Omelia nella beatificazione del Venerabile Servo di Dio Carmine De Palma, presbitero diocesano

 

Quando la verità diventa carità nasce la santità

Omelia nella beatificazione del Venerabile Servo di Dio Carmine De Palma, presbitero diocesano

 

«Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14). È la parola di Gesù che vorrei riecheggiasse nel nostro cuore dopo averla ascoltata dalla proclamazione del vangelo. Domando: qual è il valore che il verbo «conoscere» ha sulle labbra di Gesù? Sulle nostre, esso indica abitualmente un sapere, un apprendere una notizia, un identificare qualcosa o qualcuno, talvolta anche un avere esperienza … sicché il suo contrario è l’ignorare, il non avere esperienza, l’essere estranei e tutto questo ha senza dubbio una risonanza negativa. Ma Gesù, cosa intendeva quando diceva: conosco? Egli usava questo verbo nel significato che aveva nella cultura ebraica, ossia come sinonimo di «amare», vivere insieme un progetto di amore … e questo dà pure una idea della vita che dall’eternità il Figlio viveva con il Padre: «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre» aggiunge, infatti, Gesù. In tale prospettiva, carissimi, guardiamo oggi alla figura del nuovo beato, il sacerdote Carmine De Palma, considerando alla luce del Pastore buono pure il lungo ministero da lui svolto in questa Chiesa di Bari, a cominciare da quello di Canonico del Capitolo di San Nicola, donde, sostenute da una spiritualità benedettina, si irradiarono poi tante altre benefiche attività pastorali.

Di tutto, mi limito a richiamare in modo speciale due ambiti. Anzitutto quello della fraternità sacerdotale. Basterà, per dire cosa intendo, richiamare il n. 8 del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis sulla vita e il ministero dei presbiteri, dedicato alla unione fraterna tra di loro: una realtà che non è di ordine professionale e ancor meno di «casta» e neppure semplicemente di tipo spirituale. Si tratta, invece, come dice il testo, di una intima fraternità sacramentale: una fraternità, intende, che c’è pure quando, malauguratamente, fra presbiteri dovessero sorgere dissidi, incomprensioni, antipatie … La base sacramentale rimane comunque ed esige sempre di essere, se necessario, recuperata, nonché vissuta e accresciuta. Il Concilio parla, per questo, di vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità validi verso tutti. Che questa fraternità sacramentale il nostro Beato l’abbia vissuta lo mostrano sia le tante testimonianze di sacerdoti offerte nel Processo per la Causa di Beatificazione e Canonizzazione, sia la sollecitudine poi mostrata dal Presbiterio diocesano nel promuovere e sostenere questa Causa. L’odierna coincidenza, nel Calendario Liturgico, con la memoria di Sant’Alberto Magno, mi permette di ricordare al riguardo il caro don Alberto D’Urso, che tanto si pese per questo scopo. Io lo ricordo con commozione insieme con voi, considerando pure il suo impegno diocesano e nazionale contro l’usura. Al prete non può mancare – come ricordava Leone XIV parlando al clero di Roma lo scorso 12 giugno – «lo sguardo alle sfide del nostro tempo in chiave profetica».

L’altro ambito del ministero pastorale del beato De Palma che desidero sottolineare è quello dei fedeli laici. Sono davvero molti fra loro quelli che in lui hanno trovato la guida spirituale sì da progredire nella personale risposta a quella «vocazione che tutti ci accomuna come battezzati, membra vive dell’unico popolo di Dio» (Leone XIV, Udienza al Convegno del Dicastero delle Cause dei Santi, 13 novembre 2025): ossia la vocazione alla santità. Celebrando il sacramento della Penitenza il nostro Beato è stato per innumerevoli fedeli ministro di riconciliazione e di perdono, ma è stato pure guida limpida ed equilibrata per i tanti che a lui si rivolgevano per avere un aiuto nel discernimento della volontà di Dio sulla propria vita.

Questo ministero è, oserei dire, fra i più urgenti nell’attuale fase del nostro convivere dove, come ha sottolineato un recentissimo studio, c’è un grande bisogno di recuperare l’essenziale. La supremazia del web, vi si legge, sta distruggendo l’idea e la struttura della comunità poiché tutti vogliono comunicare, mentre si è smarrito il sentire della comunione e della comunità, che dà senso alla comunicazione. Non si comunica più con qualcuno ma solo e genericamente a qualcuno: vale a dire che si comunica a tutti, cioè nessuno (cf. Rapporto Italia 2025 – 37° Rapporto, Armando ed., Roma 2025, 26). Nella lettera enciclica Fratelli tutti Papa Francesco aveva scritto con amarezza che «ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità … Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà» (n. 33). Questo è, purtroppo, vero anche nel nostro ambito ecclesiastico. Incontrando il 29 luglio scorso gli influencer e i missionari digitali, Leone XIV ha detto loro: «Non si tratta semplicemente di generare contenuti, ma di incontrare cuori, di cercare chi soffre e ha bisogno di conoscere il Signore per guarire le proprie ferite».

È così che ha comunicato il beato Carmine De Palma e quanti erano in contatto con lui non erano dei follower. Egli li incontrava; non parlava a loro, ma parlava con loro … E sono nati dei santi. Penso in primo luogo a Giovanni Modugno, descritto come «volto umano del Vangelo» (V. Robles), un docente la cui pedagogia è stata descritta come «la più politica di quelle elaborate in Italia nella prima metà del Novecento» (M. Perrini). Come Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi (e anche pugliese come voi) ci terrei molto alla prosecuzione della sua Causa di beatificazione e canonizzazione.

Lo scorso 25 ottobre, parlando a quanti curano le cerimonie di Stato nazionali in occasione del loro Giubileo il Papa ricordava alcuni esempi luminosi di speranza e di giustizia. Per gli ambiti della politica ha citato il Servo di Dio Alcide De Gasperi; per quelli della vita militare e difesa dello Stato, il Venerabile Salvo D’Acquisto e per quelli della magistratura il Beato Rosario Livatino. Mi chiedo: perché non proseguire con altri ambiti? Per quello dell’educazione dell’uomo nella sua interezza si potrebbe ricordare l’esempio del Servo di Dio Giovanni Modugno! Alludendo di certo a don Carmine, che era il suo confessore e guida spirituale, egli un giorno confidò: «L’ultimo passo io l’ho fatto, aiutato anche dalla provvidenza, che, dopo tanti tipi di don Abbondio, mi ha fatto conoscere qualche padre Cristoforo».

Il beato De Palma non ha solo fatto nascere santi, come ho appena ricordato, ma è pure vissuto con santi. Papa Francesco ci ripeteva che la santità è spesso accanto alla porta della nostra casa (cf. Gaudete et exsultate, n. 7) e in un commento ho letto che se nelle nicchie degli altari c’è posto per un solo santo alla volta, è ben diverso nella storia di Dio con il suo popolo. È accaduto pure al nostro don Carmine. Si potrebbe citare in proposito la beata Elia di San Clemente, carmelitana, ma io mi soffermo su sant’Annibale M. Di Francia che, da Messina, il 21 febbraio 2018 così scrisse al Direttore del Corriere delle Puglie: «… il giorno 18 del corrente mese, in cotesta cospicua Città di Bari. M’incamminavo per giungere alla stazione ferroviaria “Bari-Matera”, (verso le ore 13), ed ero in compagnia del Reverendissimo mio amico il Canonico Carmine De Palma del Capitolo di Bari, quando, in una delle strade in vicinanza della stazione, ci si offerse allo sguardo il doloroso spettacolo di un povero afflitto e misero, assediato da una turba di ragazzacci che lo schernivano e molestavano in varie guise, e chi lo tirava dietro afferrandolo da un pizzo della cenciosa giubba, chi gli dava un urtone, chi gli lanciava addosso qualche immondezza. Il malcapitato si arrabbiava, urlava, si dibatteva, quando, sopraggiunti noi due, lo accostammo per confortarlo, dandogli anche il lieve compenso di qualche moneta che il poveretto accettò con segni di riconoscenza».

Ancora oggi noi lamentiamo abusi contro persone vulnerabili, atti di bullismo e altre forme di vessazione verso deboli, poveri e ammalati e quanto ho appena riferito ci lascia molto da pensare. Ciò, però, che adesso, considerando l’esempio di sant’Annibale e del nostro Beato vorrei mettere in luce, è che la spiritualità, quando è autentica, si coniuga sempre con la carità verso il prossimo. Il «se non avessi la carità» di 1Cor 13 è decisivo e determinante per la santità. Commentando il verso di un inno liturgico che recita: Accendat ardor proximos, Benedetto XVI disse: «La verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta». Intendeva che c’è santità solo quando la verità diventa carità.

La fede, dunque, che tra poco proclameremo nel Simbolo, sia, dunque, tale in ciascuno da diventare fuoco che accende gli altri e il fuoco in tutti della divina presenza diventi per ciascuno forza per il presente e per il futuro (cf. Benedetto XVI, Meditazione dell’8 ottobre 2012 alla XIII Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi). Amen.

 

Cattedrale di Bari, 15 novembre 2025

 

Marcello Card. Semeraro