Omelia per i 70 anni del pio transito del Venerabile Servo di Dio don Pasquale Uva

 

Ci vuole la carità

Omelia per i 70 anni del pio transito del Venerabile Servo di Dio don Pasquale Uva

 

Ricordiamo oggi i settanta anni dal pio transito del Venerabile Servo di Dio don Pasquale Uva ed io sono grato al vescovo Vincenzo Pisanello per avermi, con il suo invito, offerto l’occasione per tornare in questo luogo, che nei primi anni di formazione nel Seminario Regionale di Molfetta mi è stato molto famigliare. Per noi seminaristi, difatti, era una bella tradizione tornare, di tanto in tanto, in questa realtà ospedaliera e anche svolgervi alcune prime esperienze pastorali. C’era, poi, un nostro professore, che spesso ci parlava di don Uva. Dico don Felice Posa, che era l’unico sacerdote rimasto del ramo maschile e che pure accompagnò don Uva nella sua ultima malattia amministrandogli il Viatico il 13 settembre 1955. Don Uva morì alle ore 14 di quello stesso giorno.

Tutti noi del Seminario Regionale nutrivamo una grande riconoscenza per questo sacerdote così esemplare e così apostolico: autentica perla del clero pugliese. Mi sentii, perciò, davvero onorato quando mi fu chiesto di svolgere l’ufficio di Censore teologo degli Scritti del Servo di Dio. Questo mi offrì l’occasione per conoscere di più don Pasquale Uva e mi permise di approfondire non soltanto la sua vita, ma pure la sua spiritualità. Vi confesso che da allora, quando penso a don Uva, mi sovvengono le parole con le quali san Gregorio Nazianzeno parlava di san Basilio. Saprete di sicuro che questo grande santo, padre e dottore della Chiesa, aveva dato vita presso Cesarea di Cappadocia (oggi in Turchia) ad una «cittadella della carità» conosciuta come «Basiliade»: una struttura che includeva ospedali, lebbrosari, alloggi per poveri, pellegrini e viandanti, mense per i bisognosi. Si trattava, insomma, delle prime forme ospedaliere organizzate nel mondo cristiano e un modello di assistenza sociale ispirata alla carità cristiana. Ora, a tale riguardo san Gregorio diceva: «Ad altri le cucine e le laute mense, i sortilegi dei cuochi e le raffinatezze … a Basilio i malati, i rimedi per le ferite e l’imitazione di Cristo, che non guariva dalla lebbra con le parole, ma con i fatti concreti» (Orazione 43, 28). Il nostro don Pasquale ha fatto come lui e così ha imitato Cristo.

Oggi, nel calendario liturgico ricorre la memoria di san Giovanni Crisostomo, anch’egli grande padre della Chiesa. Egli fu vescovo di Costantinopoli e la sua predicazione in campo morale e sociale diede occasione a persecuzioni contro di lui sicché morì in esilio. In una sua omelia comincia così: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurare la sua nudità; non onorarlo qui con vesti di seta, non trascurarlo fuori mentre è consunto dal freddo e dalla nudità. Colui, infatti, che ha detto: Questo è il mio corpo e ha confermato il fatto con la parola, ha detto: “Mi avete visto affamato e non mi avete nutrito” e ha detto pure: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”» (Omelie su Mt 50, 3). Ecco, dunque, la via sulla quale si è incamminato il venerabile don Uva.

Poiché tra i santi, lo sappiamo, vige già sulla terra una comunione misteriosa, che ha poi la sua perfezione nei cieli, anche don Pasquale ebbe una sua speciale comunione con un santo, del quale casualmente gli accadde di leggere la vita e gli scritti. Attratto inizialmente più dalle illustrazioni che dal contenuto, aveva, infatti, acquistato da una bancarella un libro; si trattava, però, della vita di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, uno dei «santi sociali» torinesi, cui da domenica scorsa, con la canonizzazione dichiarata da Leone XIV, si è aggiunto san Pier Giorgio Frassati. Sono quei santi che nella sua enciclica Deus caritas est Benedetto XVI annovera tra i «modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà» (n. 40). Dinanzi a questo modello, don Paquale Uva si pose la medesima domanda che sant’Agostino fece a se stesso: Tu non poteris, quod isti, quod istae?, «E tu non sarai capace di fare ciò che hanno fatto costoro?» (Conf. 8, 27). Diceva tra sé e sé: forse che il mio Mezzogiorno, la mia terra non hanno bisogno di qualcosa di simile?

Si cominciò, quindi, pian piano a fare delle scelte e nell’ottobre 1921 ci fu la posa della prima pietra di un piccolo edificio presso la chiesa di sant’Agostino, dove i poveri e gli esclusi, principalmente i malati di mente, poterono trovare amorevole cura e adeguata assistenza. Per comprendere l’importanza e la gravità di quella scelta dobbiamo collocarci mentalmente in quegli anni d’inizio del secolo scorso! Perfino le prime religiose, cui domandò di aiutarlo, dopo un po’ si ritirarono, perché non ritenevano presente nel loro

«carisma» il dovere pulire i letti e la biancheria sporchi di quei poveretti! Come se il «carisma» fosse un programma elettronico! Meno di un anno dopo, pero, la Provvidenza si fece sentire e il 10 agosto 1922 otto giovani catechiste si unirono a don Uva per l’assistenza dei ricoverati: furono gli inizi della futura Congregazione delle Ancelle della Divina Provvidenza. Col tempo si aggiunsero le varie strutture i padiglioni dell’Istituto Ortofrenico e dell’Ospedale Psichiatrico.

 

Perché – ci domandiamo – la denominazione di «Casa Divina Provvidenza»? La ragione ce la indica lo stesso don Uva: «La mia mente e il mio cuore erano fissi alla Divina Provvidenza, senza pensare a quali vie. Essa avrebbe preso per provvedere a tutto. Dicevo a me stesso: io comincerò. Se il Signore vuole, tutto si compirà: diversamente io inizierò, gli altri completeranno l’opera». Frase questa, da cui traspare una spiritualità che non attende certezze, ma si affida con coraggio al disegno divino, iniziando l’opera anche quando il cammino è incerto.

C’è dell’attualità, in questo? Per rispondere chiedo di aggiungere un’ultima, breve riflessione. Prende lo spunto dal fatto che nella sua vicenda terrena don Pasquale Uva ebbe molte, interne ed esterne, afflizioni. Anche all’interno degli istituti di vita consacrata da lui voluti e realizzati ci furono delle tensioni, che poi portarono, fra l’altro, alla scomparsa del ramo maschile dei «Servi della divina Provvidenza». Non le rievocherò, ma darò loro il nome di «clericalismo»! Papa Francesco lo riteneva il pericolo più grave per la Chiesa, lo chiamava una «malattia», o un «flagello» che compromette il ministero sacerdotale e la vita della Chiesa, una tentazione da combattere con umiltà, servizio e attenzione al popolo di Dio.

In tale contesto rileggo quanto una volta ha scritto don Uva: «Il ministero del sacerdote non si esaurisce nella santa messa, nella confessione, nella attenta recitazione del breviario, nelle processioni. Tutte cose belle. Ma che vanno integrate con l’assistenza premurosa, fattiva e instancabile ai poveri sofferenti. Ci vuole la carità». Parole del secolo scorso; oggi, però, la Chiesa ci ripete questo: «La preghiera trova nella carità che si fa incontro e vicinanza la verifica della propria autenticità. Se la preghiera non si traduce in agire concreto è vana; infatti “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26)» Francesco, Messaggio per VIII Giornata mondiale dei poveri – 2024). Nella memoria di san Vincenzo de’ Paoli la Liturgia delle Ore fa leggere queste sue frasi: «Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi. Se nell’ora dell’orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente … Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia un’opera di Dio per farne un’altra. Se lasciate l’orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa. È una grande signora: bisogna fare ciò che comanda». Per chi valgono queste parole? Valgono, certo, per la formazione dei futuri presbiteri e anche per quanti già lo siamo; credo, però, che valgono per tutta la nostra pastorale. Sant’Agostino predicava in questi termini: «La carità che ama il prossimo non è diversa da quella che ama Dio. Non c’è una seconda carità. Con la stessa carità con la quale amiamo il prossimo amiamo anche Dio» (Serm. 265, 8, 8). Come oggi (sottolineo questo oggi) il mondo imparerà da noi ad amare Dio, che non si vede (e a un certo mondo Dio non interessa neppure), se non ci vede amare il prossimo, che, comunque, si vede? Avrete di sicuro inteso il rimando a 1Gv 4,20. E penso anche a san Paolo VI, che citando se stesso in Evangelii nuntiandi ripeteva: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri». Con il suo linguaggio don Pasquale Uva ha detto lo stesso. Che non sia proprio questa la lente con cui oggi guardare a lui?

 

Basilica di San Giuseppe – Bisceglie (Ba), 13 settembre 2025

 

Marcello Card. Semeraro