Omelia Santuario di Pompei

 

I santi aprono sempre inedite vie di carità

 

    Giungo qui a Pompei, con l’animo colmo di ricordi personali che si aprono nella lode riconoscente al Signore. Ho accolto volentieri l’invito dell’arcivescovo mons. Tommaso Caputo, che fraternamente ringrazio e saluto con tutti gli altri arcivescovi e vescovi concelebranti, presbiteri, consacrati e fedeli variamente uniti per questa Divina Liturgia.

    Celebrando in onore della Santa Madre di Dio è doveroso metterci come Lei in ascolto della parola del Signore. Abbiamo ascoltato il racconto sempre nuovo dell’Annunciazione, che ci introduce in una scena di cui è difficile immaginarne una «più divina e nello stesso tempo più umana, una scena che più di questa dia l’idea di ciò che abbastanza spesso si verifica nella nostra vita di uomini» (J. Guitton, La Vergine Maria, Milano 1995, 54). Perché non c’è nulla di più santo dell’opera di Dio che dalla terra vergine della Figlia di Sion fa spuntare l’Uomo nuovo e il germe di una nuova creazione; e non c’è nulla di più umano di quella giovane donna che si turba e che interroga, che domanda e vuol sapere come.

    Ho impressa nella mente la bellissima riflessione di san J. H. Newman su questa scena evangelica. Scriveva: «Santa Maria è per noi modello di fede, sia quanto all’accoglierla sia quanto a studiarla. Non le basta accettarla, ma ci riflette sopra; non le basta possederla, ma vuole usarla; non le basta assentirvi, ma la sviluppa; non le basta sottomettere la ragione, ma ragiona sulla propria fede. Non è che prima ragioni e poi creda, come Zaccaria; al contrario, lei prima crede senza ragionare e subito dopo, con rispettoso amore ragiona su ciò che crede. Ed è così che per noi è modello non soltanto per gli incolti, ma pure per quello che nella Chiesa sono maestri …» (cf. Sermon XV, in «Fifteen Sermons preached before the University of Oxford», Rivingston, London, Oxford, and Cambridge 1872, 313).

    Maria sta davanti a Dio con tutta la sua umanità: fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo, ci racconta san Luca, che ci riferisce pure l’incoraggiamento dell’angelo, che le disse: Non temere. Il timore di Maria è quello di chi si trova davanti ad una svolta fondamentale della vita e il non temere dell’Angelo è una chiamata a non lasciarsi bloccare, ma piuttosto affascinare dal nuovo che Dio le sta aprendo. Noi, però, abbiamo paure anche per tante altre cose e non è per caso che l’esortazione divina: non abbiate paura ricorre decine e decine di volte nella Bibbia e per le situazioni più varie. Sicché non mancano le domande anche per noi: di cosa ho paura? Perché ho paura? Come reagisco alle mie paure?

    Ai timori di Maria l’angelo risponde: Hai trovato grazia presso Dio. Ai nostri timori fa simile eco Papa Francesco: «Oggi, nel dramma della pandemia, di fronte a tante certezze che si sgretolano, di fronte a tante aspettative tradite, nel senso di abbandono che ci stringe il cuore, Gesù dice a ciascuno: “Coraggio: apri il cuore al mio amore. Sentirai la consolazione di Dio, che ti sostiene”» (Omelia nella Domenica delle Palme, 5 aprile 2020).

    Maria è chiamata ancora alla sua umana responsabilità quando, come abbiamo ascoltato, terminato il dialogo, l’angelo si allontanò da lei. Questa partenza improvvisa, senza convenevoli né saluti di cortesia, ci lascia perplessi. A Maria Dio fa un dono, ma non le lascia il libretto delle istruzioni! L’angelo vola verso il cielo e lei rimane sulla terra, sola col mistero della sua maternità. Che fare? A chi dirlo? Come dirlo? Sì, per noi oggi è facile, dopo duemila anni di cristianesimo, dire: dovrà vivere di fede… Ma come? Il come, in questo caso, è sempre lasciato a noi, alla nostra libertà e perfino alla nostra creatività. Vivere di fede non vuol dire avere la ricetta per tutti i problemi, ma cercare ogni volta una risposta personale, considerando gli stili di Dio e cogliendo le interpellanze della storia.

    Questo, in ultima analisi, è la santità ed è la ragione per cui ogni santo ce ne mostra un volto diverso. Un buon esempio ci viene proprio da Maria la quale, come annotava san Beda, mentre l’angelo se ne tornava in cielo, cercò una via tra le montagne: angelus coelestia repetit, illa petit montana. Ed è così – conclude – che, quando si è accolta la parola di Dio, la prima cosa da fare è scalare le vette dell’amore (cf. In Ev. Lucae I: PL 92,320). Tutto, dunque, alla fine si risolve nella carità.

    Così è stato anche per il beato Bartolo Longo. Quand’egli cercava ormai la sua strada tra le vie del Signore, gli fu aperta la strada della Carità attraverso l’incontro col p. Ludovico da Casoria. Si indirizzò, dunque, alla via che conduceva allo storico Ospedale degli Incurabili, sorto a Napoli alla metà del Cinquecento ad opera della venerabile Maria Lorenza Longo, della quale il 27 ottobre scorso papa Francesco ha approvato il decreto che apre la via alla beatificazione.

    Fu proprio questo ospedale la «palestra di carità» del beato Bartolo Longo. Scriverà: «Il mio caro maestro nella carità, Ven. P. Ludovico da Casoria, mi istruiva: “Quando vuoi convertire una persona, e indurla a Dio, non dirle mai a prima giunta: - Ti vuoi confessare? – Ma invece le farai prima vedere la carità in atto. Dalle del pane, del danaro pei suoi bisogni, comprale medicine se inferma, rifà anche il suo letto…» (cit. da P. M. Frasconi, Don Bartolo Longo, Istituto Missionario – Pia Società San Paolo, Alba 1941, 87). Questa lezione Bartolo Longo l’imparò e la mise subito in pratica sicché, dagli ultimi mesi del 1868 al 1870, frequentò praticamente ogni giorno quel nosocomio.

    Entratovi, poi, per fare del bene al prossimo, proprio lì trovò per se stesso altri maestri di carità e da lì avviò l’opera della Nuova Pompei. La prima guida spirituale la trovò nella persona di un povero, dolorosamente segnato da una malattia deformante: il Servo di Dio Francesco Majone. Accanto al suo letto la situazione si capovolgeva e lo stesso Bartolo Longo diceva che gli bastava contemplare la sua serenità, amabile e semplice, per avere un grande insegnamento. Un altro maestro di carità lo trovò nel Servo di Dio Luigi Avellino, anch’egli ricoverato agli incurabili perché divenuto paralitico e col quale recitava la Novena alla Madonna di Pompei. Scriverà lo stesso Bartolo Longo: «Ma quale dolcezza mi faceva provare il Signore nelle visite che io facevo quasi ogni sera, a due altri Servi suoi, che erano infermi cronici, degenti nel grande Ospedale degl’Incurabili» (Storia del Santuario di Pompei, Pompei 1954, 408). È nei misteri di Dio che i santi s’incontrino per aprire sempre inedite vie di carità. Tra i santi che Bartolo Longo incontrò, c’è anche con don Giustino Russolillo, di cui il Papa appena lunedì scorso ha annunciato la canonizzazione. Queste vie di carità il nostro Beato le percorse fino a divenire egli stesso santo di carità.

    Ed ecco, carissimi, una strada aperta anche per noi, oggi, mentre ci domandiamo: come e da dove riprendere, dopo questa dolorosissima fase della pandemia? Io penso che dovremo ricominciare dalla stessa carità da cui partì il beato Bartolo Longo. È la carità la via nuova da cui ripartire, perché la medesima carità verso il prossimo ha, nella nostra vita di cristiani, una duplice dimensione: quella che traduce la fede (cf. Gal 5,6; Gc 2,18-19.25) e che diventa soccorso, aiuto, opera di misericordia; c’è, poi, la carità che, testimoniata da noi di fronte al mondo, è in grado di introdurre alla fede. In uno dei più bei documenti pastorali dell’episcopato italiano leggiamo: «le multiformi testimonianze di solidarietà, servizio e condivisione con i più deboli espresse dalle comunità cristiane, proprio nella loro gratuità e apertura disinteressata, si mostrano oggi come vie privilegiate per un’evangelizzazione che interpelli anche chi è lontano e possa liberamente aggregare coloro che, senza esserne pienamente consapevoli, con le loro scelte di vita sono orientati a dire “si” al Dio di Gesù Cristo» (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 8 dicembre 1990, n.9).

 

Marcello Card. Semeraro