La Speranza: il piede che ti fa camminare verso Cristo
Omelia per il mandato a quanti sono in partenza per il Giubileo dei Giovani
Dopo un cammino percorso sotto l’insegna della Speranza … direi, anzi, sotto la spinta della Speranza, eccovi ora qui riuniti attorno alla Mensa del Signore. Mi somigliate ai due discepoli che, giunti a Emmaus dopo la partenza da Gerusalemme, dissero all’ignoto compagno, che per via si era unito a loro: «Fermati con noi…» (Lc 24,29). Come loro, nel percorso anche voi avete ascoltato la Parola che, in forme diverse, egli vi ha rivolto e, passo dopo passo, avete camminato. «La corsa è immagine della vita», è stato scritto nel programma ed è certo così, ma, come ogni simbolo, anche questo è ambivalente: si può, infatti: correre per raggiungere una meta, ma anche per non farsi prendere; si può correre per dare sfogo alla propria vitalità, ma anche per fuggire da qualcosa …. Il vostro camminare, però, voi lo avete collegato alla Speranza. Lo chiamate Maratona della Speranza.
Un’antica tradizione, testimoniata da molti scrittori ecclesiastici, assimila la virtù della Speranza al “piede”, che nella lingua latina è detto pes. La Speranza (Spes) è vista perciò come la virtù che incoraggia a camminare: è la tensione nella vita del cristiano. La Speranza (spes) è il piede (pes) che si muove verso Cristo. Ma non soltanto il «piede», perché, come osservava acutamente san Tommaso d’Aquino, muovendosi il piede fa camminare tutto il corpo (cf. Super Sent., III, d. 27 q. 1 a. 2 s.c. 2). Ed è così che, sostenuti dalla Speranza (Occorri, speranza! vedo sottolineato nel vostro programma), noi siamo pellegrini nella storia verso Cristo, che è l’unica nostra speranza (cf. Orazione Colletta).
In questa sosta dopo il cammino, mentre siete in attesa di riprenderlo verso Roma, per celebrare con tanti altri il prossimo Giubileo dei Giovani, il Signore vi ha rivolto – ci ha rivolto – la sua parola attraverso il racconto del vangelo secondo Luca. Con esso Gesù vuole ammaestrarci sulla maniera giusta di stare con lui, di accoglierlo, di ospitarlo. Abbiamo udito di due sorelle, di cui Marta è evidentemente la maggiore e, in certo senso, come la padrona di casa. Il vangelo spiega, infatti, che «una donna, di nome Marta, lo ospitò». L’altra sorella si chiama Maria. Non si fa cenno dell’altro fratello, Lazzaro, di cui abbiamo notizia dal vangelo secondo Giovanni (cf. Gv 11), il quale c’informa pure che Betania era il nome del villaggio. Da questo deduciamo che il racconto di Luca ha soprattutto un valore simbolico.
Abbiamo, dunque, la figura di due persone, ambedue davvero amiche di Gesù, che, però, mostrano in modo diverso la loro affezione: Marta affannandosi per un’accoglienza degna dell’amico, Maria sostando in ascolto della sua parola. Generalmente si sostiene che Gesù stia contrapponendo due forme di vita: quella contemplativa (che sarebbe la preferita) e quella attiva. In realtà non è così, anzitutto perché nella vita cristiana (e non solo) una forma ha bisogno dell’altra. Byung-Chul Han, un filosofo sud-coreano, ha scritto questa profonda verità: «La vita contemplativa senza azione è cieca, la vita attiva senza contemplazione è vuota» (Il profumo del tempo, Vita e Pensiero, Milano 2017, p. 129). In verità, la «parte migliore» di cui parla Gesù non è né la contemplazione, né l’azione: la parte migliore è la sua persona. A ben vedere, si può stare seduti nel coro monastico per cantare le lodi, ma nel cuore essere dissipati e distratti; viceversa, si può stare in fabbrica a lavorare ed essere interiormente vicini a Dio. È ben nota la frase che alla se monache scrive santa Teresa di Gesù: También entre los pucheros anda el Señor, «Non vi affliggete quando l’obbedienza vi tenga occupate in cose esteriori: se attendete alla cucina, rendetevi conto che il Signore si aggira fra le pentole, aiutandovi interiormente ed esteriormente» (cf. Fondazioni V, 8).
Cosa potrebbe dirci, oggi, Gesù? Forse direbbe: «Caro amico, sono davvero buone le cose che stai facendo e gli impegni cui ti stai dedicando; però non perdermi di vista, non permettere che ciò che fai diventi una trappola, che t’impedisce di guardare fuori, dove sono Io che sto alla porta e busso…!».
Concludo proponendovi di adattare a voi le parole, che il Papa Leone XIV ha detto solo quindici giorni fa ai giovani di alcuni paesi del Nord Europa giunti a Roma anche loro per un pellegrinaggio giubilare: «Il pellegrinaggio svolge un ruolo fondamentale nella nostra vita di fede, poiché ci toglie dalle nostre case e dalle nostre routine quotidiane e ci dona il tempo e lo spazio per incontrare Dio in maniera più profonda. Questi momenti ci aiutano sempre a crescere, perché attraverso di essi lo Spirito Santo ci modella dolcemente affinché siamo sempre più conformi alla mente e al cuore di Gesù Cristo. In modo particolare, cari fratelli e sorelle, giovani riuniti qui con noi questa mattina, ricordate che Dio ha creato ognuno di voi con uno scopo e una missione in questa vita. Approfittate dunque di questa opportunità per ascoltare, per pregare, di modo che possiate sentire più chiaramente la voce di Dio che vi chiama nel profondo dei vostri cuori. Vorrei aggiungere che oggi, molto spesso, perdiamo la capacità di ascoltare, di ascoltare davvero. Ascoltiamo la musica, le nostre orecchie sono costantemente inondate da ogni genere di input digitale, ma a volte dimentichiamo di ascoltare il nostro cuore ed è nel nostro cuore che Dio ci parla, che Dio ci chiama e ci invita a conoscerlo meglio e a vivere nel suo amore. E attraverso questo ascolto, potreste aprirvi per consentire alla grazia di Dio di rafforzare la vostra fede in Gesù (cfr. Col 2,7), così da poter più facilmente condividere tale dono con gli altri» (Agli Insegnanti di Scuole cattoliche in Irlanda, Inghilterra, Galles e Scozia; e ai Giovani della Diocesi di Copenhagen, 5 luglio 2025). Questo è pure il mio augurio e per questo adesso prego insieme con voi e per voi.
Caltagirone, 19 luglio 2025
Marcello Card. Semeraro