Omelia nella festa della Dedicazione della Basilica Lateranense

 

La santità nella Chiesa particolare

Omelia nella festa della Dedicazione della Basilica Lateranense

 

È normale festeggiare celebrare nelle nostre delle nostre Cattedrali e delle nostre chiese parrocchiali il giorno della loro Dedicazione, ma è comprensibile chiedersi: perché, oggi, noi celebriamo qui, a Padova, la Dedicazione della Basilica Lateranense? Perché la stessa cosa si fa in tutta la Chiesa cattolica? La ragione è questa: perché si tratta della Cattedrale del Papa. Proprio perché è la Cattedrale del Successore di Pietro, la Basilica lateranense è, come si legge nell’architrave al suo ingresso, «la madre di tutte le chiese». Questa celebrazione, allora, vuole anzitutto essere un segno di comunione con il Papa; è anche, però, un ritrovarci come figli un’unica Chiesa: benché di origini e provenienze diverse – e quanto tale diversità si percepisce in questa Basilica per la presenza di tanti pellegrini, che vi giungono da ogni parte del mondo per venerare sant’Antonio – pur giungendo da tante parti del mondo siamo tutti figli di una stessa Madre, la Santa Chiesa. Un testo medievale così canta: «Come abbiamo un solo Padre nei cieli, così sulla terra abbiamo un’unica madre ed è la Chiesa, sua sposa. È sempre lei che tutti ci genera, benché nati in acque diverse e in luoghi e tempi diversi» (Algero di Liegi, De sacramentis, II, 1: PL 180, 835).

Per la Liturgia di questo giorno la Chiesa ha scelto dei testi biblici che ci illuminano ulteriormente per comprendere quanto stiamo celebrando. Penso alla spiegazione che il quarto evangelista ci dà delle parole e dei gesti di Gesù: «parlava del tempio del suo corpo»! Questo ci chiede di fare un importante passaggio: materialmente siamo riuniti in questa bellissima e antica Basilica eretta in onore di sant’Antonio e certamente tutti ci siamo già avvicinati, o ci avvicineremo alla sua tomba per toccarla in gesto di devozione e di amore; spiritualmente, però, il luogo dove davvero dobbiamo e vogliamo ci incontrare è Cristo Gesù. Ed è per tale unione con lui che noi pure, come abbiamo udito dalle parole di san Paolo nella seconda lettura, siamo tempio di Dio; un tempio dove dimora lo Spirito. E tutto questo ci riporta alla grazia del Battesimo e ci richiama la chiamata alla santità: ossia a essere e vivere come amici di Dio, come fedeli discepoli di Gesù, come fratelli e amici che vivono nella pace, la cercano, la propongono con l’esempio della loro vita riconciliata e ricca di perdono.

C’è, poi, carissimi, un’altra ragione che rende importante la ricorrenza liturgica del 9 di novembre ed è il fatto che Papa Francesco ha scelto questa data perché in tutte le Chiesa particolari si faccia il ricordo dei propri Santi, Beati, Venerabili e Servi di Dio. Questa decisione l’ha comunicata il 16 novembre dello scorso anno, pubblicando una Lettera con la quale fissava per questo il 9 novembre di ogni anno, Festa della Dedicazione della Basilica Lateranense. Lo scopo di questa decisione fu incoraggiare tutte le Chiese a «riscoprire, o perpetuare la memoria di straordinari discepoli di Cristo che hanno lasciato un segno vivo della presenza del Signore risorto e sono ancora oggi guide sicure nel comune itinerario verso Dio, proteggendoci e sostenendoci».

Siamo a Padova e questa Diocesi ha, come tutte le altre, i suoi santi e tradizionalmente nel suo calendario liturgico li ricorda il 5 di novembre: c’è indubbiamente sant’Antonio, che è pure patrono di questa Città, ma ci sono pure san Prosdocimo, il primo vescovo, ch’è pure il patrono della Diocesi; san Gregorio Barbarigo, santa Giustina e san Daniele e altri santi, beati e beate legati a questa Chiesa e alla città. Tanti potrebbero aggiungersi: penso a san Leopoldo da Castelnovo (Bodgan Mandić), che qui ha esercitato il ministero della Confessione; al venerabile Elia dalla Costa, che qui fu vescovo dal 1923 al 1931 …

Oggi, però, avverto forte il bisogno di ricordare la figura del padre Placido Cortese, del quale ricorre l’81mo anniversario della morte e che, il 30 agosto 2021, Papa Francesco dichiarò venerabile. Si tratta di una luminosa figura di religioso che, come Gesù, amò il prossimo sino a offrire la propria vita in un coraggioso apostolato di carità e giustizia. Al termine della Messa ci porteremo tutti davanti al Confessionale, dove padre Placido Cortese celebrava abitualmente i sacramento della Riconciliazione, per vivere un particolare momento di preghiera. Nel processo per la sua beatificazione e canonizzazione un testimone ha dichiarato che «si faceva la coda al suo confessionale e molti erano i giovani che andavano a confessarsi da lui». Sarà significativo farlo proprio davanti a quello che è il memoriale silenzioso della sua carità.

Carissimi, per me e doveroso ricordare almeno le circostanze conclusive della sua vita terrena, che testimoniano un esercizio senz’altro eroico delle sue virtù; un abito virtuoso che ha trasformato la sua esistenza in un dono. Egli, infatti, specialmente dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si adoperò moltissimo per aiutare e facilitare la fuga sia degli ex-prigionieri alleati, sia di tante altre persone perseguitate dai nazisti, inclusi gli ebrei. Tale sua opera di carità lo espose a gravissimi rischi sicché l’8 ottobre 1944 fu catturato dalla Gestapo e condotto nella caserma delle SS a Trieste. Qui fu duramente torturato affinché rivelasse i nomi dei collaboratori, ma egli resistette: come il Buon pastore evangelico, non fuggì davanti al pericolo e si dispose a donare la sua vita. Qui, dunque, in seguito alle durissime torture subite, egli morì nei primi giorni di novembre 1944.

Unita alle altre, cui ho accennato, la testimonianza di carità del venerabile Placido Cortese ci fa capire che a fondamento della santità c’è la grazia del Signore. Non c’è la nostra bravura, la nostra intelligenza, la nostra abilità … No! San Paolo ha scritto che «quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti …» (1Cor 1,27). In altra occasione, parlando di sé ha aggiunto: «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Capiamo, da queste parole, che si è santi per questa unica ragione: Dio ci ama. Nella lettera ai Galati, anzi, scriverà: «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (2,10). Quanto umanamente ardita questa espressione! Ero poco più che un ragazzo quando un noto cantautore italiano cantava: Io che amo solo te! Penso che soltanto Dio può dire davvero una frase come questa. Nell’esortazione apostolica Christifideles laici san Giovanni Paolo II scrive frequentemente che ciascuno di noi ha davanti a Dio un posto originale, unico e irripetibile. Pensiamoci un attimo: irripetibile! Vuol dire che se non rispondiamo al suo amore, Dio non troverà mai più un altro come noi che possa rispondergli. A tal punto ciascuno di noi è amato da Dio. Scriveva quel Papa: «Dio in Gesù Cristo chiama ciascuno col proprio inconfondibile nome» (n. 21).

Questo vale per ciascuno di noi ed è la personale e universale chiamata alla santità ricordataci dal magistero del Concilio Vaticano II. Tra i suoi insegnamenti leggiamo «che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi condizione o categoria, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità». Il Concilio aggiunge pure che essere «santo» è, per un cristiano, anche un compito sociale perché la santità «promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano» (Lumen gentium, n. 40). Leggiamo in questa prospettiva le storie dei santi: di sant’Antonio, del venerabile Placido. Meditiamoci sopra,

 

Padova – Basilica di Sant’Antonio di Padova, 9 novembre 2025

 

Marcello Card. Semeraro