Sant’Antonio di Padova, strumento dello Spirito
Omelia nella solennità di Pentecoste 2025
Celebriamo oggi la Pentecoste, una festa che ci riporta ad un momento decisivo della vita della Chiesa. Il beato cardinale A.I. Schuster in una sua classica opera lo descriveva con queste parole: «la Chiesa, che fino ad oggi vagiva come in culla tra le ristrette mura del cenacolo, conseguita ormai la sua integrale perfezione, tutta radiante di santità e di verità, fa la prima apparizione al mondo…» (Liber Sacramentorum, IV, Marietti, Torino-Roma 1930, pp. 152-153). Possiamo paragonare questo momento a quanto accade nelle nostre famiglie quando, una bimba o un bimbo nati da poco, pronunciano le loro prime parole: le accogliamo con gioia e lo comunichiamo a nostra volta ai parenti e agli amici. So che a questa Santa Messa partecipano pure genitori colpiti dalla perdita di un figlio, o di una figlia e dunque questo che ho richiamato può suscitare rimpianto. Faccia sorgere, però, nel vostro animo, carissimi, anche ricordi belli e ricchi di speranza perché oggi quei figli e figlie non solo parlano, ma cantano le lodi del Signore con gli Angeli nel cielo.
Ce lo dice pure la solennità di Pentecoste che stiamo celebrando quando, con le parole del Prefazio, ricorda che agli «albori della Chiesa nascente» i linguaggi della famiglia umana furono uniti nella professione dell’unica fede. È, allora, su questo aspetto che desidero soffermarmi con voi. Durante la proclamazione della Parola di Dio abbiamo ascoltato che agli Apostoli «apparvero lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,3-4). Il racconto continua descrivendo lo stupore della gente che, pure giunta da provenienze diverse, comprese quelle parole e si domandò: «Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?» (v. 8).
Soltanto due annotazioni in proposito. La prima ci giunge dalle spiegazioni, pressoché unanimi, che i Padri della Chiesa hanno dato riguardo a questa comprensione di lingue diverse. Li ben sintetizza san Beda, un monaco benedettino del VII secolo, il quale scrive che quanto accadde a Gerusalemme è il capovolgimento di quanto era avvenuto a Babele: qui ci fu la confusione delle lingue degli uomini, a Gerusalemme, invece, l’opera dello Spirito Santo le riconciliò per l’edificazione della Chiesa, cui il Signore ha affidato la missione di annunciare il Vangelo a tutti i popoli (cf. Hexaemeron III: PL 9, 126). Da parte sua, nella tradizione greca san Gregorio di Nazianzo paragonerà l’opera dello Spirito Santo a quella di un maestro di coro che riunisce le voci più diverse in un unico canto di lode (cf. Oratio 41, 15 (In Pentecosten): PG 36, 449).
Quella dello Spirito è, dunque, opera di riconciliazione nel cuore degli uomini; un’opera che vuole risanare quel che l’orgoglio umano e le ambizioni provocano nell’animo umano. Non mi azzardo a parlare di cose di cui non sono competente, ma proprio a proposito dell’immagine della «torre di babele» ho letto da qualche parte che un’ambizione di oggi è proprio quella di «giocare a fare Dio» (playing God): ad esempio attraverso forme di abuso di potere, ma pure con forme di manipolazione genetica e anche applicazioni improprie delle intelligenze artificiali. Se è davvero così, allora abbiamo bisogno proprio di questo dono spirituale, che ci riporta nel bene comune della realtà.
C’è, però, un’altra annotazione, che raccolgo questa volta da un’Omelia di Benedetto XVI nella festa di Pentecoste. Egli faceva riferimento al fatto che le lingue attraverso cui si manifesta lo Spirito Santo sono come fuoco, dando compimento alla parola di Gesù che aveva detto: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra …» (Lc 12,49). È un fuoco che vuole rinnovare la faccia della terra, ricorda, ma avverte: «Com’è diverso questo fuoco da quello delle guerre e delle bombe! Com’è diverso rispetto a quelli accesi dai dittatori di ogni epoca, che lasciano dietro di sé terra bruciata. Il fuoco di Dio, al contrario, è una fiamma che arde, ma non distrugge; che, anzi, divampando fa emergere la parte migliore e più vera dell’uomo, come in una fusione fa emergere la sua forma interiore, la sua vocazione alla verità e all’amore» (Omelia del 23 maggio 2023). Come sono veri ancora oggi questi ammonimenti e queste parole.
Fratelli e sorelle carissimi, oggi sono qui per celebrare con voi la Santa Messa in un tempo che ci prepara pure alla festa di sant’Antonio di Padova e se ho fatto riferimento al miracolo delle lingue di fuoco l’ho fatto volutamente proprio pensando a lui. Gli antichi agiografi, lo sapete, lo esaltavano a motivo della sua profonda conoscenza della Sacra Scrittura e della sua efficace eloquenza nella predicazione; per la sua voce chiara e dolcissima, poi, percepibile e compresa da tutti Antonio era ritenuto come la «tromba di Dio»; a motivo, infine, del ritrovamento, dopo la morte, della sua lingua incorrotta, si diceva che «era stata zampogna dal suono soave e strumento della voce potente dello Spirito Santo» (cf. Legenda Benignitas, nn. 890; 894; 928: in M.T. Dolso (a cura di), «Fonti Agiografiche dell’Ordine Francescano», Efra, Milano 2014, pp. 338; 340; 354).
A questo aggiungo un particolare, che ci permette di meglio collocare la persona e il carisma del nostro santo nel contesto pentecostale. Ve lo leggo come è scritto: «Mentre l’uomo di Dio si trovava una volta presso la Curia romana per certe questioni dell’Ordine, una grande folla di lingue diverse, maschi e femmine, si trovò ad affluire colà per lucrare le indulgenze del tempo di Pasqua. Avendo predicato con grande solennità per ordine del sommo pontefice a tali pellegrini, ecco che la grazia dello Spirito Santo, come era successo ai santi apostoli nel giorno della Pentecoste, lo esaltò a tal punto e a tal punto riempì e dotò la sua facondia che ognuno riuscì a sentire con precisione e a capire chiaramente la lingua in cui era nato ed era stato educato, come molti di loro in seguito asserirono con certezza» (Legenda Benignitas cit. n. 903, p. 343). L’episodio appena riferito è da collocarsi nella Pasqua del 1228: Antonio predicò alla presenza di papa Gregorio IX, che in quell’occasione lo indicò come «arca del Testamento e scrigno delle Sacre Scritture». Un’altra tradizione, però, vuole che quanto accadde quella volta si sia ripetuto altre volte perché «faticando “come un buon soldato di Cristo” (2Tim 2,3) Antonio visitò innumerevoli provincie e, parlando la lingua del posto in modo straordinario, si presentava in modo così comprensibile agli stranieri che il suo discorso era capito da tutti, come se egli parlasse contemporaneamente molti tipi di lingue» (Leggenda Raimondina, cap. 9 in o.c. n. 993,p. 383).
Cos’era che permetteva tutto questo? Com’era possibile questa ripetizione del miracolo delle lingue di Pentecoste? Possiamo fare diverse ipotesi, ma io preferisco rispondere con una frase che troviamo nel magistero del Concilio Vaticano II, dove leggiamo che quanto avvenne a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste fu la manifestazione della «Chiesa della Nuova Alleanza, che in tutte le lingue si esprime e tutte le lingue nell’amore intende e abbraccia, vincendo così la dispersione babelica» (Ad gentes, n. 4). Ecco che cosa riunifica ciò che è disperso; ecco ciò che fa comprendere ciò che sarebbe impossibile da capire; ecco ciò che supera la lontananza e raccoglie: è l’amore. Chi vedeva e ascoltava Antonio capiva che egli era sostenuto dall’amore, dalla carità. È l’amore che permette di superare le distanze. Lo diceva già la sapienza antica: omnia vincit amor (Virgilio, Ecloga X, 69). Come non saperlo noi cristiani? Non cantiamo, forse, che «l’amore di Cristo ci ha riuniti per diventare una sola cosa, congregavit non in unum Christi amor»?
Ma c’è pure un’altra cosa che sant’Antonio raccomandava dopo avere spiegato il miracolo pentecostale delle lingue. Diceva che «le diverse lingue sono le varie testimonianze che possiamo dare a Cristo, come l’umiltà, la povertà, la pazienza e l’obbedienza: e parliamo queste lingue quando mostriamo agli altri queste virtù, praticate in noi stessi. Il parlare è vivo quando parlano le opere. Vi scongiuro: cessino le parole e parlino le opere» (Sermone nella Domenica di Pentecoste (1): ed. Messaggero, Padova 2005, pp. 376-377). Raccogliamo, allora, pure questo suo incoraggiamento alla coerenza della vita e invochiamolo con le parole di un antico inno, che ci giunge da un manoscritto polacco del XVI-XVI secolo. Esso, che comincia familiarmente: «O Antoni, o Antoni …» e si conclude invocandone l’aiuto nel cammino di santità. «O carissimo sant’Antonio, aiutaci a scalare le vette della santa montagna sicché i tuoi devoti si rallegrino con tutti i santi dell’amore di Dio … Da virtutis culmen apprehendere; qui attollunt te devoti cum justis jucundentur» (Analecta Innica M. Ae., IX, Leipzig 1890, pp. 106-107: Inno 135). Amen.
Basilica di Sant’Antonio, Padova, 8 giugno 2025
Marcello card. Semeraro