Omelia nell’ordinazione al Diaconato di Miriel Antonio Ortez Herrera e Fabio Celani

OMELIA NELL'ORDINAZIONE AL DIACONATO DI MIRIEL ANTONIO ORTEZ HERRERA E FABIO CELANI

(Basilica Cattedrale di Albano, 14 febbraio 2021, VI Domenica del t.o.)

 

 

Servire con l'Amore

1. Il rito dell’Ordinazione che stiamo celebrando ha avuto inizio con la presentazione di una domanda: «la santa Madre Chiesa chiede che questi nostri fratelli siano ordinati diaconi». Quando si tratta di Dio non ci sono diritti, ma solo invocazioni, domande e questo, per molti aspetti vale anche nella Chiesa. La normativa canonica, certo, per tutti i fedeli e per le singole categorie parla dell’esistenza di diritti e doveri, ma già dal principio l’appartenenza alla Chiesa non è mai un diritto, bensì un dono e un’accoglienza. È, difatti, questa la parola scelta per i riti iniziali del sacramento del Battesimo e fra questi «riti di accoglienza» c’è una domanda: «che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?». La vita nella Chiesa comincia con una domanda; nella vita della Chiesa tutto deve cominciare con un’umile preghiera e solo questa raggiunge il Signore. 

Così è anche nel racconto del vangelo che abbiamo ascoltato (cf. Mc 1,40-45): c’è un lebbroso, che postosi in ginocchio supplica Gesù e gli dice: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Riflettiamo, allora, per qualche momento su questa domanda: se vuoi. Per S. Weil – che da questa preghiera rimase fortemente impressionata – si tratta di mettere da parte, di fronte a Dio, ogni prometeismo, ogni titanismo e diventare, davanti a Lui, pura disponibilità (cf. La pesanteur et la grace, Plon, Paris 1988, 126). Così è questo lebbroso: totalmente disponibile. Egli riconosce la forza risanatrice di Gesù, ma bussa alla porta del suo cuore.

Gesù non voleva essere un guaritore, per quanto una parte della sua missione pubblica è stata impegnata in interventi di guarigione. Egli, però, è venuto per salvare, non per guarire. Se ha compiuto guarigioni è stato per mostrare che egli può perdonare chi ha peccato: «Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati – dirà un giorno ad alcuni scribi che lo criticavano –, “Àlzati, disse allora al paralitico, prendi il tuo letto e va’ a casa tua”» (Mt 9,6). Quello che sta a cuore a Gesù è perdonare. Il «cuore» di Gesù si chiama misericordia.

2. Di quel lebbroso il racconto dice che Gesù ebbe compassione! Letteralmente, con una locuzione verbale che ci richiama l’attributo materno di Dio, si tradurrà: fu preso nelle viscere. Ed allora Gesù stende la mano: è il gesto col quale nella Bibbia è descritto l’intervento salvifico di Dio, ma noi potremo anche immaginare una mamma, che udito la chiamata del figlio, si rivolge verso di lui e gli tende la mano. Gesù è la «mano tesa» di Dio a noi; una mano che ci raggiunge, ci tocca, ci prende e ci solleva. Così Gesù si rivolge al lebbroso e traduce il suo gesto con una bellissima frase: «Lo voglio, sii purificato!». L’evangelista commenta scrivendo che «subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato». Il lebbroso aveva dato per scontata la potenza di Gesù. 

Tu puoi, gli aveva detto. Egli, però, aveva scelto di puntare sull’amore, sulla vicinanza, sulla comprensione e per questo gli dice: se vuoi. Nel suo Messaggio per l’appena trascorsa Giornata mondiale del malato, Francesco ha scritto che «la vicinanza è un balsamo prezioso, che dà sostegno e consolazione a chi soffre nella malattia… Il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello». Questo Messaggio tornerò a citarlo perché potremmo ritenerlo un commento al passo del vangelo di questa domenica ed è anche un’ottima indicazione per voi, carissimi, che fra poco sarete ordinati diaconi. Questa parola, lo sapete, vuol dire servo e rimanda a un servizio. Ricordate, allora, ciò che ha scritto il Papa: … Il servizio guarda sempre il volto del fratello, sente la sua prossimità e cerca di sollevare il fratello.

Quella di Gesù verso il lebbroso, infatti, più che esercizio di onnipotenza è esercizio di onnibontà. Un commentatore (il p. B. Standaert, che noi sacerdoti conosciamo perché alcuni anni fa guidò un nostro corso di esercizi spirituali) s’è inventata questa parola: onnibontà e l’ha messa al posto della parola «onnipotenza». L’onnipotenza di Dio è, in buona sostanza, onnibontà e questo fin dal principio, da quando «creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Forse anche per questo l’autore sacro insiste nel sottolineare ogni volta che Dio disse! Perché l’amore ha bisogno di essere detto. Come fa lo sposo del Cantico: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!» (1,15). 

3. Entriamo, allora, in questa dimensione di amore misericordioso. I padri della Chiesa spiegavano che il comando di Gesù deve essere letto separatamente dall’affermazione della sua volontà. «Lo voglio», egli dichiara e dicendo questo manifesta la sua empatia col lebbroso. «Sii purificato», aggiunge e questo è l’effetto, la conseguenza della compassione di Gesù. Per Gesù volontà e compimento si identificano. La sua volontà è efficace. Sant’Ambrogio spiega la potenza del Signore sta nella sua volontà e che fra «le opere di Dio e i suoi comandi non c’è nessun intervallo: le opere sono contenute negli ordini» (Exp. Ev. sec. Lucam V,3: PL 15, 1636). Si muovano in questo spazio anche le vostre risposte alle domande, con le quali fra poco esprimerete i vostri impegni diaconali. Ripeterete, infatti: «Si, lo voglio». Ditelo, allora, con lo stesso amore col quale Gesù lo disse a quel lebbroso; ditelo con la stessa volontà di mettere in pratica, con la quale Gesù risanò quel lebbroso.

In verità, il verbo usato dal racconto evangelico dice purificare ed è un verbo che occorre comprendere. Alcuni testi ebraici dicono che la lebbra è la figlia primogenita della morte (cf. Gb18,13): purificare, in questo caso, vuol dire riaprire alla vita. Altri sottolineano che la lebbra esclude dalla società, dall’umano convivere. Lo abbiamo ascoltato durante la prima lettura dal libro del Levitico. Purificare, allora, significa reinserire nella comunità umana, aprire alle relazioni, agli incontri. È quello che Gesù fa per questo lebbroso e l’effetto è sorprendente: mentre Gesù gli aveva intimato «di non dire niente a nessuno», ecco che «quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto». La purificazione ha rotto il guscio, che teneva prigioniero quest’uomo ed egli, uscendone, si apre alla relazione, all’annuncio. Due cose fa, ormai, secondo il racconto di Marco: divulga quello che Gesù gli ha fatto e diffonde la parola, ossia il messaggio di Gesù. Non si accontenta di dire il fatto, insomma, ma ne proclama la dimensione salvifica. Somiglia un po’, a quello che deve fare il diacono, al quale, mentre gli consegna il libro dei Vangeli, il vescovo dice: «Ricevi il Vangelo di Cristo, credi ciò che proclami, vivi ciò che insegni». Il gesto esterno è proclamare in vangelo; la disposizione interiore è l’adesione di fede; la testimonianza della vita è la conseguenza necessaria.

La conclusione del racconto, però, è alquanto enigmatica: a motivo della pubblicità fattagli dal lebbroso, «Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti». Esattamente la condanna del lebbroso! Ora il lebbroso è Gesù. Aveva steso la mano, lo aveva toccato e così s’era presa addosso la sua malattia. È un misterioso anticipo. Un giorno, infatti, proprio come un lebbroso Gesù sarà disprezzato e trascinato fuori città; come quella del lebbroso, la sua carne sarà tutta una piaga. Gesù questo lo sa, ma non può aspettare il Golgota. Così lo anticipa col quel suo: lo voglio. Quel lebbroso non l’ha solo curato; gli ha dato segretamente la vita a prezzo della propria vita. 

Un monaco vissuto nell’VIII/IX secolo, Aimone di Halberstadt, commenta così la storia che abbiamo ascoltato: «Non ebbe timore di toccare quel lebbroso, che la legge mosaica scacciava dall’accampamento. Avrebbe potuto guarirlo senza toccarlo, ma ha voluto farlo per dimostrarci che siamo salvati dal contatto con la sua carne. Il Signore, che è venuto a salvare, non ha disdegnato di toccare un lebbroso e purificarlo, perché si verificasse la parola del profeta Isaia e dell’apostolo Pietro: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce: dalle sue piaghe siete stati guariti» (1Pt 2,24)» (cf. Hom. XIX. Dominica III post Epiph.: PL 118, 138-139). 

Sia così anche il vostro servizio diaconale, carissimi figli. Il Papa ci propone una sequenza, che dice così: «fermarsi, ascoltare, stabilire una relazione diretta e personale con l’altro, sentire empatia e commozione per lui o per lei, lasciarsi coinvolgere dalla sua sofferenza fino a farsene carico nel servizio». Servire, appunto, è tutto questo processo, che si completa nel farsi carico.