Santo. In effetti tutti rimanevano affascinati dalla sua predicazione e non a torto il papa Gregorio IX, che era amico e ammiratore di fra’ Antonio, lo salutò con un titolo che nessun altro Santo ricevette dalla bocca di un Papa: Arca del Testamento, Scrigno delle Sacre Scritture. La Legenda Benignitas narra che nel giorno della Canonizzazione, dopo il Te Deum «alta exorsus est voce incipere antiphonam illam, quae dicitur de doctoribus: O Doctor optime…» (ed. De Kerval, Paris 1904, p. 235). Nella Bolla emanata per quella circostanza Gregorio IX affermò che volentieri annoverava il B. Antonio nel numero di coloro che corroborarono la fede cattolica col cuore, con la parola e con le opere. Significativo questo trinomio: cuore, parole, opere. È un assioma spesso ripetuto: Deus enim non se vult verbis tantum diligi sed corde puro et operibus justis, «Dio non vuole essere amato solo con le parole, ma con un cuore puro e opere di giustizia» (cf. Rabano Mauro, Hom. 65: PL 110, 12).

Con l’animo di Sant’Antonio, dunque, celebriamo oggi la solennità della Santissima Trinità. In questo mistero, come egli predicava ispirandosi a Sant’Agostino, c’è «il principio ultimo di tutte le cose, la bellezza perfettissima e la suprema beatitudine». Riguardo a noi, sue creature e opera nella quale è impressa la sua immagine, il mistero della Trinità ci ricorda l’unico Padre dal quale proveniamo, l’unico Figlio per mezzo del quale esistiamo, e l’unico Spirito Santo nel quale viviamo (cf. Sermone per la Domenica VI dopo Pasqua, §1; Domenica XXIII dopo Pent. §10).

Si potrebbe pensare che si tratta di un articolo di fede alquanto speculativo ed astratto, ma la fede della Chiesa ha pure altri linguaggi. Pensiamo, ad esempio, all’icona della Trinità di Rublev: c’è una mensa già imbandita, dove tre personaggi, in forma di angeli, hanno già preso posto… Sono, anzi, loro stessi la mensa preparata per noi e i loro sguardi ci abbracciano e coinvolgono per chiamarci alla partecipazione della loro carità. Ecco, dunque, che durante la proclamazione della Parola di Dio abbiamo ascoltato che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Portiamo allora la nostra attenzione su due verbi: amare e credere.

Il primo, amare, ci dice quello che Dio Padre fa per noi. Non è un’azione puntuale, ma un agire ricco di una interiore dinamica, che si conclude solo quando ha raggiunto il suo effetto, ossia il dono del Figlio suo al mondo. Silvano dell’Athos, un monaco dei nostri tempi che la Chiesa d’Oriente venera come santo, scriveva: «Dove trovi un padre che muoia sulla croce per le colpe dei figli? Di solito un padre si affligge e si addolora per un figlio che deve essere punito per i suoi delitti, ma per quanto sia addolorato, gli dirà comunque: “Non hai agito bene, e giustamente sei punito per le tue azioni cattive”. Il Signore non ci dirà mai qualcosa del genere. Dirà anche a noi come all’apostolo Pietro: “Mi ami?”, così anche in paradiso chiederà a tutti gli uomini: “Mi amate?”. E tutti risponderanno: “Sì, Signore, ti amiamo. Ci hai salvato per mezzo delle tue sofferenze sulla croce e adesso ci hai donato il regno dei cieli”» (Nostalgia di Dio, Qiqajon-Bose, Magnano 2011, p. 146).

Questo amore divino è l’energia che attraversa la storia e il mondo. Ed è proprio questo amore a renderci vivi e capaci, a nostra volta, di amare. A Sant’Antonio di Padova piacevano molto le etimologie, anche se nella sua predicazione erano alquanto popolari e perciò anche un po’ fantasiose, ma proprio per questo suo sapere entrare nel vissuto dell’ascoltatore la gente lo ascoltava e lo seguiva. Ora, l’etimologia che egli dava al verbo credere è questa: «Credere vuol dire dare il cuore». La stessa etimologia la troviamo in un medievale a lui contemporaneo, Baldovino di Canterbury: fede è Deo concordare, et cor nostrum Deo dare (Tract. Diversi III: PL 204, 422). Non sono un glottologo, ma è forse da questa etimologia che deriva l’attuale inglese be-lieve. Ora, Sant’Antonio spiegava: «Chi da il cuore da tutto. Perciò crede colui che con la devozione del suo cuore si sottomette totalmente a Dio» (Sermone per l’Ascensione del Signore §5).

Dio ha tanto amato il mondo da dare… Ora, la fede comincia col credere in questo amore e si completa ricambiando questo amore. Questo, però, non è davvero facile. Ma c’è un «trucco» per questo e ce lo insegna Sant’Agostino quando scrive: «Nessuno dica: “non so che cosa amare”. Ami il fratello ed amerà l’amore stesso…» (De Trinitate, VIII, 8, 12: PL 42, 957). Dio non s’offende se, quando cominciamo ad amare, non cominciamo con l’amare Lui. Egli è l’Amore ed è già felice se ci impegniamo ad amare gli altri, se li amiamo come Lui li ama, ossia donando. Chi ama donando, prima o poi giungerà a conoscere Dio.

Diceva  Sant’Antonio: «La fede opera per mezzo dell’amore. L’anima della fede è la carità, perciò, venendo meno la carità la fede muore» (Sermone per la Dom. X dopo Pent., §6). Non è davvero un caso che, a seguito di un ben noto miracolo dovuto all’intercessione del Santo che restituì alla mamma il piccolo Tommasino, ormai dato per morto, un segno della devozione verso di lui sia poi divenuto il «pane dei poveri». Ella, difatti, decise di offrire al convento, perché potesse essere ridonato come pane alle mamme povere, tanto frumento quanto pesava il suo bambino.

Ci aiuti, dunque, lui, con il suo esempio e la sua intercessione, a conservare viva la fede per potere ogni giorno crescere nella carità. Amen.

 

Pontificia Basilica di Sant’Antonio di Padova, 3 giugno 2023

 

Marcello Card. Semeraro