Omelia per i 200 anni dalla morte del Venerabile Giuseppe Bartolomeo Menochio O.S.A.

 

Piangere e togliere le bende

Omelia per i 200 anni dalla morte del Venerabile Giuseppe Bartolomeo Menochio O.S.A.

 

1. Celebriamo questa Santa Messa nella scadenza due volte centenaria della morte del Venerabile Giuseppe Bartolomeo Menochio (1741-1823) e lo facciamo – come annunciato dalla Comunità agostiniana – per rendere grazie al Signore per il dono fatto alla Chiesa con la vita e la testimonianza cristiana di questo Servo di Dio: sono grazie, che – come recita un Prefazio – mostrano la fecondità della Chiesa madre e sono un segno sicuro dell’amore di Dio per noi (cf. Prefazio dei Santi II).

Questo rito, poi, lo celebriamo quando inizia la Domenica quinta del tempo quaresimale. Possiamo chiamarla «domenica di Lazzaro», giacché la pagina del vangelo ci ha narrato il suo risuscitamento da parte di Gesù. Una cosa che certamente colpisce di questo racconto è la sottolineatura del vincolo di amicizia che li lega: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato», abbiamo ascoltato al principio della lettura. L’evangelista sottolinea pure la profonda commozione e il pianto di Gesù, una volta giunto davanti alla sua tomba.

Tutto questo è stato sempre spiegato come una prova che Gesù, il Figlio eterno di Dio, si fece veramente uomo. Oggi, peraltro, abbiamo celebrato la solennità dell’Annunciazione del Signore e la Liturgia ci ha chiesto di genuflettere alle parole del Credo: E per opera dello Spirito Santo… e si è fatto uomo. Anche il Prefazio di questa quinta domenica di Quaresima ci fa cantare: «Vero uomo come noi, egli pianse l’amico Lazzaro». Insieme con la sua vera umanità, però, il racconto di Lazzaro ha pure messo in evidenza la ricchezza affettiva di Gesù ed è quanto tutti e quattro i vangeli ci riferiscono: Gesù si commuove e si rallegra, piange e gioisce, soprattutto ha compassione di chi si trova nel bisogno. Di tutti questi sentimenti, poi, il quarto evangelista sottolinea soprattutto l’amore: l’amore verso il Padre, anzitutto, che gli fa dire: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto…»; e di conseguenza l’amore verso di noi che subito gli fa gridare a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il racconto evangelico di questa Domenica ci riferisce pure che il pianto di Gesù fu colto, da quanti erano lì, come segno di amore: «Guarda come lo amava!», dicevano.

 

2. Nella tradizione classica greco-romana il pianto era un gesto disdicevole per un uomo. È cosa da donnicciole. Nel racconto della morte di Socrate tramandatoci da Platone, il filosofo, vedendo i suoi discepoli e soprattutto Apollodoro che non smettevano di piangere e singhiozzare, disse: «Ma che state facendo, miei amici? E pensare io che ho mandato via le donne perché non mi facessero tali sciocchezze!» (cf. Fedone 117c-e). L’imperturbabilità, infatti, era ritenuta la caratteristica del sapiente È col cristianesimo che poi il pianto diventa non soltanto umano, ma perfino divino.

Come non ricordare qui, in questa splendida Basilica, il pianto di Sant’Agostino per la morte dell’amico d’infanzia e poi alla morte della madre Monica, davanti al cui sepolcro ho potuto pregare prima della Santa Messa. Scriveva: «Lasciai libere le lacrime che trattenevo di scorrere a loro piacimento, stendendole sotto il mio cuore come un giaciglio, su cui trovò riposo. Perché ad ascoltarle c’eri tu, non un qualsiasi uomo, che avrebbe interpretato sdegnosamente il mio compianto» (cf. Confessioni IV, 4, 8-9 – 5,10; IX, 12, 33: PL 31, 697. 778).

Perché ad ascoltarle c’eri tu, scrive Agostino. Dio, infatti, ascolta sempre il pianto dell’uomo, perché nel suo Figlio ha pianto Egli stesso. C’è, in proposito, un bellissimo testo di Sant’Ambrogio, dove scrive che il Signore assunse un corpo di dolore, si addolorò e pianse per la morte di Lazzaro; che con la sua passione fu piagato nel suo proprio corpo sicché dalla ferita del suo costato uscirono sangue e acqua e così il Signore ci fece dono dello Spirito: l’acqua per lavarci, il sangue per abbeverarci e lo Spirito per farci passare a vita nuova. È sempre lo stesso e unico Cristo – continua Ambrogio – che è speranza, fede e carità: speranza nella risurrezione, fede nel lavacro, carità nel sacramento. Anche il suo dolore Egli lo ha trasformato in salvezza per noi poiché con la sua sofferenza ha redento la nostra infermità e con la sua risurrezione ha mutato la nostra morte. Anche tu, allora – conclude Ambrogio – devi piangere al mondo di peccato e rallegrarti nel Signore della vita. Che se poi farai questo, sarai, come dice san Paolo, capace di piangere con chi piange e di gioire con chi si rallegra (cf. Commentarius in Cantica, III, 31: PL 15,1899).

 

3. In tale sfondo salvifico, carissimi, possiamo leggere pure la testimonianza del Venerabile Bartolomeo Menochio. Egli fu certamente un devoto religioso e un vescovo esemplare, che quanti lo conoscevano stimavano come santo; ciò che a noi, però, lo rende più noto è il fatto di avere saputo piangere accanto all’esule e prigioniero Papa Pio VII, rimanendogli sempre fedele e amico. È anche fuor di dubbio che egli risplendeva per la sua carità verso il prossimo, nel quale riconosceva il volto di Cristo. In tutto egli trovava il suo alimento dall’amore verso Dio. Nella Silloge delle virtù messa a punto per la causa di beatificazione e canonizzazione si legge che «si rilevava in lui un’anima assorta in Dio e dal suo contegno si conosceva che camminava alla presenza di Dio, che l’aveva sempre innanzi agli occhi, mezzo che indicava essere esso occupato nella via della perfezione».

Che cosa, allora, in tale contesto possiamo apprendere dalle lacrime di Gesù davanti alla tomba in cui Lazzaro era stato deposto? Almeno due cose, a me pare. La prima è che il Signore prende sempre sul serio i nostri dolori, le nostre sofferenze. Non le osserva, come sul dirsi, dall’alto in basso, quasi ritenendoli capricci di bambini. No, egli fa proprie le nostre sofferenze. Piange non soltanto come noi, ma piange con noi e la fa per davvero. La seconda cosa è che mentre noi riteniamo spesso irreparabili le nostre sconfitte, le nostre perdite e i nostri dolori, Gesù ci propone e sceglie un’altra prospettiva.

Appena ieri, parlando alle famiglie dei minatori polacchi morti nelle miniere nell’aprile dello scorso anno, Francesco ha detto: «… sembra che Dio non ci ascolti. C’è il silenzio dei morti e il silenzio di Dio. E questo silenzio alle volte ci dà rabbia. Non abbiate paura: quella rabbia è una preghiera. È uno dei “perché?”, che continuamente in queste situazioni ripetiamo. E la risposta è: “Nell’oscurità il Signore ci è vicino. Non sappiamo come, ma ci è vicino”». Insieme con queste parole del Papa mi tornano quelle del racconto del vangelo di oggi: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». I discepoli non lo capirono, sicché Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri: «Andiamo anche noi a morire con lui!». Non capiamo e fraintendiamo, ma Gesù ci è comunque vicino e interviene per noi.

 

4. C’è, poi, un’ultima cosa, su cui possiamo riflettere ed è che dopo avere richiamato Lazzaro dalla tomba, Gesù chiese agli astanti di completare la sua opera. «Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: “Liberatelo e lasciatelo andare”». Nella tradizione patristica il fatto che Cristo risusciti Lazzaro e poi lasci ai discepoli il compito di toglierli le bende ha spesso assunto la funzione di simbolo rispetto alla prassi del sacramento della Penitenza. «Venga fuori chi è morto, ossia il peccatore confessi la propria colpa e i pastori sciolgano chi viene fuori», diceva San Gregorio Magno (cf. Hom. in Evang. XXVI, 6: PL 76,1201). È una spiegazione vera di sicuro, che possiamo apprendere specialmente in questo tempo di preparazione alla Pasqua. Anche questa sera, nella processione iniziale che mi portava a questo altare, ho veduto dei sacerdoti disponibili per il ministero della Confessione.

Nel racconto, però, è possibile riconoscere anche un senso più ampio, che questa volta riguarda non soltanto i pastori, ma tutti i fedeli. A volte, infatti, quando invochiamo l’aiuto del Signore, noi pensiamo che debba fare tutto Lui! Egli, invece, prevede sempre qualcosa per noi: almeno togliere le bende perché si possa riprendere il cammino! Ci sono sempre nei nostri fratelli e sorelle delle bende da sciogliere e noi dobbiamo farlo con prontezza. Questo si chiama pure misericordia. Quando si trattò della sua propria risurrezione dai morti, le bende Gesù le lascerà nel sepolcro insieme con il sudario perché siano le mute testimoni della sua vita trasfigurata. Quanto, però, alle nostre «rianimazioni», come già per Lazzaro, Gesù ci vuole attivi collaboratori e solleciti protagonisti accanto a Lui.

Anche in questa silenziosa, ma fattiva collaborazione per l’adempimento di quella che chiamava «la bella volontà di Dio», il Venerabile Giuseppe Bartolomeo Menochio può esserci di esempio e di incoraggiamento. Imitiamolo di cuore e sarà una concreta maniera per essergli devoti.

 

Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio – Roma, 25 marzo 2023

 

Marcello Card. Semeraro