Omelia per il giubileo sacerdotale con la Congregazione delle Cause dei Santi

 

Li inviò a due a due

Omelia per il giubileo sacerdotale con la Congregazione delle Cause dei Santi

 

    1. È una coincidenza provvidenziale che per la nostra liturgia, celebrata nell’occasione di un giubileo sacerdotale, il lezionario del giorno abbia riservato per noi questa parola di Gesù: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!». Per influsso di sant’Annibale Maria Di Francia questa esortazione è divenuta un classico vocazionale, specialmente per il ministero sacro.

    In verità, una sproporzione tra l’abbondanza della messe e la scarsità degli operai ci sarà sempre, ma sbaglieremmo di grosso se pensassimo di colmarla senza un serio e rigoroso discernimento; magari reclutando a ogni costo, o ingaggiando chiunque. In un bel documento interdicasteriale del 1997 si legge che «di fronte alla messe del Regno di Dio, … gli “operai” sono e saranno sempre pochi, “piccolo gregge e grande missione”, perché risalti meglio che la vocazione è iniziativa di Dio, dono del Padre, Figlio e Spirito Santo» (Nuove vocazioni per una nuova Europa, n. 13).

    Sono sinceramente grato ai superiori e ai membri della Congregazione delle Cause dei Santi per avere pensato a questo nostro incontro attorno alla mensa del Signore. Sono riconoscente verso voi che, rispondendo all’invito, mi siete vicini nella preghiera. Saluto in particolare i cardinali, gli arcivescovi e vescovi, i sacerdoti concelebranti: nella parola di Gesù tutti noi troviamo grande conforto per il nostro ministero. Un pensiero cordiale lo rivolgo pure a chi, impossibilitato a intervenire, è spiritualmente unito alla nostra preghiera.

    Questa comunione mi conforta davvero e m’incoraggia, soprattutto se la considero alla luce di quanto abbiamo insieme ascoltato durante la lettura del Vangelo: «Il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi».

 

    2. Possiamo domandarci: perché li inviò a due a due? È san Gregorio magno a darci una decisiva risposta, che si potrebbe riassumere così: li inviò a due a due perché potessero vivere la carità. Se, infatti, manca l’amore reciproco, qualsiasi azione pastorale è inutile e vana. Gregorio, anzi, lo dice in forma ancora più severa: «chi non ha la carità verso il prossimo in nessun modo deve assumere l’impegno pastorale» (Homiliae in Evangelia, XVII, 1: PL 76 1139).

    Molti anni di ministero sacerdotale io li ho vissuti in un Seminario maggiore: vi tornai come formatore e quindi docente di teologia nel 1972 e ne partii come vescovo nel 1998! Allora si parlava molto di fraternità sacerdotale. Vi insistette in modo speciale san Giovanni Paolo II che in Pastores dabo vobis parlò del ministero sacerdotale non come di una impresa solitaria, ma come opera collettiva, fraterna (cf. n. 17).

    La fraternità e la carità reciproche sono dimensione essenziale dell’essere e del «fare» il prete. C’è, però, ancora di più: lo stare in due e non da soli è anche la condizione per avere accanto a sé il Signore, il quale ha promesso che dove sono due, o tre riuniti nel suo nome, egli è lì in mezzo a loro (cf. Mt 18,20).

 

    3. Non tutto, però, è così rassicurante perché quanto alla missione il vangelo aggiunge un’altra parola: «Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi»! Con un po’ d’ironia sant’Agostino avvertiva: «Il Signore non disse: “Ecco, vi mando come leoni in mezzo agli asini”» (Discorso 64/A, 1: PLS 2, 465). Invece ha detto proprio: come agnelli fra lupi e quest’immagine mette in luce la nostra fragilità, vulnerabilità e pure il nostro rischio, giacché potrebbe accaderci di pensare che noi siamo sempre i buoni e gli altri sempre i cattivi.

    Certo, oggi in particolare – ma per il credente non è stato sempre così? – avvertiamo in forme anche molto sottili e sofisticate l’ostilità di quel «mondo», che ci odia perché da esso Gesù ci ha scelti. A condizione, ovviamente, che non siamo del mondo (cf. Gv 15,18-19). Mi torna alla memoria, tuttavia, la storia di quel saggio capo cherokee, il quale raccontava al suo nipotino che in ciascuno di noi ci sono due lupi di cui uno è cattivo e vive di rabbia, gelosia, invidia, risentimento, falso orgoglio, menzogna ed egoismo e un altro che, invece, è buono, vive di pace, amore, speranza, generosità, compassione, umiltà e fede. Al bambino, poi, che gli domandava: «Quale lupo vince?», l’antico saggio rispose: «Quello che nutri di più»!

    Qualcosa di molto simile l’ha ripresa nel suo commento alla storia francescana del lupo di Gubbio mons. F. Accrocca, arcivescovo di Benevento e membro della nostra Congregazione, richiamando pure una conferenza che sul tema tenne a Padova il 25 gennaio 1950 d. Primo Mazzolari, sulla cui tomba ha pregato Papa Francesco il 20 giugno 2017. Diceva d. Mazzolari: «Anche noi, anche se portiamo i guanti bianchi, abbiamo dentro il lupo e la stessa sua bramosia».

 

    4. Ci sono, in queste storie, delle conclusioni che alla fine non sono lontane da quella che lasciava già sant’Ambrogio: «Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo a lupi. Questo genere di animali sono in antitesi tra di loro, tanto che l’uno divora l’altro. Ma il buon pastore ignora che cosa sia aver paura dei lupi per il suo gregge, e pertanto questi discepoli non sono mandati a far preda, ma a dare la grazia, perché la premura vigile del buon pastore fa sì che i lupi non possano osare nulla contro gli agnelli. E manda gli agnelli fra i lupi affinché avesse compimento quella parola: Allora lupi e agnelli pascoleranno insieme» (Exp. ev. sec. Lucam VII, 46: PL 15, 1710). Forse sono un po’ anche queste le ragioni per cui nel Messale romano la Chiesa ci fa domandare al Signore di renderci degni ministri dell’altare, annunciatori forti e miti del suo Vangelo.

    Il vangelo oggi proclamato ci domanda pure altre cose, come quella di essere come dei precursori del Signore, inviati davanti a lui in ogni città e luogo dove egli sta per recarsi. Ci chiede, perciò, di essere – come il primo Precursore – pronti a rimpicciolirci per fare spazio a Cristo (cf. Gv 3,30). Ad ogni modo, facendo oggi la memoria di san Girolamo non possiamo trascurare il suo ammonimento, ripreso pure dal Vaticano II nella conclusione (cf. n. 25) della costituzione Dei Verbum: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo». Commentandola, Papa Francesco ha scritto così: «La missione dei servitori della Parola – vescovi, sacerdoti, religiosi e laici – è quella di promuovere e favorire questo incontro, che suscita la fede e trasforma la vita» (Discorso [scritto] alla FEBIC, 19 giugno 2015). Concludeva – e così anche io concludo – invocando Maria, «la “Serva del Signore”, che è beata poiché “ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45)».

    Ella ci accompagni tutti nel nostro lavoro e ci conforti nel cammino della nostra vita cristiana.

 

    Basilica di san Pietro in Vaticano, 30 settembre 2021

 

Marcello Card. Semeraro