Omelia per il 150° centenario della nascita di Santa Teresa di Lisieux

 

Sorgenti, che procurano la vita eterna

Omelia per il 150° centenario della nascita di Santa Teresa di Lisieux

 

In questa III Domenica del tempo quaresimale la Chiesa ci propone il racconto evangelico dell’incontro di Gesù che, stanco per il cammino e per l’ora meridiana, si ferma presso un pozzo. Lì è raggiunto da una donna samaritana, alla quale domanda da bere. Per averne subito uno sguardo generale possiamo risentire quanto scriveva in proposito il beato card. Ildefonso Schuster in un’opera che è ormai un classico: «Gesù per primo va alla ricerca dell’anima peccatrice; egli anzi si stanca per trentatré anni lungo i sentieri della redenzione e, in sul meriggio del mondo, quando cioè l’afa delle cose umane sospingeranno il cuore disilluso a cercare il refrigerio nelle cose dello spirito, egli attende la traviata luogo la via sull’orlo di un pozzo, per offrirle dell’acqua viva che calma ogni sete d’umani affetti» (Liber Sacramentorum, III, Marietti, Torino 1933, 112-113).

La citazione è breve, ma sufficiente per farci capire che questa pagina è, come predicava Sant’Agostino, plena mysteriis, et gravida sacramentis, carica di misteri e ricca di simboli (In Jo. ev. tract., XV, 1.5.6: PL 35, 1512). Davanti alla parola di Dio, in effetti, dobbiamo sempre essere in «religioso ascolto» (Dei Verbum, 1); davanti a questo racconto, però – sembra dirci Agostino – dobbiamo moltiplicare l’attenzione, accrescere la disponibilità del cuore e l’apertura della mente. Quali le ragioni?

Anzitutto perché il primo mistero che esso ci presenta è il dolore di Dio, che cerca e non trova. Negli anni ’70 ci fu un famoso giornalista e letterato che pubblicò un libro col titolo: Quaesivi et non inveni: non era semplicemente l’attestazione del fallimento della ricerca di Dio, ma più ancora la dichiarazione della sua inutilità! Il vero «mistero», però, non è la ricerca che non riesce a superare la sua incredulità (o non vuole superarla); prima ancora c’è il mistero di un Dio che nella sua misericordia non cessa mai di cercare l’uomo. «Adamo, dove sei?» (Gen 3,9). È la domanda di Dio ad Adamo ai primordi della storia umana. Da allora Dio inizia un cammino, che finirà sul Golgota.

Ce lo fa ben capire Procopio di Gaza del quale parafraso un testo: «sia benedetto Iddio dei santi, che al pomeriggio visitò Adamo nel giardino e ancora di pomeriggio spirò sulla croce. Subì infatti la sua dolorosa passione nelle stesse ore in cui Adamo mangiò il frutto dell’albero: ossia dall’ora sesta, in cui normalmente si mangia, fino all’ora nona, quando Dio emise la condanna». Prosegue: «Tu, Adamo, mangiasti dell’albero, perché desideravi essere come Dio mentre io per te ho desiderato divenire uomo. Tu, non sei riuscito nel tuo intento; io, invece, sono riuscito perfino a morire per te» (cf. Commentarii in Genesin cap. III: PG 87, 196).

Il dolore di Dio è la sua stanchezza nella ricerca dell’uomo, come abbiamo udito dal beato Schuster. Dal vangelo è stato letto che Gesù, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Ora, noi dobbiamo inginocchiarci proprio davanti a questa stanchezza; dobbiamo farlo come al venerdì santo davanti alla santa Croce svelata. Il mistero è questo. Quaerens me sedisti lassus, come cantavamo un tempo nella sequenza del Dies irae. Il mistero è questo. Scrive Sant’Ambrogio, commentando la storia della samaritana: «Anche se tu fossi arrivata di primo mattino, e pure se tu dovessi arrivare nel tardo pomeriggio, troverai sempre Gesù stanco per il viaggio. Egli è stanco, ma è stanco in te. Infatti ti ha cercata a lungo; la tua incredulità lo ha stancato per tanto tempo. Si è stancato per te, perché ti ha cercata tutto il giorno (fatigatus est, sed in te; quia diu te quaesivit). È stata la tua incredulità ad affaticarlo per così tanto tempo» (De Spiritu Sancto I, 16, 165: PL 16, 742).

Il caso serio per noi, allora, non è quello di sbagliare, ma quello di nasconderci a Dio; il nostro vero problema non è quello di peccare, ma quello di non farci trovare da Dio ed è per questo che la questione è seria: perché ci riporta all’inizio della storia della salvezza. «Mi sono nascosto» (Gen 3,9-10), rispose Adamo a Dio ed è proprio quello che all’inizio anche la donna samaritana fa con Gesù.

Pure lei, come Adamo, sfugge alla domanda e cerca di evadere i problemi. Alla sete di Gesù comincia a rispondere ponendo questioni rituali: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?»; poi ricorre all’ironia: «non hai un secchio e il pozzo è profondo»; quindi avanza motivi di opportunità e di convenienza: «dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua»; propone, alla fine, persino una disputa teologica: «i nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Accade ancora così. Per aggirare la sete di Cristo è possibile ricorrere anche alla teologia!

La samaritana, tuttavia, pur nella evidente situazione di debolezza di Gesù, percepisce in lui la presenza di una ancora inspiegabile forza attrattiva: per tre volte, infatti, lo chiama «Signore (kyrie)». Forse anche per questo, se pure gli resiste, comincia a cedere le armi e lo fa poi del tutto quando si sente toccata nell’intimo, quando è svelata nella complessità/tortuosità dei suoi desideri. Con le questioni etico-religiose si può anche tergiversare, ma quando si è toccati nell’intimo non riesce più a fingere. «Hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito», le dice Gesù e la samaritana è toccata nella radice insoddisfatta del suo essere.

Sant’Agostino lo ha bene intuito quando, individuando in quei mariti i cinque sensi esteriori, spiega così la questione: non stare a perder tempo fuori di te, ma entra in te stessa (cf. In Jo. ev. tract., XV, 21: PL 35, 1517-1518). Simile spiegazione la diede una volta San Paolo VI. Quella povera creatura – disse – resta sgomenta perché scopre che quel Profeta ha letto nel suo spirito e dice: sa chi sono io! Commentò: «Iddio osserva le profondità del cuore umano, che, anche sotto la superficie del peccato e del disordine, possiede ancora una ricchezza meravigliosa di amore; Gesù col suo sguardo la trae fuori, la fa straripare dall’anima oppressa. A Gesù, dunque, nulla sfugge di quanto è negli uomini, della loro totale realtà, in cui sono il bene e il male» (Omelia del 20 settembre 1964).

Ho citato volutamente San Paolo VI, poiché la sua storia terrena s’intreccia singolarmente con quella di Santa Teresa di Lisieux ed è proprio lei che desidero adesso ricordare, associata alla donna samaritana. Possiamo, infatti, ben dire che, in qualche maniera, Teresa si è compresa come l’anti-samaritana. Quella sete di Gesù al pozzo di Giacobbe, infatti, ella la percepì subito come intimamente connessa alla sete che egli ebbe sulla Croce e se ne sentì personalmente coinvolta, come scrisse già nel Manoscritto A. Lì annota che quella sete segnava l’inizio del «terzo periodo» della sua vita, «il più bello di tutti, il più colmo di grazie del Cielo».

Leggiamo, dunque, ciò che scrive Teresa: «il grido di Gesù sulla Croce mi riecheggiava continuamente nel cuore: “Ho sete!”. Queste parole accendevano in me un ardore sconosciuto e vivissimo. Volevo dar da bere al mio Amato e io stessa mi sentivo divorata dalla sete delle anime» (Ms A, 134). Subito dopo Teresa fa entrare in scena il giovane Enrico Pranzini, ritenuto colpevole di omicidio e condannato a morte. Lei lo adotta spiritualmente come test per la sua sete delle anime ed è esaudita. Un attimo prima di essere ucciso, quell’uomo domanda il Crocifisso e lo bacia per tre volte. «Dopo quella grazia unica – scrive Teresa – il mio desiderio di salvare le anime crebbe ogni giorno; mi sembrava di udire Gesù che mi diceva come alla samaritana: “Dammi da bere!”. Era un vero e proprio scambio d’amore; alle anime davo il sangue di Gesù, a Gesù offrivo quelle stesse anime rinfrescate dalla sua rugiada Divina: così mi sembrava di dissetarlo e più gli davo da bere più la sete della mia povera piccola anima aumentava ed era questa sete ardente che mi dava come la più deliziosa bevanda del suo amore» (Ms A, 136).

Teresa richiamerà altre volte il vangelo della samaritana A me sembra, però, che questa storia ne sia il riflesso più bello. Si realizza, infatti, in lei e per lei, quello che fu annunciato da Origene: «Chi crede in Cristo non ha soltanto un pozzo cui attingere, ma ne possiede molti e ha in sé non soltanto una sorgente, ma dei fiumi. E sono tutte sorgenti e fiumi che non soltanto alleviano questa vita mortale, ma che procurano la vita eterna» (In Numeros, Hom. XII [De puteo et cantico ejus], 1: PG 12, 656-657). Teresa è stata un «pozzo» che ha raccolto l’acqua della misericordia divina, ma è stata al tempo stesso una «sorgente», un fiume che l’ha distribuita per la vita eterna.

 

Teresianum - Roma, 12 marzo 2023

 

Marcello Card. Semeraro