Omelia nell’ordinazione al diaconato di Nicola Garuccio
«Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro» (Mc 7,15). È su questa parola del Signore che oggi vogliamo riflettere. Essa ci rimanda a un rapporto: esteriore e interiore, che nella nostra realtà umana potrebbe anche essere la relazione tra corpo e animo, tra vita fisica e vita spirituale, tra ciò che appare all’esterno e quanto si realizza nel cuore … un rapporto che dovrebbe essere coordinato e armonico e che spesso, invece, è di opposizione, di antagonismo, disaccordo. Il racconto stesso vangelo ci presenta uno scenario contrapposto: da una parte si parla di bicchieri, stoviglie, oggetti di rame ecc., da lavare, pulire; dall’altra c’è semplicemente il «cuore», che nel linguaggio della Bibbia è ciò che Dio guarda (cf. 1Sam 16,7), il luogo dove lo si ascolta, dove si è a tu per tu con Lui. Il «cuore», tuttavia, è pure la possibilità nostra di essere talmente resistenti e duri, che neppure Dio riesce a penetrarvi ed è la sklerokardìa, di cui leggiamo pure nei vangeli.
In Maria, però, «cuore» è anche lo spazio dove «custodire» l’opera di Dio. Maria la «custodisce» al punto da sperimentare in sé ciò che la Lettera agli Ebrei dice della sua Parola: «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (4,12). La Vergine raffigurata col cuore trafitto dalla spada non è soltanto quella che la tradizione cristiana ci presenta come «Addolorata», ma è tutta Maria. È la Donna il cui cuore non era indurito, ma tenero e pronto farsi raggiungere dalla Parola di Dio.
Come madre di Gesù e sposa di Giuseppe, nei trent’anni di Nazareth Maria avrà pure spazzato per casa, rifatto i letti, preparato i pasti e lavato bicchieri … e questa è la Maria di Nazareth, che Paolo VI evocò il 5 gennaio 1964 durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa, raccogliendo dalla casa di Nazareth ammonimenti per la vita di famiglia, il lavoro quotidiano. La Maria evocata da Simeone col cuore trafitto dalla spada (cf. Lc 2,35), però, è la figura di chi si lascia aprire per un nuovo parto e vedere così allargata la sua maternità divenendo per noi «Madre nell'ordine della grazia» (Lumen gentium, n. 61; CCC 968).
Ricordo una simpatica vignetta preparata da un sacerdote veronese (don Giovanni Berti), che alcuni anni or sono ho avuto occasione d’incontrare qui ad Albano. Lì è raffigurato l’Eterno Padre sdraiato su di una nuvola, affannato e sudato come siamo stati un po’ anche noi nell’eccezionale calura estiva di quest’anno. Vicino è raffigurato un angioletto, che, mentre gli procura sollievo agitando un ventaglio, gli domanda: «Stanco per tutto il lavoro di creare l’immensità del cosmo, con stelle, pianeti e creature che li abitano?». Dio gli risponde: «No… il lavoro più duro è quello di entrare nel cuore dell’uomo…».
Carissimo Nicola, stai per essere ordinato Diacono. Potrai pensare che il tuo ministero si esaurisca nel leggere, o cantare il vangelo durante la Messa; potrai pensare che la tua occupazione più importante sia quella di rivestirti di camice, stola e dalmatica per il servizio liturgico e, magari, starai già pensando alla casula da acquistare per l’ordinazione sacerdotale. Mi limito qui. Ci sono, purtroppo, dei sacerdoti, novelli e non, che pensano pure ad altro… dimenticando che la liturgia deve essere non soltanto bella, ma anche semplice, dignitosa e, soprattutto, seria (come si legge in un documento dell’Episcopato italiano ed io ho spesso ripetuto negli anni del mio ministero in questa Chiesa di Albano).
Carissimo Nicola, quando nello svolgimento di un sacro rito leggerai una pagina di vangelo, ricordati che la fatica più grande – e questo non soltanto per un diacono, o un presbitero, ma pure per ogni altro operatore pastorale – è quella di fare entrare il Vangelo nel cuore dell’uomo. Come è accaduto per Maria. Nell’esortazione Marialis cultus, presentando Maria come Vergine in ascolto, Paolo VI scriveva: «Ella, protagonista e testimone singolare della Incarnazione, ritornava sugli avvenimenti dell’infanzia di Cristo, raffrontandoli tra loro nell’intimo del suo cuore. Questo fa anche la Chiesa, la quale, soprattutto nella sacra Liturgia, con fede ascolta, accoglie, proclama, venera la parola di Dio, la dispensa ai fedeli come pane di vita e alla sua luce scruta i segni dei tempi, interpreta e vive gli eventi della storia» (n. 17).
Tutto questo, mio carissimo, è molto più faticoso del cantare il vangelo, del preparare il pane e il vino per la Messa, dell’invitare alla pace, dello sciogliere l’assemblea liturgica, dell’indossare la talare e il clergyman, del mettere una cotta con o senza merletti… Mettere queste cose, pur legittime, al primo posto nel ministero, sarebbe un pensare alle abluzioni, alle lavature di bicchieri, di stoviglie, ecc. che Gesù bolla come «ipocrisia». Questa parola vuol dire attore ed anche simulatore. Per i greci e i latini «ipocriti» quelli che negli spettacoli si travestivano, si dipingevano il volto e con la voce e i gesti imitavano un qualche personaggio estraneo. Ma noi, qui siamo nella morale e nella vita spirituale sicché Alano di Lilla, un monaco cistercense vissuto agli inizi del XIII secolo, paragonava gli ipocriti agli struzzi: hanno il corpo grande, pieno di penne ed hanno anche le ali, ma perché appesantiti non possono volare; così l’ipocrita che, a suo dire, sembra avere tante virtù sì da rassomigliare ai santi, ma non sa volare verso Dio (cf. Distinct. Dict. Theol. H: PL 210, 810). Molto sinteticamente, l’ipocrita usa le parole dei santi, ma non ne ha la vita; il suo impegno non è offrirsi a Dio, ma esporsi alla vista degli uomini (Isidoro di Siviglia, Sententiae XXIV, 1-2: PL 83, 699).
Il rischio di una religione di facciata non è soltanto di quelli che Gesù rimprovera nel racconto del vangelo di questa Domenica. È anche di noi cristiani, in particolare di noi ecclesiastici, religiosi. È un aspetto triste del clericalismo, che Benedetto XVI indicò come «una tentazione dei sacerdoti in tutti i secoli» (Colloquio nella Veglia in occasione dell’incontro internazionale dei sacerdoti a conclusioni dell’anno sacerdotale, 10 giugno 2010). Il ministero sacro è l’opposto dell’ipocrisia. Il compito di un buon attore è di rappresentare bene il personaggio che raffigura; tanto più bravo, anzi, egli è, quanto meglio sa farlo nascondendo se stesso. Il cristiano, al contrario, non trasforma mai la sua fede in una recita, ma si impegna a renderla vita reale. Tu, come diacono oggi e poi come presbitero, sei chiamato a mostrare il volto di Cristo: è questo il significato dell’agere in persona Christi. Questo, carissimo, non sia la maschera da indossare in qualche momento della tua vita, un trucco che dura per il tempo di un rito liturgico. Sia, piuttosto, la verità della tua vita ogni giorno.
È singolare che nel mio ministero episcopale la prima ordinazione sacra sia stata quella di un diacono. La celebrai il 7 dicembre 1998, la vigilia dell’Immacolata Concezione. Oggi come pastore di questa Chiesa di Albano celebro per l’ultima volta una sacra ordinazione ed è ancora quella di un Diacono. Conclusi l’Omelia con alcune parole, che oggi sintetizzo per te, caro Nicola, e non per te soltanto, ma idealmente per tutto il nostro presbiterio, al quale ora desidero rivolgermi: Ora tu sei certamente un servo, ma sei anche di più, perché il Signore già sta per dirti: «Non ti chiamo più servo, ma amico» (cf. Gv 15,15): un amico, che fa partecipe di una speciale relazione col Padre, un amico che ama al punto da imprimergli il sigillo della paternità stessa di Dio. Quando sarai ordinato presbitero, caro Nicola, non sarai chiamato «servo», «diacono», ma «padre». Diverrai «padre» nella Chiesa, tu che ora sei «servo». Diverrai «padre» se, però, avrai fede come Abramo e come Giuseppe, lo sposo verginale di Colei, che invochiamo Madre di Dio e Madre nostra amantissima. Prima che di essere ordinati preti, la Chiesa vuole che si sia ordinati diaconi. Lo ha voluto per tutti i nostri sacerdoti e lo ha voluto anche per me, che poi sono stato ordinato vescovo, e per il carissimo Vincenzo, il vescovo eletto che, per mandato del Papa, ordinerò nella prossima festa della Natività della Vergine. La Chiesa vuole che 4 sia così, perché tutti e sempre ricordiamo che la Chiesa si serve e non ci si serve della Chiesa. Nella Chiesa, «servire» non è un elenco di cose da fare, ma prima di tutto un modo di essere, una forma di vita. Né mai si cessa di rimanere servi e, come scrive Agostino, a nulla vale presiedere, se agli altri non si presta la cura, il soccorso e l’aiuto (cf. De civitate Dei XIX, 19: PL 41, 647).
Marino-Frattocchie
Abbazia Nostra Signora del Santissimo Sacramento
28 agosto 2021 – XXII Domenica del t.o.
Marcello Card. SEMERARO