Oggi è l’ora di Newman
Omelia in preparazione alla dichiarazione di Dottore della Chiesa
Celebriamo questa Eucaristia per rendere grazie al Signore nei cinquant’anni dalla fondazione del «Centro Internazionale degli amici di Newman» (1975) e lo facciamo nel clima della memoria liturgica di san J.H. Newman celebrata lo scorso 9 ottobre. Per questo ci siamo raccolti in questa chiesa di san Giorgio al Velabro, di cui egli ebbe nel 1879 il titolo quale Cardinale-Diacono. Tutti, poi, abbiamo l’animo proteso verso l’oramai prossimo conferimento a lui del titolo di Dottore della Chiesa. Il consenso unanime suscitato da questo annuncio – anticipato, peraltro, fin da quando se ne ebbe pubblica notizia – ci dice quanto davvero sia stata opportuna questa scelta fatta a suo tempo da papa Francesco e, dopo il prescritto iter ecclesiastico presso il Dicastero delle Cause dei Santi, ratificata da papa Leone. È, però, doveroso, per noi collocare nello sfondo queste sante emozioni per fare risuonare nel nostro animo la parola del Signore.
Oggi, dal racconto del vangelo (cf. Lc 17,11-19) abbiamo udito una storia di guarigione: dieci lebbrosi, infrangendo con coraggio le prescrizioni che li obbligavano a stare lontani, vanno incontro a Gesù chiedendo misericordia: Abbi pietà di noi, gli dicono. La reazione di Gesù, però, ci sorprende. Dice loro: Andate a presentarvi ai sacerdoti! Potrebbe sembrarci disinteresse. Il comando, per di più, è anomalo e strano, perché quella norma valeva per i risanati! Gesù, però, vuole che la porta del cuore di quei poveretti cuore si apra alla speranza e loro, difatti, fiduciosi nella sua parola si mettono in cammino. Ecco, allora, che mentre essi andavano, furono purificati. C’è già qualcosa da imparare da tutto questo. Nel nostro rapporto con Dio il legame tra richiesta ed esaudimento non è qualcosa di meccanico, quasi fossimo davanti a un tasto che basta spingerlo per far giungere la luce! La fede ha bisogno di tempo per maturare e produrre frutto. Di Dio occorre fidarsi. La sua Parola deve subito metterci in cammino ed è proprio nello spazio tra la domanda e l’adempimento che la fede matura.
Il racconto evangelico, però, non si ferma qui, ma ci narra che uno di loro, un samaritano, non ritenne conclusa la sua vicenda, ma «tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo». Ed è per questo che Gesù gli dichiara: Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato. Gli altri erano stato certo guariti, ma solo questo samaritano che, torna a ringraziare, è «salvato», ossia guarito anche nel cuore. Egli, infatti, non si è fermato alla guarigione, ma ha voluto incontrare il dispensatore della grazia. La fede piena, per questo, vuole andare al di là del segno per cercare l’incontro con il Dio vivente. Sant’Ambrogio commenterà dicendo che giusto è colui che riferisce a Dio, autore di ogni bene, tutto ciò che di buono ha ricevuto e per questo lo loda. La ragione per cui quel Samaritano è preferito agli altri è perché «pur essendo stato mondato insieme con gli altri nove lebbrosi secondo il comando del Signore, lui solo tornò a Cristo glorificando Dio e rendendogli grazie» (De Cain et Abel, I, 9: PL 14, 334). Gesù non è un guaritore, ma un «salvatore».
Come avrebbe commentato questo brano san J.H. Newman? Avrebbe messo in evidenza – penso – che la fede non salva come semplice assenso intellettuale, ma come atto profondo del cuore e della volontà, che si manifesta nell’obbedienza e nella fiducia in Dio. In proposito, mi torna alla memoria un suo sermone sulla questione se i miracoli siano un rimedio contro l’incredulità (cf. Parochial and Plain Sermons VIII, 6: «Miracles no Remedy for Unbelief»). Qui egli afferma esplicitamente «che una religione dove abbondano i miracoli non è molto più influente di altre religioni». Cita per questo Lc 16,31: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti». Ciò che occorre, allora, non sono i miracoli, ma il «cuore». Sappiamo quale importanza abbia il cuore nella storia di Newman! «L’amore per il cielo è l’unica via per il cielo – diceva –. Solo l’amore di Dio può farci credere in Lui». Sanitas in charitate est, aveva scritto un monaco medievale anglosassone, ben conosciuto da Newman (Alcuino di York, In Epist. ad Titum II, 1: PL 100, 1019): la salvezza è nell’amore. «Il seme della santità è l’amore», dirà in altra occasione (Parochial and Plain Sermons IV, 21: «Faith and Love»).
Come ricordavo, siamo alla vigilia dell’ufficiale dichiarazione da parte di Leone XIV di san J.H. Newman a dottore della Chiesa. Ciò che motiva l’assegnazione di questo titolo è il riconoscimento della sua eminente dottrina: «Contribuì in maniera decisiva – come ricordato pure dal Papa – al rinnovamento della teologia e alla comprensione della dottrina cristiana nel suo sviluppo» (Angelus del 28 sett. 2025). Mi verrebbe da ripetere quel che già nel 1975 affermò san Paolo VI: oggi è l’ora di Newman (cf. Discorso del 7 aprile 1975). Montini ebbe grande ammirazione per Newman e ne sentì forte l’influsso. Di lui J. Guitton riferiva quest’affermazione: «il Concilio di Nicea fu ispirato dalla teologia di sant’Atanasio; il Concilio di Trento lo fu da san Tommaso d’Aquino; il Vaticano II sarà ispirato dal pensiero del cardinale Newman». È quanto si è verificato e ho ricordato nella mia «ponenza» al Dicastero delle Cause dei Santi in vista della concessione del titolo di Dottore della Chiesa.
Molte sono le ragioni per le quali possiamo ancora oggi ripetere la frase: è l’ora di Newman. Ne indico solo alcune. In un mondo che spesso riduce la coscienza a sentimento individuale e la verità a opinione (se pure non la svilisce nelle fake news), Newman ci ricorda che la vera libertà nasce dall’ascolto di una verità oggettiva, che interpella e orienta e che la coscienza «è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (GS 16). In un momento in cui si assiste alla polarizzazione tra razionalismo e fideismo (proprio oggi su «Avvenire», quotidiano italiano di ispirazione cristiana è apparso una intervista a un filosofo che scrive: «Ogni volta che c’è una crisi politica si gioca il potente jolly della religione. In questo si capisce il grande valore del comandamento “non nominare il nome di Dio invano”. È come se Dio dicesse lasciami fuori dalle tue cose. Non uccidere in mio nome. Non tirarmi in ballo…» [11 ott. 2025, p. 21]), Newman c’invita a una intelligenza credente, capace di dialogo con la cultura. Egli, che nella stessa sua storia personale ha sentito la fatica, ma ha pure sperimentato la gioia dello sviluppo e della crescita (l’idea dello «sviluppo» è centrale nel pensiero di Newman, ma è pure nel cuore della sua esperienza personale, annotava il card. J. Honoré), ricorda alla Chiesa che il suo rinnovamento passa attraverso la santità e la verità vissuta. Potrei continuare, ma mi fermo qui giacché questo è anzitutto il momento della preghiera e della riflessione sulla parola di Dio. Preghiamo, allora, con queste parole di san J.H. Newman: «Signore, Tu solo puoi riempire il cuore dell’uomo; e tu hai promesso di farlo. Tu sei la fiamma viva, e sempre ardi di amore per l’uomo; entra in me e accendi la tua fiamma perché io possa ardere di amore» (Meditazioni e preghiere a c. di G. Velocci, Jaca Book, Milano 2002, p. 119).
Chiesa di san Giorgio al Velabro, Roma, 11 ottobre 2025
Marcello Card. Semeraro