Omelia nella Messa di ringraziamento per «dottorato» di San J.H. Newman

 

J.H. Newman e Filippo Neri: due santi coordinati

Omelia nella Messa di ringraziamento per il «dottorato» di San J.H. Newman

 

Ho accolto volentieri l’invito a celebrare questa Santa Messa e insieme con voi, che appartenete alla sua famiglia spirituale, ringraziare il Signore per il dono fatto alla Chiesa del «dottorato» di San J.H. Newman. Con questo atto il Papa ha ufficialmente dichiarato che, mentre lo onoriamo per la santità della vita, possiamo pure farci suoi alunni, riconoscendo presente in lui una «eminente dottrina»; una dottrina, cioè, che permette alla Chiesa di compiere una ulteriore immersione nella profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio, di cui ci ha parlato l’apostolo Paolo durante la proclamazione della prima lettura (cf. Rom 11,36). In questo mare infinito di misericordia e di amore non finiremo mai d’inoltrarci; oggi, però, la Chiesa ci rassicura che San J.H. Newman può aiutarci in tale immersione ed è per questo che noi oggi ringraziamo il Signore.

Siamo nella fase conclusiva di un Giubileo della speranza e noi siamo ben consapevoli del nostro dovere di crescere nella fede e nella carità; sappiamo pure che è proprio la speranza la virtù che ci mette in cammino: pes vester spes vestra est, diceva San Bernardo: «la speranza è il piede che ci fa camminare» (cf. Sermo XV in Ps. XC, 5: PL 183, 246). Già secoli prima, Clemente Alessandrino – un padre della Chiesa che Newman ben conosceva e spesso ha citato ne Gli ariani del IV secolo – diceva che se la fede c’introduce nelle acque della salvezza e la carità è la condizione perché c’immergiamo in tutto nella vita di Dio, la speranza è la virtù che ci fa coprire tutto lo spazio intermedio fra quel principio e quella fine, che è sempre e solo Cristo Gesù, nostra speranza (1Tm 1,1; cf. Clemente Aless., Stromati I, 1: PG 8, 705).

Sono contento, come vi ho detto, di celebrare con voi questa Liturgia perché voi, cari amici, siete la famiglia spirituale scelta da San J.H. Newman quando aderì alla Chiesa cattolica. Egli vi meditò molto in quei giorni e molte ipotesi passarono per la sua mente. Poi fece la sua scelta e la fece anche perché attratto dal fascino spirituale di San Filippo Neri. Qualcuno si è chiesto cosa, loro due, potessero avere in comune e la risposta è generalmente questa: ambedue hanno amato la loro Chiesa del proprio tempo, cercando come potesse risplendere agli occhi del mondo nella sua originale bellezza; entrambi sono stati attratti da un ideale monastico, ma hanno voluto viverlo nel mondo e non in un convento; l’uno e l’altro hanno avuto un animo contemplativo, ma lo hanno coniugato con una viva passione pastorale.

Ricordo un discorso tenuto da Newman il 25 gennaio 1857, per la festa della «conversione» di San Paolo (cf. Sermons preached on various occasions, VII). Lì Newman fece capire quale tipo di santità preferiva: non quella di chi si è lasciato assorbire dalla vita divina a tal punto da sembrare, pur mentre è nella vita terrena, quasi estraneo alla natura umana; preferiva, piuttosto, la santità di chi fa sì che la grazia rafforzi le sue qualità umane sicché l’essere santo non rende meno umani, ma fa crescere in bellezza l’umanità. Sono quei santi che, impegnati nella società degli uomini, comprendono il cuore dell’uomo e sanno amarlo: questi sono i santi che Newman preferiva e fra questi insieme con San Paolo c’era San Filippo Neri. Agli occhi di Newman questi due santi erano la chiara illustrazione  di ciò che può intendersi come umanesimo cristiano … Meglio: umanesimo spirituale, proprio nel senso di una umanità rinvigorita, sostenuta e innalzata dalla grazia. In questo, Newman lo dice esplicitamente in una predica fatta a Dublino nella domenica di sessagesima del 1857, San Paolo fu una sorta di «precursore» di San Filippo.

Newman lo preferì anche per il legame che vi scoprì fra preghiera e carità. In una lettera del 20 aprile 1851 scriveva che le buone opere debbono essere propter Oratorium e non Oratorium propter illa: intendeva che il compimento delle opere di carità deve avere come scopo la santificazione di chi le compie e spiegava: «San Filippo portava i suoi giovani negli ospedali, ma non ha fondato ospedali come San Camillo de Lellis; prima di fondare il suo Oratorio, ai giovani faceva fare dei pellegrinaggi per le sette basiliche romane, ma non ha costruito alloggi per i pellegrini. Tutto egli ha fatto, perfino danzare e giocare, ma sempre e tutto allo scopo di santificare».

Mi piace, da ultimo, sottolineare che di San Filippo Newman apprezzò in particolar modo la gioia. È un tema cui tengo particolarmente, poiché nella storia della santità (e un po’ ancora oggi) la santità è spesso connessa al sacrificio dell’humanum. Non senza ragione il defunto e caro Papa Francesco in Gaudete et exsultate ha ricordato che la santità «non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (n. 122). Già prima di lui Benedetto XVI aveva scritto che «La santità semina gioia e speranza, risponde alla sete di felicità che gli uomini, anche oggi, avvertono» (Discorso al collegio dei postulatori per le Cause di beatificazione e canonizzazione della Congregazione delle Cause dei Santi, del 17 dicembre 2007). In una meditazione pubblicata in italiano nel 1978, lo stesso Ratzinger aveva scritto che una delle regole fondamentali per il discernimento degli spiriti è questa: «dove manca la gioia, dove l’umorismo muore, qui non c’è nemmeno lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù Cristo. E viceversa: la gioia è un segno della grazia».

Non diversamente pensava Newman che, rivolto a San Filippo, così lo pregava: «Che il mio aspetto sia sempre aperto e allegro, e le mie parole gentili e piacevoli come conviene a coloro i quali, qualunque sia lo stato della loro vita, godono del più grande di tutti i beni, del favore di Dio e dell’attesa della felicità eterna» (Novena a San Filippo, 22 maggio). Al p. Domenico Barberi, il passionista cui aveva chiesto di essere accolto nella Chiesa cattolica (era il 9 ottobre 1845 ed è questo il giorno in cui oggi la Chiesa ne fa memoria liturgica) in una lettera del 14 marzo 1847 Newman scrisse: «Per convertire i giovani, dobbiamo essere allegri!» (The Letters and Diaries, XII, 62).

Ecco, cari fratelli, alcune delle ragioni per le quali J.H. Newman scelse il vostro Oratorio, la famiglia spirituale cui oggi voi appartenete. Di molte cose, fra quelle che ho ricordato, la Chiesa oggi ha ancora tanto bisogno. Vogliate, con la vostra vita e il vostro apostolato, non fargliele mancare.

 

Roma – Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella, 3 novembre 2025

 

Marcello Card. Semeraro