Omelia per la XXV Giornata Mondiale della Vita Consacrata

OMELIA PER LA XXV GIORNATA MONDIALE DELLA VITA CONSACRATA

(Basilica Cattedrale di Albano, 2 febbraio 2021)

 

 

La vocazione, una lampada accesa per tutti

 

1.  Mi vien da paragonare la liturgia di questo giorno a un candelabro, dove brillano molte lampade e il loro splendore rallegra l’animo, riscalda il cuore e illumina la mente. Col rito della benedizione delle candele, d’altra parte, il segno della luce caratterizza fin dal principio questa nostra celebrazione. 

La prima «lampada» che vedo brillare è il mistero dell’Incarnazione, che il quarto vangelo paragona, appunto, alla luce: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,19). È un mistero, questo dell’Incarnazione, che non ci dice soltanto che il Figlio di Dio si è fatto uomo, ma pure che egli si è inserito in tutte le nostre vicende umane, sociali e religiose per illuminarle, guarirle, elevarle. Ecco, allora, che per due volte, nella proclamazione del vangelo, abbiamo udito che egli si è assoggettato alla legge di Mosé, alla legge del Signore. 

La seconda lampada che risplende in questa liturgia è la Pasqua del Signore, evocata da Simeone nelle parole rivolte a Maria: «egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». E Maria vivrà di fede, fin sotto la croce, come ci ha ricordato il Vaticano II: «la beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette, soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al suo sacrificio» (Lumen gentium, n. 58). 

La terza lampada è il compimento escatologico, che possiamo riconoscere nelle parole di Simeone: ««Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola…». Non si tratta soltanto di evocare il termine della propria vita terrena, ma ancor più di riconoscere in quel Bambino – in Cristo – il compimento di ogni attesa e l’adempimento di ogni speranza. Simeone può andarsene «in pace» perché incontrando il Signore Gesù ha ricevuto la pace; ha ottenuto in dono quella pace che è l’ultimo dono di Dio ed è legato al mistero della presenza di Gesù in mezzo a noi. Proprio come abbiamo cantato: «pace in terra agli uomini, amati dal Signore» (Lc 2,14).

 

2.  Un’altra idea mi viene alla mente, considerando il mistero che stiamo celebrando. È un pensiero che si potrebbe riassumere nel binomio accogliere-ridonare. Nella monizione introduttiva la Chiesa ci ha ricordato che «sono passati quaranta giorni dalla solennità del Natale». Io, dunque, vedrei questo mistero nella prospettiva dell’accoglienza. La narrazione del vangelo, infatti, ci ha ripresentato le figure di Maria e di Giuseppe che potremmo considerare nello sfondo dell’accoglienza. Accogliente è Maria, nel mistero della sua maternità. «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra», le spiegherà l’angelo (cf. Lc 1,35). Maria non genera per una sua umana capacità, ma per una forza divina.

Anche la figura di Giuseppe e la sua paternità noi la comprendiamo nella prospettiva dell’accoglienza. Giuseppe non si fa padre, ma è fatto padre! Così ce lo ha illustrato il Papa nella lettera apostolica Patris corde, dove la paternità di san Giuseppe è declinata in molteplici forme: padre amato, padre nella tenerezza, nell’obbedienza, nell’accoglienza, nel coraggio creativo, padre lavoratore e padre nell’ombra. In quella Lettera leggiamo che «padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti».

Non è così pure la nostra, la vostra paternità e maternità, carissimi fratelli e sorelle? Tra le prossime «cause» che saranno discusse nella Congregazione delle Cause dei Santi c’è quella che riguarda un sacerdote, Daniele Badiali, missionario fidei donum nel Perù ucciso nel 1997. Di lui ho già altre volte citato quel che scriveva ad un suo professore nel Seminario: «La gente mi chiama padre, questo nome tante volte mi fa paura, solo Dio sa essere padre ... Ora capisco perché Gesù doveva fare i miracoli alla povera gente [ ... ]. Qua la vita non è diversa, la gente ti fa padre e sono obbligato ad accettare questa parte». Non accade così per tanti di voi, carissimi? «La gente ti fa padre…»! E così il mistero di Maria e di Giuseppe in qualche modo si riflette nella nostra vita.

 

3.  Al gesto dell’accogliere, corrisponde quello del donare. Soltanto quando doniamo mostriamo di essere stati veramente capaci di accogliere. È quanto fanno Maria e Giuseppe. San Luca lo descrive richiamando la presentazione del figlio primogenito secondo la prescrizione presente nel libro dell’Esodo (cf. 13,2.12), fondata sul ricordo dell’azione di Dio che libera Israele, il suo figlio primogenito, dalla schiavitù e invece fa morire i primogeniti degli Egiziani. Maria e Giuseppe hanno ricevuto da Dio un dono, Gesù, che ora gli presentano.

Dobbiamo essere così anche noi; dovete essere così anche voi, carissimi per i quali oggi è celebrata la XXV Giornata mondiale della vita consacrata. Lo ricordava il Concilio Vaticano quando scriveva che «la professione dei consigli evangelici appare come un segno, il quale può e deve attirare efficacemente tutti i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione cristiana» (Lumen gentium, n. 44). La vocazione stessa è un segno per gli altri. Non si è chiamati (né alla vita consacrata, né al sacro ministero e neppure alla vita matrimoniale e, così per tutte le vocazioni) per se stessi, ma per gli altri. Ogni vocazione lo è per tutte le vocazioni.

Siate, allora, carissimi, come Simeone che ha tra le braccia Cristo, luce delle genti! Abbiamo un po’ voluto imitarlo, all’inizio della Messa, tenendo accesa tra le nostre mani una candela. Cristo non è soltanto «gloria di Israele», ma pure «luce delle genti» (cf. Prefazio). Continuiamo ad essere così anche noi. Sia, la nostra vocazione, una lampada accesa per tutti.