Omelia per l’ordinazione episcopale di Mons. Vincenzo Viva

 

Per tutta la nostra vita Cristo ci chiama

Omelia per l’ordinazione episcopale di Mons. Vincenzo Viva

 

    1. «Cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro» (2Tm 2,22): è l’esortazione paolina, carissimo Vincenzo, che Francesco ha voluto riprendere per te nella Bolla di nomina, che ti ha inviato ed è stata appena letta. È un elenco di virtù che l’Apostolo propone a chi riceve il mandato di guidare una comunità. Qui al primo posto c’è il senso della giustizia, che è la condizione cristiana nella quale ti ha posto la chiamata del Signore; c’è poi la forza della fede, che ti consentirà di rispondere all’iniziativa divina, sicché tu possa tradurla in opere sante e vivere nella pace, ossia nella Chiesa, alimentandone la comunione.

    In un’altra lettera a queste medesime virtù l’apostolo aggiunge la pazienza e la mitezza (cf. 1Tm 6,11): virtù, queste, che più del pastore descrivono l’agnello e, in definitiva, Gesù. Si possa, dunque, dire di te ciò che Agostino diceva del Signore: «Sei il buon Pastore, tu che sei mite Agnello» (Serm. 138, 4: PL 38, 765). Sia la conformazione a Cristo il tuo impegno quotidiano, perché Egli ti sarà vicino anche nei momenti più difficili. A un nuovo Vescovo, così scriveva san Giuseppe da Copertino, tuo e un po’ anche mio conterraneo: «Sapendo che Gesù Cristo, appena nato, si manifestò alli pastori, tieni per cosa sicura che non mancherà di darti lume e forze necessarie» (al p. Bonaventura Clavero, eletto vescovo di Potenza, in G. Paresciani, San Giuseppe da Copertino (1603-1663) alla luce dei nuovi documenti, Donare Pace e Bene, Osimo 2009, 604).

    Gesù, come leggiamo in 1Pt 2,25, è il «vescovo» delle nostre anime. Benedetto XVI commentando questo titolo diceva che Egli «è il prototipo di ogni ministero episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote significa in questa prospettiva: assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita» (Omelia del 29 giugno 2009).

    Questa sera, quindi, la grazia della piena e totale conformazione a Cristo dev’essere l’orizzonte della nostra preghiera di tutti noi. Di te, anzitutto, carissimo Vincenzo, che oggi sei reso partecipe del sommo sacerdozio di Cristo. Egli infatti, «pur sedendo alla destra del Padre, non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici. Per questo tutta la Chiesa e tutti i sacerdoti gli cantano: Tu sei sacerdote in eterno» (Leone M., Sermones V, 3: PL 54, 154; cf. LG 21). Questo è l’orizzonte pure della mia preghiera, mentre celebro il giubileo d’oro della mia ordinazione sacerdotale.

    Sono profondamente grato al Santo Padre per la lettera che benevolmente mi ha inviato. Nella comunione col Successore di Pietro l’intera Chiesa di Albano lodi il Signore, che oggi le dona un nuovo Vescovo, perché la presieda come maestro di dottrina, sacerdote del sacro culto e ministro del governo (cf. LG 20).

 

    2. Abbiamo ascoltato le parole dell’Apostolo: «quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati … quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rm 8,29-30). Sono parole che ci incoraggiano e ci confortano. Abbiamo sentito pronunciare cinque verbi, nei quali riconosciamo le nostre origini nel progetto di Dio, il nostro presente, la nostra speranza e tutto lo vediamo guidato, avvolto e come trasportato dall’amore: l’amore di Dio per noi, per ciascuno e per tutti insieme. È un amore che anticipa i tempi, che precorre la storia. Essere predestinati, infatti, vuol dire che il Padre del cielo con un solo sguardo vede il suo Figlio e noi.

    Lo intuì con sguardo poetico e quasi mistico Ch. Péguy ne Il mistero dei santi innocenti dove, meditando sulla preghiera del Pater, scriveva: «È stato mio Figlio a dirglielo, che io sono il loro Padre. Significa che loro sono fratelli del mio Figlio; sono, perciò, miei figli e io sono il loro padre. Quando mi pregano, io vedo davanti a me le loro mani giunte e vedo pure le loro lacrime e allora queste tre o quattro parole: Padre nostro che sei nei cieli… queste tre o quattro parole mi vincono, sconfiggono me, che sono l’invincibile».

    Da questo infinito amore paterno nasce la «chiamata» per ciascuno di noi: una vocazione dell’Amore all’amore, che poi si diversifica nelle nostre storie personali sostenendoci giorno dopo giorno, ma che quotidianamente esige di essere rinnovata. San J. H. Newman (lo cito volentieri, carissimo Vincenzo, perché è un santo pure a te molto caro) disse in un suo sermone: «Non siamo chiamati soltanto una volta, ma molte volte; per tutta la nostra vita Cristo ci chiama … siamo tutti continuamente chiamati, sempre di nuovo, da una cosa ad un’altra … e quando obbediamo a un comando, subito ce ne viene dato un altro» (Parochial and Plain Sermons, VIII/2 «Divine Calls»: Longmans, Green and Co., London 1908, 23).

    Oh, com’è vero e quante volte ci accade di verificarlo nella nostra vita. È l’esperienza che tu, Vincenzo, stai facendo in questi giorni. Eri dedito al tuo lavoro quotidiano, nel Pontificio Collegio Urbano de Propaganda Fide; un servizio cui fosti chiamato mentre già svolgevi ministero pastorale nella tua Diocesi di origine, Nardò-Gallipoli; poi, mentre ancora, come gettando le reti in mare, tu eri lì, Gesù è passato nuovamente per dirti: «Vieni dietro a me» (cf. Mt 4,19). E tu lo stai seguendo. Negli ultimi mesi questa è pure la mia rinnovata esperienza. Ritenevo, alla mia età e a cinquant’anni dall’ordinazione sacerdotale, di potermi immaginare simile a Pietro, quando «trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci» (Gv 21,11). Mi ritrovo, invece, a camminare su di un’altra strada, quasi rapito come Filippo dopo avere battezzato l’eunuco funzionario della regina d’Etiopia (cf. At 8,19-20).

    La vocazione è così: mai conclusa. Dio non chiama una sola volta, perché egli ha sempre un «volto albeggiante» (cf J. B. Metz, Avvento di Dio, Queriniana, Brescia 1966, 22). Le sue chiamate hanno sempre il chiarore delle aurore e questo apre alla speranza. Non per nulla l’Apostolo ci indica il futuro: quelli che ha chiamato e giustificato, li ha anche glorificati! Ci confortano le parole di san Gregorio di Nissa il quale, commentando alcuni passi del Cantico, scrive: «Chi corre verso il Signore non potrà mai esaurire l’ampiezza del cammino verso di Lui [...]. Dio lo si vede soltanto se si continua a seguirlo. Vedere il suo volto significa camminare instancabilmente andandogli dietro» (In Cant. Canticorum, V. XII: PG 44, 876. 1025-1028). Viviamo, dunque, nell’umiltà, tu ed io, i rispettivi passaggi di vita.

 

    3. Oggi la Chiesa celebra una bella festa mariana. Carissimo Vincenzo, l’hai scelta per la tua ordinazione episcopale, come io, cinquant’anni or sono, su richiesta del mio Vescovo, la scelsi per la mia ordinazione sacerdotale. È una festa che illumina entrambi. E non soltanto noi, perché la nascita della beata Vergine Maria è «speranza e aurora di salvezza per il mondo intero» (Messale Romano, Dopo la comunione).

    Generare, nascere: sono verbi che hanno il sapore della vita. Nella pagina del vangelo che è stata proclamata il verbo generare è stato ripetuto ben quaranta volte; il verbo nascere, invece, è stato pronunciato una sola volta, ma vale più di tutte le altre. È descritta, infatti, una catena di generazioni, che comincia con Abramo e giunge a Giuseppe, lo sposo di Maria, e lì si ferma come un fiume sotterraneo che trova finalmente la sorgente donde sgorga in tutta la sua purezza. È così che, dopo quaranta generazioni, c’è Giuseppe, un uomo che non genera, ma che è lo sposo di Maria dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.

    La sola volta in cui c’è, il verbo nascere è nella forma passiva: questo per farci capire che è lo Spirito a donare fecondità a tutte le nostre opere. Lo stesso, che rese fecondo il grembo di Maria. Un grande poeta di lingua tedesca – R. M. Rilke – ha lasciato questo verso: «Anche se non vogliamo Dio matura». Gott reift (Das Stunden Buch. I. […] Della vita monastica). E mi torna alla memoria quanto scrive l’Apostolo: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere…» (1Cor 3,4-9).

    Dio matura. Dio fa crescere. Negli anni di ministero episcopale qui ad Albano mi sono impegnato nella fondamentale prospettiva di una pastorale generativa. Vincenzo, non è nulla di rivoluzionario. È semplicemente una pastorale che intende generare alla fede avendo a cuore prima di tutto le persone, cercando di raggiungerle negli spazi della loro vita quotidiana. La maturammo rientrando dal Convegno ecclesiale di Verona nel 2006. In anni più recenti, abbiamo compreso che fra quegli spazi di vita ce n’è uno che oggi è di particolare urgenza ed è quello delle fragilità, che ci domanda d’impostare e rafforzare una pastorale di cura. La pandemia non ancora sconfitta ha sconvolto i ritmi della nostra vita; la vita sociale ed anche la nostra pastorale hanno sofferto una forma di terremoto nel tessuto delle relazioni e mentre il presente è ancora immerso in un complicato clima emotivo, il futuro appare ancora più incerto e ci domanda nuove progettualità. Se nella società si avverte l’esigenza di una politica della cura (cf. L. Mortari, La politica della cura. Prendere a cuore la vita, anche nelle nostre comunità c’è l’urgenza di una pastorale di cura, Raffaello Cortina ed., Milano 2021), anche noi sentiamo il bisogno di una pastorale di cura.

    Potrebbe ricordarcelo un antico testo cristiano: «Se mentre sei seduto qualcuno dovesse entrare, sia esso un uomo o una donna, una persona investita di un qualche onore del mondo e proveniente dallo stesso distretto oppure da un’altra comunità, tu, o vescovo, se stai parlando, ascoltando o leggendo la parola di Dio, non devi inchinarti davanti a lui. Non devi sospendere il ministero della Parola per trovare un posto per lui; resta dove sei, indisturbato, e non interrompere quello che stai dicendo; saranno i fratelli a prendersi cura di lui... Se invece dovesse entrare un povero, sia esso uomo o donna, di quel luogo o di un’altra comunità, soprattutto se esso è anziano e non c’è posto per lui, allora tu, o vescovo, con tutto il tuo cuore dovrai provvedere che si trovi un posto per lui, anche qualora tu dovessi sederti per terra» (Didascalia Apostolorum II, 58, 4-6: F. X. Funk, I, 169-172). Possiamo sentirne un’eco in sant’Alfonso Maria de Liguori, il quale annota «che il vescovo prima di ordinarsi può vivere a se stesso, ma dopo l’ordinazione è tenuto a vivere alle sue pecorelle» (Riflessioni utili a’ vescovi, cap. 1).

    Carissimo Vincenzo, fino ad ora la pastorale di cura l’ho chiamata il mio testamento. Ora, però, vedo in essa un singolare punto di contatto tra me, che concludo e te, che inizi. Per il tuo stemma episcopale hai voluto il motto: euntes praedicate et curate! Non è più, allora, un testamento il mio, ma un testimone che oggi vedo raccogliere dalla mia mano. Te lo consegno con intima gioia, perché il lasciar andare è la perfezione della paternità.

 

    4. Lasciar andare significa, infatti, affidare ad altri ciò che si è aiutato a nascere e crescere, perché germoglino fiori nuovi che diano nuovi frutti. Per comprenderlo guardiamo a Maria, il germoglio della radice di Iesse da cui – come dicono i Padri –è spuntato il fiore Cristo, che «come il frutto di un albero buono, secondo il progresso delle nostre virtù, ora fiorisce, ora fruttifica in noi, ora si rinnova in noi per virtù del suo corpo risuscitato» (Ambrogio, Exp. Ev. sec. Lucam, II, 24: PL 15, 1561).

    La Chiesa di Albano, carissimo Vincenzo, l’immagine della Madonna te la proporrà sotto diversi titoli: Madre della Misericordia, in questa città, e poi Immacolata, Vergine dell’Annunciazione, Assunta in cielo, Ausiliatrice, Madonna del Santo Rosario, delle Grazie, del Monte Carmelo, del Buon Consiglio, della Speranza, Regina della Pace, Madre della Chiesa... Per un Vescovo, la Vergine è «maestra nell’ascolto e nella pronta esecuzione della Parola di Dio, nel discepolato fedele verso l’unico Maestro, nella stabilità della fede, nella fiduciosa speranza e nell’ardente carità» (Giovanni Paolo II, Pastores gregis, n. 14).

    Ella, carissimo, ti sostenga nell’impegno interiore di piena conformazione al «Pastore grande delle pecore» (Ebr 13,20). Alla scuola di Maria possa tu apprendere la contemplazione del volto di Cristo; sotto il suo sguardo di Madre possa tu trovare consolazione nello svolgimento della tua missione ecclesiale e forza per annunciare il Vangelo della salvezza (cf. Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi [2004], n. 33). Amen.

 

    Albano Laziale, 8 settembre 2021

                                                                                                    Marcello Card. Semeraro