Omelia nella solennità del Sacro Cuore di Gesù

 

Unici e irripetibili davanti a Dio

Omelia nella solennità del Sacro Cuore di Gesù

 

Voi sapete, carissimi, che uno degli ultimi atti magisteriali di rilievo compiuti da papa Francesco è stato la lettera enciclica Dilexit nos sull’amore divino e umano del cuore di Gesù Cristo (2024). Qui il Papa inizia col ricordare che spesso noi ricorriamo al simbolo del cuore per esprimere l’amore di Gesù, ma si chiede pure se davvero oggi noi comprendiamo il valore di questa parola. In effetti, osserva, nella nostra società si preferiscono altri concetti come quelli di ragione, volontà o libertà. Aggiungerei che nel linguaggio comune e nella comunicazione quotidiana spesso il termine «cuore» è usato in modo molto generico. Penso all’uso diffuso di emoticon nei messaggi digitali per esprimere una qualsiasi forma di affezione. Abbiamo, dunque, bisogno –prosegue papa Francesco – di recuperare l’importanza del cuore, di tornare al cuore.

Al fine di operare questo recupero Francesco suggerisce di guardare al Cuore di Gesù che «è estasi, è uscita, è dono, è incontro»: il Cuore di Gesù simboleggia, infatti, «il suo centro personale da cui sgorga il suo amore per noi». Per questo, aggiunge il Papa, «in Lui diventiamo capaci di relazionarci in modo sano e felice e di costruire in questo mondo il Regno d’amore e di giustizia. Il nostro cuore unito a quello di Cristo è capace di questo miracolo sociale» (n. 28). La conclusione mi pare davvero importante: per un cristiano la devozione al Sacro Cuore non è un fatto «privato», né una «devozione» fra le altre. Tutt’altro, perché prendere sul serio il cuore ha conseguenze sociali, incoraggiando ciascuno di noi a «mutare il suo cuore, aprendo gli occhi sul mondo intero e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere insieme per condurre l’umanità verso un migliore destino»; dobbiamo, d’altra parte, ammettere pure che «gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo» (Gaudium et spes, n. 82). Tornare al cuore, in definitiva, vuol dire tornare alla propria coscienza, che è «il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (Ivi, n. 16).

È importante riprendere queste riflessione mentre oggi celebriamo la festa del Cuore di Gesù, cui pure è intitolata questa parrocchia, ed io sono contento di rivedervi, grato al vostro parroco che con il suo invito me ne ha offerta l’occasione. Aggiungiamo, allora, una riflessione su qualche altro aspetto del Cuore di Gesù e facciamolo lasciandoci ispirare dalla pagina del santo Vangelo che insieme abbiamo ascoltato, ossia la famosa parabola della pecora smarrita e ritrovata (cf. Lc 15,3-7). Forse, in tanti anni di «cristianesimo», ci siamo abituati a questa parabola e non ci meraviglia più l’agire di questo pastore. Potremmo, allora, domandarci: «Ma come? Mette a rischio novantanove pecore, lasciandole nel deserto, per andarne a cercare solo una»? Abbiamo un proverbio che dice: la spesa non vale l’impresa! E allora lasciamo perdere: quello che abbiamo ascoltato è solo un racconto!

Invece no. Esso vuole dirci che davanti a Gesù – davanti a Dio – ciascuno di noi è unico e irripetibile. Da quando quest’affermazione la lessi nell’esortazione Christifideles laici di Giovanni Paolo II non l’ho mai più dimenticata. Dice: «Dio dall’eternità ha pensato a noi e ci ha amato come persone uniche e irripetibili, chiamando ciascuno di noi con il suo proprio nome, come il buon Pastore che “chiama le sue pecore per nome”» (n. 58). Ecco perché Gesù va in cerca dell’unica pecora che si è smarrita! Per Gesù, perdere uno di noi è come perdere tutti! A tal punto ci ama. È questo, che lasciava a bocca aperta san Paolo quando scriveva: «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Nella Santa Messa, con le parole di consacrazione noi diciamo che Gesù ha versato il sangue per noi e per tutti. San Paolo diceva: per me e questo lo lasciava stupito, ammirato.

Questa unicità e irripetibilità vale pure per il nostro essere battezzati nella Chiesa. Ancora san Giovanni Paolo II scriveva che ciascun cristiano è anch’egli un essere unico e irripetibile e questo ci impegna a scoprire la nostra, propria vocazione sicché ognuno di noi, «nella sua unicità e irripetibilità, con il suo essere e con il suo agire, si pone al servizio della crescita della comunione ecclesiale, come peraltro singolarmente riceve e fa sua la comune ricchezza di tutta la Chiesa». Concludeva citando san Gregorio Magno: «Nella santa Chiesa ognuno è sostegno degli altri e gli altri sono suo sostegno» (n. 28).

Nella parabola di Gesù c’è una pecora che si smarrisce e ce ne sono altre novantanove che rimangono fedeli. Ma oggi è proprio così? Se ci guardiamo attorno nelle nostre chiese, a volte ci vien da dire che la parabola deve essere letta al contrario: novantanove pecore sono fuggite e ne è rimasta una sola! Che fare? Penso che in questo caso siano possibili quattro risposte. La prima è lo scoraggiamento, che apre la porta al rimpianto, alla nostalgia, all’addossare la colpa a tutto e tutti tranne che a sé. C’è, poi, l’incoerenza superficiale: ci si dice «cattolico», ma la propria vita è tutt’altro. Una terza reazione è l’indifferenza, ossia il rifiuto di ogni «fede» che abbia un carattere assoluto: per un verso si abbandona l’ateismo come sistema integrale di pensiero ed azione e per l’altro s’ignora la fede cristiana come sottomissione incondizionata a un sistema religioso totalizzante. L’ultima reazione – quella più insidiosa – è quella che papa Francesco chiamava mondanità: il sentirsi bravi, mentre gli altri sono cattivi… Pensiamo alla parabola del fariseo e del pubblicano (cf. Lc 18,9-14).

Riguardo a ciò, in un’udienza del mercoledì 4 maggio 2016 papa Francesco parlò del pericolo di rinchiudersi dentro un ovile «dove non ci sarà l’odore delle pecore, ma puzza di chiuso!». Subito spiegò: «E i cristiani? Non dobbiamo essere chiusi, perché avremo la puzza delle cose chiuse. Mai! … Nella visione di Gesù non ci sono pecore definitivamente perdute, ma solo pecore che vanno ritrovate. Questo dobbiamo capirlo bene: per Dio nessuno è definitivamente perduto. Mai! Fino all’ultimo momento, Dio ci cerca ... La prospettiva pertanto è tutta dinamica, aperta, stimolante e creativa. Ci spinge ad uscire in ricerca per intraprendere un cammino di fraternità. Nessuna distanza può tenere lontano il pastore; e nessun gregge può rinunciare a un fratello. Trovare chi si è perduto è la gioia del pastore e di Dio, ma è anche la gioia di tutto il gregge! Siamo tutti noi pecore ritrovate e raccolte dalla misericordia del Signore, chiamati a raccogliere insieme a Lui tutto il gregge!».

Ecco, allora, l’impegno che può nascere per ciascuno da questa festa del Cuore di Gesù: la presenza del Signore nella nostra vita ci renda sempre più gioiosi missionari dell’amore di Cristo e c’incoraggi ad andare incontro agli altri perché anche a loro si mostri la misericordia che Dio usa verso di noi.

 

Parrocchia Sacro Cuore di Gesù, Albano - Le Mole, 27 giugno 2025

 

Marcello Card. Semeraro